Questione di tratta

È stato affermato espressamente dalla Corte di Cassazione che commette il reato di riduzione in schiavitù madiante approfittamento di una condizione di necessità colui il quale approfitta della mancanza di alternative esistenziali di un immigrato da un Paese povero, imponendogli condizioni di vita abnormi e sfruttandone le prestazioni lavorative.

La legge penale italiana prevede una serie di reati per contrastare il fenomeno della riduzione in schiavitù e della tratta di esseri umani che esistevano già nel codice penale del 1930 e che sono stati modificati dalla legge 228/2003. Il codice penale entrato in vigore nel 1930 prevedeva i reati di “riduzione in schiavitù” e di “tratta e commercio di schiavi” agli articoli 600 e 601. Le due norme erano formulate in modo molto semplice e punivano, con la reclusione da otto a quindici anni, la condotta di chi “riduceva una persona in schiavitù o in condizione analoga alla schiavitù” (art.660) e di chi “commette tratta o comunque fa commercio di schiavi” (art.601). Queste due norme facevano riferimento alla nozione legale di schiavitù, quello “stato o la condizione di un individuo sul quale si esercitano gli attributi del diritto di proprietà o taluni di essi”, come recita l’art.1 della Convenzione di Ginevra del 1926 sull’abolizione della schiavitù, nozione che l’ordinamento giuridico italiano non ha mai riconosciuto. Schiavitù, quindi, come situazione di diritto. Per questa ragione, nel periodo che va dall’entrata in vigore del codice penale sino alla metà degli anni ‘90 circa, i processi per i reati di schiavitù e di tratta di esseri umani sono stati pochissimi. Dalla prima metà degli anni ’90, le forze di polizia ed i magistrati inquirenti hanno dovuto confrontarsi con un nuovo fenomeno: lo sfruttamento sessuale di giovani donne provenienti da diversi Paesi, soprattutto l’Albania e la Nigeria, costrette ad emigrare in Italia ed avviate alla prostituzione mediante l’uso di violenza, minaccia ed inganno. Il sorgere di questo fenomeno è stato caratterizzato da un ricorso sistematico alla violenza personale. Nelle cronache giudiziarie di quegli anni è possibile rinvenire numerosi casi di giovani donne rapite dalle loro famiglie di origine, picchiate più volte al giorno, violentate e costrette ad emigrare in Italia o in altre Nazioni europee e sfruttate in attività sessuali una volte giunte a destinazione. A fronte di ciò, gli operatori del diritto si sono resi conto che, per fornire una risposta adeguata a questo fenomeno, era necessario fare ricorso ai “vecchi” articoli 600 e 601, interpretandoli in modo innovativo attraverso il concetto di condizione analoga alla schiavitù.

Questa nuova interpretazione evidenziava come la nozione di “condizione analoga alla schiavitù” si riferisse ad una situazione di fatto, che si verifica ogni qualvolta un essere umano venga trattato e considerato come un oggetto, quando cioè le sue capacità e libertà di autodeterminazione vengano cancellate mediante l’uso di ogni forma di violenza o minaccia. Schiavitù, quindi, come situazione di fatto. La Corte di Cassazione italiana ha confermato questo orientamento, rendendo così possibile indagare e processare le condotte di tratta e riduzione in schiavitù anche sotto il vigore dei “vecchi”articoli 600 e 601, in assenza di una specifica legge sul punto. Nel 2003, il legislatore italiano, con la legge n. 228, ha dato esecuzione agli impegni assunti in sede internazionale con la sottoscrizione del “Protocollo delle Nazioni Unite sulla prevenzione, soppressione e persecuzione del traffico di esseri umani, in particolar modo donne e bambini” firmato a Palermo nel dicembre del 2000. Gli articoli 600 e 601 del codice penale sono stati integralmente riscritti e oggi il reato di riduzione in schiavitù – punito con la reclusione da 8 a 20 anni – è formulato in modo da comprendere, oltre alla nozione legale di schiavitù, intesa come esercizio dei poteri corrispondenti al diritto di proprietà, anche la nozione di fatto che viene definita come “riduzione o mantenimento di una persona in uno stato di soggezione continuativa, costringendola a prestazioni lavorative o sessuali, ovvero all’accattonaggio o comunque a prestazioni che ne comportino lo sfruttamento”. L’intenzione del legislatore è chiara: attribuire rilievo e punire quelle situazioni di fatto in cui un individuo si trovi in condizione di soggezione continuativa rispetto ad altro individuo.

Lo stato di soggezione continuativa viene descritto dalla legge come quella condizione che si ottiene con modalità diverse, sia con violenza e minaccia, sia mediante approfittamento di una condizione di inferiorità fisica o psichica, o di una situazione di necessità (per le altre forme si rinvia alla lettura della legge). La giurisprudenza formatasi negli anni successivi all’entrata in vigore della legge 228/2003 ha avuto modo di precisare che per “approfittamento di una condizione di necessità” si intendono quelle situazioni in cui l’autore del reato trae vantaggio dalla condizione di povertà materiale e morale, dalla mancanza di risorse finanziarie, da un basso livello di educazione ed istruzione che caratterizza l’ambiente di provenienza della vittima. In altri termini, ricorre una situazione di necessità in presenza di ogni situazione di debolezza e privazione, sia morale sia materiale, idonea a condizionare la libertà di autodeterminazione di ogni persona. È stato espressamente affermato dalla Corte di Cassazione che commette il reato di riduzione in schiavitù mediante approfittamento di una condizione di necessità colui il quale approfitta della mancanza di alternative esistenziali di un immigrato da un Paese povero, imponendogli condizioni di vita abnormi e sfruttandone le prestazioni lavorative. La legge n. 228/2003 ha inoltre disciplinato alcuni aspetti relativi alla procedura penale che consentono di tutelare efficacemente le vittime di tratta e di riduzione in schiavitù. In particolare, le indagini per questi reati sono regolate dalla speciale disciplina che si applica alle investigazioni per reati di criminalità organizzata (per esempio, una maggiore durata delle intercettazioni telefoniche e maggiore facilità di ricorso a tale strumento).

Le indagini sono inoltre coordinate dalla Direzione Distrettuale Antimafia, per consentire la creazione di squadre investigative e di gruppi di magistrati specializzati in grado di contrastare efficacemente questo fenomeno. Oltre ai reati di riduzione in schiavitù e di tratta di persone (art. 600 e 601 del codice penale), la legge italiana prevede anche altri reati che possono trovare applicazione nelle indagini per riduzione in schiavitù e tratta di persone. Ad esempio, il reato di immigrazione clandestina previsto dall’art. 12 della legge 286 del 1998 ed il reato di favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione (art. 3 legge n.75/1958). Sempre in materia di tutela delle vittime di tratta, la legislazione italiana prevede la possibilità di rilasciare un permesso di soggiorno per ragioni di giustizia alle vittime di tratta provenienti da Paesi non appartenenti all’Unione Europea (art. 18 della legge 286/1998). In conclusione, si può affermare come gli strumenti normativi elaborati dal legislatore italiano per contrastare e punire il fenomeno della tratta degli esseri umani risultino adeguati ed in linea con le previsioni della recente legislazione internazionale.

Stefano Castellani
Sostituto Procuratore presso la Procura della Repubblica del Tribunale di Torino

Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

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