Prove di separazione

Danilo Di Mauro

E’ possibile ipotizzare che il criticismo italiano investirà le prossime elezioni europee, mentre l’impatto sulle recenti elezioni nazionali è ancora sottoposto a valutazione. Anche il risultato di un eventuale referendum sull’euro appare, ad oggi, tutt’altro che scontato.

Da sempre considerati tra i popoli più eurofili dell’Unione, sembra che gli Italiani, negli ultimi tempi, abbiano cominciato a guardare a Bruxelles con occhi diversi. Questo ripensamento, tuttavia, non è del tutto nuovo per gli analisti. All’indomani del trattato di Maastricht, e più marcatamente nel corso degli ultimi dieci anni, il consenso degli Italiani verso le istituzioni europee ha subito un progressivo declino. Tra il 1999 ed il 2003, in media, oltre il 60% degli Italiani dichiarava di considerare l’adesione del nostro Paese all’Unione Europea come “un bene”. Trascorso circa un decennio, nel 2011, solo il 41% sosteneva la medesima posizione. Altri indicatori degli atteggiamenti verso l’Unione mostrano tendenze simili: la percentuale di coloro che ritengono che l’Italia abbia beneficiato della partecipazione alla UE è passata dal 49% del 2003 al 43% del 2011; sempre nel 2003, il 69% del campione italiano aveva fiducia nel Parlamento Europeo ed il 60% nella Commissione, percentuali che, al 2012, hanno riportato un calo, rispettivamente, di 34 e 28 punti. Anche il senso di identità europeo espresso dagli Italiani sembra aver subito un netto calo: nel 2010, metà del campione italiano si dichiarava, a vario titolo, “Europeo”. Dieci anni prima, questo gruppo ammontava al 75%.
Una visione critica e disincantata dell’Europa ha trovato, dunque, spazio tra l’opinione pubblica italiana in maniera progressiva. In poco più di un decennio, gli Italiani sono passati da strenui sostenitori delle istituzioni europee a critici insoddisfatti.
Più di recente, questo criticismo ha toccato anche la moneta unica. L’introduzione dell’euro è stata accolta con qualche preoccupazione e notevole entusiasmo: nel 2002 questo processo veniva valutato positivamente dal 72% degli Italiani. Dieci anni dopo, un’analisi del Pew Research Center mostra che il 44% degli Italiani pensa che l’euro abbia avuto ripercussioni negative. In particolare, solo una risicata maggioranza (il 52%) è ancora convinta di mantenere l’euro come moneta, mentre il 40% propone di ritornare alla vecchia lira.
Le conseguenze di questi atteggiamenti, sebbene abbiano in potenza ripercussioni imponenti, non sono facilmente valutabili. E’ possibile ipotizzare che il criticismo italiano investirà le prossime elezioni europee, mentre l’impatto sulle recenti elezioni nazionali è ancora sottoposto a valutazione. Anche il risultato di un eventuale referendum sull’euro appare, ad oggi, tutt’altro che scontato. Non è detto, infatti, che gli atteggiamenti critici nei confronti dell’Europa generino comportamenti di aperto rifiuto delle istituzioni e della moneta unica.
Se al posto delle conseguenze guardiamo, invece, alle cause di questi atteggiamenti, è possibile offrire un’interpretazione della legittimità delle istituzioni europee agli occhi dei propri cittadini. In questa prospettiva, recentemente, gli scienziati sociali hanno iniziato a cercare le cause del dissenso italiano.
Nonostante queste ricerche siano ancora in via di sviluppo, sembra che almeno due elementi, in linea con i risultati della letteratura a livello europeo sull’argomento, mostrino una relazione con il declino del consenso verso l’Europa. Si tratta, in particolare, della percezione dei benefici derivanti dalla membership europea (analisi dei costi e benefici) e del rapporto tra immagine delle istituzioni nazionali ed europee. Sul primo punto, sembra che l’Unione Europea non rappresenti più quell’ideale di crescita e prosperità che incarnava durante gli anni ‘90. La crisi economica ha contribuito ad accelerare questa percezione: l’Unione non è capace di proteggere i propri membri dalla recessione, né di assicurare una crescita continua nel tempo. Al contrario, essa può produrre politiche di austerità che sfuggono al controllo dei propri cittadini.
Un approccio teorico differente, invece, mette in evidenza che aspetti di politica interna influiscono sulle attitudini nei confronti della UE. Secondo questa prospettiva, la famigerata insoddisfazione degli Italiani per le istituzioni nazionali investe allo stesso modo quelle europee. Di fatto, a partire da Maastricht, gli Italiani (come gran parte dei cittadini degli altri Stati firmatari del Trattato) hanno assistito alla concretizzazione del progetto europeo osservando le ripercussioni dirette delle decisioni assunte a Bruxelles sulle loro vite e su quella delle loro comunità. L’Unione Europea, da soggetto ideale, è diventata un sistema reale capace di produrre politiche e, per questo, destinatario di domande da parte dei propri cittadini. D’altra parte, però, il processo di integrazione europea non è ancora riuscito a creare un collegamento diretto tra cittadini ed istituzioni. Il sistema politico europeo consta di meccanismi decisionali complessi, sconosciuti ai più, in cui Stati e rappresentanti dei cittadini concorrono alla creazione delle norme. Ciò che succede a Bruxelles, poi, è “filtrato” da stampa e partiti nazionali, permettendo spesso ai partiti di scaricare oltre confine la colpa di politiche impopolari e problemi irrisolti. Difficile, inoltre, creare un’affiliazione dei cittadini a livello europeo: le elezioni europee continuano a mostrare un carattere di “secondo ordine”, sostanzialmente basato su questioni nazionali, mentre manca ancora un organo di governo dotato di legittimità popolare facilmente identificabile. Questi ed altri elementi del cosiddetto “deficit democratico” europeo generano il paradosso delle attitudini verso l’Unione: da un lato, questa è un sistema istituzionale effettivo e destinatario di domande (che riguardano servizi, norme, politiche, ecc.); dall’altro, essa non può dialogare con i propri cittadini se non attraverso il “filtro” nazionale. E’ in questo paradosso che si riassume l’identikit del “gigante europeo”, ancora una volta dotato di piedi d’argilla perché incapace (al pari delle istituzioni nazionali) di avere un rapporto diretto con i propri cittadini e riceverne legittimazione.
Considerando il paradosso della legittimità europea, il caso italiano appare meno sorprendente del previsto. Alla stregua dei Paesi che hanno espresso profonde rotture col sistema europeo (si pensi, ad esempio, ai referendum che hanno rifiutato la Costituzione Europea), gli Italiani non riescono a dialogare con le istituzioni di Bruxelles. Si tratta di un problema di comunicazione strutturale di difficile soluzione se non si agisce sul deficit democratico. Un problema che lascia diversi interrogativi sulle possibili conseguenze per la partecipazione italiana all’Unione (non tanto sul se, ma sul come), ma che, almeno, può far convergere diverse opinioni su un punto: se le istituzioni europee non adottano un piano di riforme democratiche, non possono aspettarsi piena legittimità da parte dei propri cittadini.

Danilo Di Mauro
PhD in Political Science at the Italian Institute of Human Science (SUM) di Firenze

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