Riciclaggio politico

Andrea De Petris

Il problema della selezione dei candidati rappresenta uno degli aspetti più stringenti e complessi del noto tema della democrazia interna dei partiti. La decisione sulla composizione delle liste rischia di rimanere del tutto autoreferenziale.

Il fenomeno del “riciclaggio” delle candidature rappresenta, da alcuni anni a questa parte, uno dei tratti caratteristici del sistema partitico italiano. Non che in passato esistesse una particolare apertura alla società civile nella determinazione dei soggetti candidati nelle liste delle varie formazioni politiche in campo, tuttavia, quanto meno con la modifica in senso tendenzialmente maggioritario del sistema elettorale, attuata a seguito del referendum popolare del 1993, le segreterie di partito erano consapevoli che tre quarti dei seggi disponibili in Parlamento venivano assegnati attraverso il confronto diretto tra i propri rappresentanti nei singoli collegi. Di conseguenza, erano tenute a verificare di volta in volta se il candidato scelto avesse il sufficiente appeal per guadagnarsi il consenso della maggioranza degli elettori in ciascuna circoscrizione. La possibilità che un “riciclato della politica”, magari colpito da vicende giudiziarie all’esame della magistratura, o anche solo esponente della consueta nomenclatura di partito, tentasse di nuovo la sorte delle urne, risultava in qualche misura limitata dalla consapevolezza dei partiti che i cittadini avrebbero potuto tenere conto della storia politica (e giudiziaria) dei candidati, punendo questi ultimi e, indirettamente, i soggetti politici che ne avevano avallato la ricandidatura.
Con il passaggio allo sciagurato sistema elettorale attualmente in vigore, questa sorta di “moral suasion” sugli organi direttivi dei partiti in merito alla composizione delle liste dei candidati è venuta meno. Come è noto, il metodo di trasformazione dei voti in seggi in vigore attualmente in Italia per la composizione del Parlamento nazionale è tutto incentrato sulla concentrazione nelle mani delle segreterie di partito di decidere autonomamente le modalità di selezione dei propri candidati, nella consapevolezza che all’elettore è lasciata la sola possibilità di scegliere una delle diverse liste in competizione, senza tuttavia poter esprimere alcuna preferenza per l’uno o l’altro degli esponenti di partito che ne fanno parte. Il criterio della lista bloccata, unito al sistema del premio di maggioranza per la lista o la coalizione che raggiunga la maggioranza relativa dei voti, pone i cittadini di fronte al poco invidiabile compito di scegliere se “prendere o lasciare” in blocco il partito prescelto, senza alcuna possibilità di concorrere a determinare chi materialmente debba sedere in Parlamento a rappresentarne le posizioni politiche. In queste condizioni, la possibilità che ad ogni elezione vengano tentate operazioni di “riciclaggio” di candidati a danno della libertà di scelta degli elettori è estremamente elevata. Certamente, ogni partito è consapevole che una lista che presenti soggetti di dubbia moralità, o con posizioni pubbliche problematiche, rappresenta un rischio rispetto alle proprie possibilità di successo. Tuttavia, si tratta di un rischio in larga misura calcolato, in quanto, in un sistema partitico almeno fino ad ora fortemente strutturato in senso bipolare come quello italiano, la scelta del cittadino viene vissuta in primo luogo come scelta di campo, con l’elettore nella maggior parte dei casi più portato a premiare la formazione politica di riferimento, senza tenere in gran conto se, con la propria preferenza di lista, si favorisca la rielezione di soggetti politicamente poco ortodossi.
Il problema della selezione dei candidati rappresenta uno degli aspetti più stringenti e complessi del noto tema della democrazia interna dei partiti: la scelta dei Costituenti di limitare la regolamentazione del partito politico alla sola attività esterna ha lasciato sostanzialmente libere le formazioni politiche di decidere se e come disciplinare tutti gli aspetti della loro organizzazione interna. Di conseguenza, anche la decisione sulla composizione delle liste rischia di rimanere del tutto autoreferenziale sia rispetto alle aspettative degli iscritti ai singoli partiti, sia per la pluralità dei cittadini che, secondo l’art. 49 della Costituzione, sono liberi di utilizzare la forma associativa del partito politico per “concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Il “combinato disposto” della non-disciplina interna dei partiti unita all’attuale sistema elettorale, dunque, comprime pesantemente la possibilità che l’elezione parlamentare costituisca, tra l’altro, un’opportunità per l’elettorato di selezionare una rappresentanza politica adeguata alle esigenze della società.
Da questo punto di vista, il caso italiano rappresenta indubbiamente un unicum nel panorama delle cosiddette Democrazie consolidate. Altrove, almeno uno dei due elementi considerati (sistema elettorale o metodo di selezione delle candidature) consente, di norma, una diretta partecipazione popolare alla determinazione della selezione dei futuri rappresentanti del popolo. Un maggior grado di democraticità viene offerto chiaramente dai sistemi elettorali a tendenza maggioritaria, nei quali il voto del cittadino contribuisce direttamente a selezionare il candidato in grado di conquistare uno dei seggi in palio, generando quel circolo almeno potenzialmente virtuoso già accennato in termini di qualità dei rappresentanti del popolo. Certamente, questo effetto sarà tanto più forte quando più diretto risulti il rapporto tra candidato e collegio elettorale: in questo senso, il sistema elettorale britannico, in gergo noto con la formula “First-past-the-Post”, che premia il candidato capace di conquistare la maggioranza relativa dei voti nel collegio in cui si presenta, appare particolarmente indicato a responsabilizzare gli apparati di partito nel momento in cui devono essere definite le candidature per ciascuna circoscrizione elettorale. È anche vero, tuttavia, che il monitoraggio costante degli orientamenti di voto nei singoli collegi consente di individuare con una certa sicurezza quali possano essere considerati i collegi “sicuri” per ciascuna delle diverse compagini politiche in campo: in questi frangenti, la tentazione di presentare candidati discutibili per la conquista di seggi considerati “blindati” può essere forte anche per le segreterie dei partiti britannici. Ciononostante, il ricorso a metodi di selezione delle candidature che coinvolgono l’insieme degli iscritti risulta ancora un elemento consolidato del sistema partitico del Regno Unito.
