La carta contro la pietra

I libri sono per loro natura strumenti democratici e critici: sono molti, spesso si contraddicono, consentono di scegliere e di ragionare. Anche per questo sono sempre stati avversati dal pensiero teocratico, censurati, proibiti, non di rado bruciati sul rogo insieme ai loro autori.

Fra gli scrittori che amo di più c’è Victor Hugo. So benissimo che gli intellettuali più raffinati arricceranno il naso a sentire il nome del «Gran trombone». Io l’ho amato subito, da ragazzo rimasi incantato dalla smisurata capacità inventiva, dai suoi romanzi pieni di digressioni, di fuori tema, di considerazioni sulla scienza, la storia, la filosofia. Notazioni ingenue alle volte, non da specialista, ma proprio per questo affascinanti. Il grande romanziere non ha particolari competenze in questa o quella disciplina, è uno specialista della vita, viaggia liberamente attraverso le frontiere delle competenze altrui, usa tutti i materiali e li fa suoi, è egoista, mimetico. I romanzi di Hugo sono poderosi, zeppi di personaggi che balzano al vivo fuori della pagina, figurine di un presepio laico, di una rappresentazione profana sulla sacralità della vita terrena, l’infanzia, il male, la giustizia, l’amore, gli uomini di Dio. Del resto, siamo o non siamo il paese di Garibaldi? Fra Hugo e Garibaldi le affinità non sono poche. Potrei elencarle, ma sarebbe l’ennesima digressione e devo contenermi. Tromboni entrambi? È possibile. E tuttavia, ce ne fossero come loro, appassionati, grandiosi, incuranti del possibile ridicolo, tesi verso il «sublime». Mi sono immerso nelle pagine dei Miserabili come in un breviario dell’Ottocento con tutta la sua grandezza, i suoi ideali, le sue ingenuità e la sua ferocia, quel socialismo allo stato nascente che s’annunciava davvero come «il sol dell’avvenire», il riscatto finale dalle ingiustizie e dall’oppressione che avevano accompagnato la prima rivoluzione industriale: le città nere di carbone, levarsi all’alba in una stanza gelida, rientrare a notte sfatti dalla fatica, stordirsi d’assenzio a stomaco vuoto, finire all’ergastolo per un pane rubato. Non ai Miserabili, però, voglio accennare qui, ma a un altro grande capolavoro di Hugo, Notre-Dame de Paris, dove troviamo una scena che rientra in pieno nel filo che, nonostante le digressioni, sto cercando di seguire. Andiamo al libro quinto di quel romanzo, al capitolo intitolato Abbas Beati Martini (l’abate di San Martino era, per tradizione, il re di Francia).

L’arcidiacono della basilica parigina apre la finestra della sua cella e indica a un confratello venuto a fargli visita «l’immensa chiesa di Notre-Dame, a cui la sagoma nera delle due torri, dei fianchi di pietra, della groppa mostruosa davano l’aspetto, spiccando contro il cielo stellato, di un’enorme sfinge a due teste accovacciata in mezzo alla città». Fra parentesi: ditemi voi se questa non è un’immagine poderosa. L’arcidiacono considera per qualche istante in silenzio il gigantesco edificio, prende un libro che ha aperto sul tavolo e quindi «volgendo tristemente lo sguardo dal libro alla chiesa: “ahimè!” disse “questo ucciderà quella”». Infatti, Ceci tuera cela s’intitola il capitolo successivo, che costituisce appunto una delle tante digressioni tipiche di Hugo. Perché mai una pagina di carta dovrebbe uccidere un edificio di pietra? L’arcidiacono qualche indizio lo dà. Infatti Hugo gli fa aggiungere queste misteriose parole: «Purtroppo le piccole cose sopraffanno le grandi; un dente rosica una trave. Il topo del Nilo uccide il coccodrillo, il pesce spada uccide la balena, il libro ucciderà l’edificio». La spiegazione arriva, abbondante come sempre, qualche pagina dopo:
Che si chiamo bramino, mago o papa, nei templi indiani, egizi e romanici si sente sempre il prete, nient’altro che il prete. Non accade lo stesso nelle architetture del popolo: sono più ricche e meno sacre. In quella dei fenici si sente il mercante, nella greca il repubblicano, nella gotica il borghese. I caratteri generali di ogni architettura teocratica sono l’immutabilità, l’orrore del progresso, la fedeltà alle linee tradizionali, l’ossequio per i tipi primitivi, il continuo piegarsi di ogni forma umana e naturale ai capricci incomprensibili del simbolo. Sono libri tenebrosi che solo gli iniziati riescono a decifrare. In essi, ogni forma, e anche ogni deformità, racchiude un senso che la rende inviolabile. Non chiedete alle costruzioni indiane, egizie, romaniche di modificare il loro disegno o di migliorare la loro statuaria. Ogni perfezionamento sarebbe empio. In quelle architetture, la rigidità del dogma sembra essersi estesa alla pietra come una seconda pietrificazione.

