Il (mancato) rinnovamento della politica

Michele Sorice

La selezione, affidata ai gruppi dirigenti dei partiti, potrebbe teoricamente rappresentare uno strumento di controllo idoneo a qualificare la presenza elettorale e dunque la rappresentanza parlamentare. Questo, però, non accade.

1. Governabilità e rappresentanza
Il cosiddetto “Porcellum” – la legge elettorale n. 270 del 21 dicembre 2005, quella con cui voteremo per eleggere il Parlamento della XVII legislatura – costituisce un raro esempio di negazione sostanziale del binomio “governabilità-rappresentanza”, che dovrebbe essere a fondamento di un sistema elettorale democratico. Il “Porcellum”, infatti, ha messo fine all’esperienza della legge Mattarella (leggi 276 e 277 del 4 agosto 1993) che peraltro rispondeva al dettato popolare, espresso attraverso il referendum del 18 aprile 1993 (indetto, fra l’altro, per combattere il sistema delle preferenze che negli anni ‘70 e ‘80 era stato spesso usato come strumento di controllo mafioso dei voti). La legge, che lo stesso primo firmatario (l’on. Calderoli), definì una “porcata” (da cui l’espressione “Porcellum” coniata da Giovanni Sartori) otteneva alcuni scopi politici importanti. Due quelli che considero i più rilevanti: 1) l’abolizione dei collegi uninominali e 2) la sostanziale privazione di potere decisionale dell’elettorato attraverso il meccanismo delle liste bloccate.
I collegi uninominali costituiscono un’architettura istituzionale complessa nella sua organizzazione, ma semplice per l’elettorato: ogni partito o coalizione presenta un solo candidato che, per ottenere il consenso necessario, ha bisogno di essere presente sul territorio, deve apparire credibile e costruire un rapporto fiduciario non solo col suo elettorato di riferimento, ma anche con buona parte delle cittadine e dei cittadini del collegio stesso. Personalmente, sono dell’idea che la soluzione migliore per l’Italia (per la sua storia, per la frammentazione della rappresentanza sociale e per la pluralità delle espressioni politiche) non sia il meccanismo di plurality (che di fatto implica il turno unico, come era nel Mattarellum) bensì quello che consente anche aggregazioni di programma su candidati autorevoli e scelti realmente dai cittadini: in sostanza, collegi uninominali con votazione in due turni. La legge Calderoli, comunque, cancella il collegio uninominale, vanificando la spinta maggioritaria che proveniva dai referendum del 1993 e riportando il sistema elettorale ad uno strano proporzionale ibrido.
Le liste bloccate, invece, impedendo anche le vecchie preferenze del proporzionale puro, consegnano alle élites dirigenti dei partiti il potere di scelta degli eletti: l’ordine di presenza in lista diventa dirimente e solo esso (unito al risultato complessivo del partito) consente o meno l’elezione. Il Parlamento degli eletti diventa così – come è stato più volte messo in risalto – l’assemblea dei nominati.
In realtà, qui siamo di fronte ad un curioso paradosso: se il meccanismo delle liste bloccate limita fortemente il potere degli elettori, lo stesso sistema potrebbe, teoricamente, garantire un controllo accurato nelle dinamiche di reclutamento, limitando fortemente gli aspetti negativi dei cosiddetti winnowing effects (gli “effetti setaccio”, che spiegano come la selezione delle classi dirigenti sia influenzata da variabili come la presenza scenica, le logiche di spettacolarizzazione, ecc., a detrimento del possesso effettivo e certificato di competenze politiche). In altre parole, la selezione, affidata ai gruppi dirigenti dei partiti, potrebbe teoricamente rappresentare uno strumento di controllo idoneo a qualificare la presenza elettorale e dunque la rappresentanza parlamentare. Questo, però, non accade. La scelta, infatti, ricade per lo più su soggetti che hanno fra i principali meriti: a) essere fedele al leader (o, peggio ancora, al capo-corrente); b) non rappresentare un problema di coesione ideologica della formazione politica; c) possedere un bacino elettorale potenziale consistente (che esso sia conseguenza di un buon lavoro politico sul territorio o solo il frutto di clientele oltre il lecito, poco importa). Al deficit di rappresentanza si somma, così, un degrado culturale e politico dei nominati che, nella migliore delle ipotesi, sono semplicemente vecchi e/o con molti mandati parlamentari alle spalle, nella peggiore possono persino essere personaggi discussi o collusi con organizzazioni malavitose, riciclati idonei a qualunque stagione, soggetti a cui il leader deve qualcosa (in termini politici e/o sostanziali).
In questa situazione, quali sono le possibili misure di trasformazione, o almeno di attenuazione, degli effetti più deleteri dell’assenza di rappresentatività?
2. Le elezioni primarie