Pur con tutte le differenze del caso, una valutazione simile può essere espressa anche in relazione alla Francia. Come è noto, in questo caso il sistema elettorale per le elezioni parlamentari adottato è sempre maggioritario, ma a doppio turno, con un possibile ballottaggio tra i candidati parlamentari che abbiano raggiunto il 12,5% delle preferenze calcolate sulla base del numero degli aventi diritto al voto (corrispondenti a circa il 20% dei voti validi). L’effetto complessivo del sistema dal punto di vista della selezione delle candidature è ad ogni modo simile a quello britannico: i partiti sono chiamati ad individuare al proprio interno esponenti capaci di raccogliere il maggior numero di consensi in ciascun collegio al fine di avere le migliori possibilità di conquistare il seggio in palio. Ovviamente, anche in questo caso la consapevolezza di avere a disposizione collegi sicuri pone i partiti di fronte alla tentazione di riservarne alcuni per personalità prive di un “curriculum” specchiato, e dunque in grado di superare la selezione popolare in una competizione più aperta. Complessivamente, tuttavia, l’analisi politologica mostra come, pur con differenze rilevanti sul piano organizzativo, anche i partiti politici francesi lascino un sufficiente spazio agli strumenti di democrazia interna nell’individuazione dei candidati più idonei alla competizione elettorale.
Se si passa all’esame di un sistema tendenzialmente proporzionale, come quello tedesco, lo scenario non cambia di molto. In primo luogo perché il metodo elettorale adottato in Germania è, per l’appunto, solo per il 50% proporzionale: la metà dei seggi del Bundestag viene infatti assegnata con il più classico dei “First-past-the-Post”, al pari di quanto accade in Gran Bretagna. Va da sé che per questa quota di rappresentanza parlamentare si applica quanto detto per il Regno Unito in termini di necessità di selezione di candidati capaci di conquistare il più possibile le preferenze ad personam espresse dai cittadini, valutando di volta in volta gli indicatori disponibili sugli orientamenti dell’elettorato in ciascun collegio. La restante parte dei seggi viene invece assegnata con un sistema proporzionale razionalizzato a lista bloccata: gli elettori votano per la lista corrispondente al partito prescelto, ma senza possibilità di esprimere preferenze per i candidati inseriti nelle liste. L’apparente similitudine con il sistema italiano viene tuttavia rapidamente smentita non appena si allarghi lo sguardo sul metodo adottato dai partiti tedeschi per selezionare le personalità da inserire negli elenchi dei rispettivi candidati: qui, a differenza che in Italia, la stringente disciplina delle compagini politiche coinvolge anche le modalità di scelta dei candidati, affidate obbligatoriamente alle assemblee degli iscritti. A ciascun livello di rappresentanza, quindi, saranno i rispettivi congressi di partito locali, regionali o nazionali a votare al loro interno per selezionare gli esponenti chiamati a concorrere per la quota proporzionale di seggi in palio per ciascuna competizione. Non è un caso che nella dottrina politica il modello tedesco contemporaneo ricada sotto la formula “democrazia di partiti”, ad intendere una centralità vincolante del metodo democratico anche nel funzionamento interno delle formazioni politiche, comprese le modalità di selezione dei candidati.
Nulla di tutto questo è presente oggi nel sistema italiano: né sul piano della scelta elettorale, né su quello della selezione dei candidati il nostro ordinamento prevede elementi in grado di ricondurre ad una decisione in qualche misura democratica, sia pure interna all’apparato partitico, l’individuazione dei soggetti inseriti nelle liste. L’esame delle esperienze straniere considerate ci fornisce molte suggestioni, ma un insegnamento spicca su tutti: non basta un sistema elettorale, per quanto incentrato sulla diretta espressione delle preferenze personali da parte dei cittadini, per escludere con verosimile certezza i rischi di candidature “riciclate” ed indesiderabili. A questo indispensabile strumento deve affiancarsi un adeguato apparato normativo di disciplina interna dei partiti, che imponga loro l’adozione di metodi trasparenti e democratici anche nella selezione dei candidati, magari a pena di decadenza dei benefit loro garantiti dall’erario pubblico, come i rimborsi elettorali. Nelle ultime due legislature, per ragioni ben note, non si è voluto o potuto mettere mano all’argomento. Il Parlamento italiano che si insedierà nelle prossime settimane, quale che ne sia la composizione politica, dovrà necessariamente porre il tema della scelta delle candidature politiche, unitamente a quello della loro selezione elettorale, in cima alla lista dei provvedimenti da realizzare se vorrà evitare che le pratiche di “riciclaggio” condizionino in modo endemico la composizione della rappresentanza politica anche per gli anni a venire.

Andrea De Petris
Professore Associato di Diritto Pubblico Comparato alla LUISS ‘Guido Carli’ di Roma

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