Invece, i caratteri salienti delle costruzioni popolari sono la varietà, il progresso, l’originalità, l’opulenza, il perpetuo movimento. Sono già tanto emancipate dalla religione da poter pensare alla bellezza, avendone cura, modificando di continuo i loro ornamenti di statue o di arabeschi. Seguono i tempi. Hanno in sé qualche cosa di umano che non cessano di mescolare al simbolo divino sotto il cui segno continuano a fiorire. Perciò tali edifici sono penetrabili per ogni anima, per ogni intelligenza, per ogni immaginazione; ancora simbolici, ma facili da comprendere come la natura. Fra l’architettura teocratica e l’altra c’è la differenza che passa fra una lingua sacra e una lingua volgare, fra il geroglifico e l’arte, fra Salomone e Fidia… Nel XV secolo tutto cambia. Il pensiero umano scopre un nuovo mezzo di perpetuarsi non solo più durevole e più resistente dell’architettura, ma anche più semplice e più facile. Quest’ultima è detronizzata. Alle lettere di pietra di Orfeo succederanno le lettere di piombi di Gutemberg. L’invenzione della stampa è il più grande avvenimento della storia. È la rivoluzione madre. È il modo di espressione dell’umanità che si rinnova totalmente, è il pensiero umano che si spoglia di una forma per rivestirne un’altra, è il completo e definitivo mutar pelle di quel serpente che, da Adamo in poi, simboleggia l’intelligenza. I caratteri mobili, la stampa sono stati una delle grandi rivoluzioni della storia umana, ci ricorda Hugo, lo strumento che ha permesso di sostituire all’immobilità pietrificata di una certezza dogmatica l’originalità di un «perpetuo movimento». Bisognerà arrivare a Internet, alle sterminate (e pericolose) praterie informatiche della conoscenza, per trovare una rivoluzione di uguale portata, avendo sempre in mente, comunque, che Internet è stata possibile perché cinque secoli prima c’era stata la stampa. I libri sono per loro natura strumenti democratici e critici: sono molti, spesso si contraddicono, consentono di scegliere e di ragionare. Anche per questo sono sempre stati avversati dal pensiero teocratico, censurati, proibiti, non di rado bruciati sul rogo insieme ai loro autori. Non è stata solo la santa Inquisizione romana a perseguitare le idee contenute nei libri.Anche Paolo di Tarso era favorevole al fatto che i libri venissero bruciati in piazza; secondo una leggenda araba il califfo Omar avrebbe ordinato la distruzione delle preziose collezioni di libri di Alessandria perché «inutili» se conformi, nel contenuto, a quanto già si può leggere nel Corano; dannosi se in contrasto con esso.

Dunque, in un caso o nell’altro, via. Del resto negli anni più roventi della Révolution cominciata nel 1789, migliaia di testi ecclesiastici (messali, breviari) vennero dati alle fiamme, senza troppo badare, in quella furia, al fatto che la rivoluzione stessa aveva trovato proprio in un libro, l’Encyclopédie (1751-52), la sua ragion d’essere, il suo motore. Episodi analoghi si verificarono dopo la Rivoluzione d’ottobre (1917) in Unione Sovietica, quando si pensò di eliminare i libri e il loro contenuto. Lo studio della storia doveva cominciare con la Comune di Parigi, «inutili» essendo tutti gli avvenimenti precedenti. Nel 1953 uscì un romanzo scritto da Ray Bradbury destinato non solo al successo, ma a diventare addirittura esemplare. S’intitolava Fahrenheit 451, vale a dire la temperatura a cui la carta brucia. L’azione era ambientata in un ipotetico futuro nel quale leggere i libri, proprio in quanto strumenti democratici atti a stimolare il pensiero, era diventato un’attività proibita: un apposito corpo di polizia è incaricato di dare alle fiamme tutti i volumi sui quali si riesca a mettere le mani. Le possibili fonti ispiratrici di quel romanzo sono state verosimilmente due. La prima è il fenomeno del maccartismo, dal nome del senatore repubblicano del Wisconsin Joseph McCarthy che aveva scatenato negli Stati Uniti un’autentica caccia ai simpatizzanti comunisti, veri o presunti, ovunque si annidassero, in particolar modo fra gli intellettuali e i divi di Hollywood. La seconda è la pubblicazione, avvenuta nel 1949, di un altro romanzo, che possiamo includere nel genere «sociologia utopica», vale a dire 1984 di George Orwell. In entrambe le opere il controllo sui cittadini è ottenuto con la manipolazione dei media, «aggiustando» continuamente le varie notizie secondo l’ideologia dominante ovvero eliminando totalmente ogni altra possibile risorsa informativa per impedire raffronti con il passato. In entrambi i romanzi la sola «verità» accessibile è la televisione. Il protagonista immaginato da Bradbury è un vigile del fuoco che si chiama Guy Montag. Agente modello, un giorno Montag commette un’imprudenza: violando le regole, legge il brano di un libro che dovrebbe bruciare. Attirato da quella prima fugace lettura comincia di nascosto a leggere altri libri, poi conosce una ragazzina, sua vicina di casa, Clarisse, che alla sera non guarda la televisione come fanno tutti. Clarisse e la sua famiglia la sera conversano, partecipando della stessa allegria. In breve: nella società immaginata da Ray Bradbury i pochi libri superstiti vengono imparati a memoria e tramandati a voce. Quel romanzo dice molte cose su una possibile società del futuro. Purtroppo, però, anche del presente. Tempo fa, per esempio, leggevo che nei paesi islamici il romanzo di Flaubert Madame Bovary viene pubblicato senza la scena dell’adulterio, e il povero traduttore è stato costretto a sostituire lo «champagne» dell’autore con un miscuglio di yogurt e acqua frizzante. La persecuzione contro i libri è propria di tutti i regimi dispotici, e basterebbe questo per farci amare la lettura.

Corrado Augias
Giornalista, scrittore, conduttore televisivo

Autorizzazione da Mondadori: tratto da “Leggere. Perché i libri ci rendono migliori, più allegri e più liberi” – collana Frecce, 2007 pp. 41- 47

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