Le primarie per la scelta dei leader e delle candidate e dei candidati al Parlamento potevano (possono) rappresentare uno strumento efficace per sottrarre al controllo esclusivo degli apparati di partito la selezione della classe politica. Le primarie, in effetti, sono un metodo di selezione (e non di elezione) dei candidati che dovranno poi concorrere alla competizione elettorale. Quelle americane – spesso citate a sproposito – sono primarie “dirette” poiché presumono il coinvolgimento diretto degli elettori nella scelta dei candidati. In realtà, non c’è un solo tipo di elezione primaria e gli USA, da questo punto di vista, costituiscono un laboratorio interessante, già attivo dalla fine dell’Ottocento: i sistemi adottati nel corso del tempo e nei diversi Stati sono infatti diversi. Tutti, comunque, mirano al coinvolgimento democratico dei cittadini. Ovviamente, ci sono rischi anche nell’esercizio democratico delle primarie. In un articolo dell’ormai lontano 2002, Sergio Fabbrini scriveva: “L’apertura dei partiti alla società non costituisce un avanzamento del processo democratico, se tale apertura finisce per favorire i candidati ricchi, o con gli amici influenti o con gli accessi privilegiati al sistema informativo. Dunque, primarie di coalizione sì, ma all’interno di un contesto governato da regole che garantisca una basilare eguaglianza delle opportunità e un esito selettivo rappresentativo. Insomma, tra il partito del candidato americano e il partito d’apparato europeo, il riformismo deve perseguire una strategia alternativa. Quella del partito coalizionale, estroverso e maggioritario. (…) La primaria di coalizione, se opportunamente regolata, è un metodo appropriato di fare emergere una maggioranza politica, in quanto fornisce a quest’ultima quella legittimazione dal basso che le consente di farsi riconoscere come tale anche dalla minoranza; liberando così il processo decisionale interno al partito coalizionale dall’immobilismo imposto dai veti reciproci dei vari gruppi che costituiscono la coalizione”. In Italia, il meccanismo proposto da Fabbrini è stato usato per la prima volta nel 2012 dalla coalizione Italia Bene Comune, composta da partiti (Pd, Sel, Centro Democratico, Psi, Moderati) e candidati che hanno sottoscritto una carta d’intenti pubblica. Successivamente, i due principali partiti della coalizione (Pd e Sel) hanno indetto anche le primarie dirette per la selezione del 75% dei candidati alle elezioni.
L’entusiasmo seguito alle primarie del centrosinistra aveva fatto sperare nell’adozione di tale sistema di selezione anche da parte degli altri partiti. Così purtroppo non è stato, se si eccettua il Movimento Cinque Stelle, che ha indetto un meccanismo di selezione on-line non del tutto chiaro nelle regole.
Il famigerato “Porcellum” è diventato così, ancora una volta, obbligante nel determinare la composizione del Parlamento della XVII legislatura, il cui tasso di novità dipende esclusivamente dalle scelte degli apparati dei partiti (eccetto, in buona parte, per il Pd, ovviamente). La legge elettorale, in altre parole, pre-determina di fatto la composizione del Parlamento, facendo venire meno proprio quel binomio – governabilità e rappresentanza – che contraddistingue una buona e democratica legge elettorale.
3. Casta o riciclati?
C’è, infine, un’ultima considerazione da fare sulla sovrapposizione semantica di due termini “negativi” (casta e riciclati) con un termine con accezioni per lo più neutre (vecchi) ma che in questo contesto tende ad assumere connotazioni negative.
La legge elettorale vigente tende (senza l’attenuazione esercitata dalle primarie) a rafforzare il ruolo dei parlamentari uscenti che solitamente godono di una maggiore visibilità e di una rete sul territorio più ampia, senza dimenticare che hanno più possibilità di rispondere direttamente ai leader di partito (rappresentando, quindi, un valore aggiunto per gli apparati). Non tutti i parlamentari uscenti, però, sono riciclati della politica, personaggi capaci di cambiare casacca più volte anche nel corso della stessa legislatura, secondo le convenienze momentanee (tanto non devono poi rispondere del loro comportamento all’elettorato). Alcuni costituiscono semplicemente un potenziale di esperienza che può essere utile per l’istituzione parlamentare: un Parlamento senza memoria storica e composto solo da neofiti non rappresenta necessariamente un vantaggio per le funzionalità istituzionali.
Il problema è che, molto spesso, i “vecchi” parlamentari godono di rendite di posizione: è questo che ha favorito l’uso del termine “casta”, spesso imposto dagli interpreti dell’antipolitica. In realtà, l’attacco ai “politicanti” di professione appartiene alle usuali retoriche dell’antipolitica, spesso alimenta il populismo e non è appannaggio solo dei movimenti di protesta: nel 2007, nel famoso “discorso del predellino”, lo stesso Berlusconi annunciò la fondazione del nuovo partito (il Pdl), che sarebbe nato dalla gente “contro i parrucconi della politica”. Curiosa espressione per chi era stato fino ad un anno prima Presidente del Consiglio (per poi diventarlo di nuovo l’anno seguente). A questo proposito, Donatella Campus ha parlato di “antipolitica di governo”, spesso presente anche fuori d’Italia.
Una nuova legge elettorale – auspicabilmente fondata su collegi uninominali e doppio turno – non riuscirà da sola a cancellare l’antipolitica: potrebbe però favorire un rapporto più diretto fra elettori ed eletti, favorire un ricambio graduale, ma costante, garantire governabilità e rappresentanza sociale. Potrebbe, in altre parole, rendere difficile la vita ai riciclati e, soprattutto, contribuire ad un’effettiva crescita qualitativa della Democrazia.

Michele Sorice
Professore Ordinario di Comunicazione Politica alla LUISS “Guido Carli” di Roma,
direttore del CMCS (Centre for Media and Communication Studies “Massimo Baldini”),
Docente invitato di Scienza Politica all’Università Gregoriana

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