Un danno per il sistema Paese

Risulta sempre più evidente che la ricchezza del patrimonio culturale italiano si possa ben sposare con le creazioni e i saperi professionali della contemporaneità: artistici e dello spettacolo, ma anche dei settori del turismo culturale, del design, della moda, delle industrie audiovisive, dell’editoria, dell’artigianato, delle imprese specializzate nelle tecnologie per la cultura.

marcucciC’è un riflesso preoccupante nella politica di tagli drastici che ha contraddistinto fin dal suo esordio il Governo in carica. Lo ha descritto bene Eugenio Scalfari in un fondo su Repubblica: “Cultura, ricerca, beni culturali, spettacolo, patrimonio pubblico, paesaggio, sono considerati come altrettanti elementi opzionali dei quali si può tranquillamente fare a meno”.È questa ‘filosofia’, prima e più dei tagli che l’hanno resa esplicita, che merita di essere contrastata perché rischia di arrecare un danno enorme al sistema Paese, alla sua identità, alla sua capacita di competere sui mercati globali. L’entità del terremoto che sta attraversando la cultura l’ha registrata il presidente del Consiglio superiore dei Beni culturali, Salvatore Settis: nel triennio 2009-2011, il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali dovrà fare a meno di 922 milioni di euro. E che sia la cultura il ramo privilegiato della manovra economica del Governo lo dimostra ancora di più un altro dato: i tagli previsti dalla finanziaria di Tremonti, nel triennio, ammonteranno a 33 miliardi di euro, il 2,8% destinati ai Beni culturali, che pesano sul bilancio dello Stato solo per lo 0,28%. Io non credo che fra destra e sinistra le cose siano uguali. I Governi precedenti avevano stanziato molti fondi, con un picco nel 2001 che ha portato un finanziamento quasi doppio.

Non credo sia un caso, invece, che dal 2001 al 2006, col Governo Berlusconi, i Ministri che vi sono stati, prima Urbani e poi Buttiglione, abbiamo fatto dei tagli per cui i fondi sono invece progressivamente calati. Così come non posso nascondere che nelle due Finanziarie da noi fatte, in un quadro di crisi difficilissimo, siamo riusciti ad invertire la tendenza e a ricreare un meccanismo di crescita degli investimenti. Questo Governo, invece, non solo ha ripercorso la logica dei tagli, ma lo ha fatto con una drammaticità che è andata al di fuori delle stesse previsioni. Anche perché per coprire l’ICI sono stati tagliati tutti i fondi per la cultura a livello comunale. Questo non vuol dire che con noi le cose funzionavano e con loro non funzionano: ma si tratta di un Ministero totalmente male organizzato, un Ministero che subisce ancora oggi, da parte degli enti locali, una visione quantitativa e mai qualitativa, con continue richieste di fonti aggiuntive. Una delle prime sorprese che ho avuto, a testimonianza che il nostro Ministero non era e non è adeguato, è che, nel momento in cui siamo arrivati al Governo, nessuno si era reso conto che nelle nostre intendenze culturali c’era qualcosa come 650 milioni di euro non spesi delle annualità precedenti. Cioè la capacità di spesa del nostro ministero era un’incapacità di spesa, perché si facevano i programmi, poi eravamo sotto organico, non c’erano i tecnici, non c’erano le stazioni appaltanti, c’era un meccanismo per cui, qualora si riuscissero ad avere i fondi per un lavoro, non era assolutamente detto che quel progetto si realizzasse, partisse e si concretizzasse. Noi abbiamo passato 18 mesi a riorganizzarci, abbiamo creato una stazione appaltante regionale, abbiamo dato i poteri ai responsabili regionali, perché diventassero loro gli interlocutori con gli Assessori. Alcune volte si è però spinti a fare delle riforme. Noi abbiamo dovuto farle perché, altrimenti, non avremmo avuto nemmeno la visibilità di quello che stava succedendo. Il quadro è sicuramente complesso e molto preoccupante: si è compresso il FUS con un taglio pesantissimo, che avrà conseguenze sulla fondazione sinfonica, la produzione cinematografica, teatrale, lo spettacolo dal vivo a tutti i livelli. Non so come verrà gestito questo taglio.

Quello che assolutamente non condivido, sia nella cultura, sia nell’Università e nella scuola, è che si taglia senza avere un progetto. Non si dice niente, si taglia sugli enti lirici e sulle fondazioni senza sapere cosa succederà. Secondo me, le riforme al buio si potrebbero definire “la logica dell’asfissia”. Io non le difendo. Credo siano stati commessi degli sbagli, che si siano state gestite male, che l’assenza di cooperazione fra diverse fondazioni lirico sinfoniche o tra esse e gli altri organismi sia stata un errore. Però credo che, se si parla degli errori, occorra anche citare le eccellenze, i pregi, le persone che frequentano il nostro Paese per il lavoro delle fondazioni lirico sinfoniche, anche in termine di incassi di Iva per lo Stato, viaggi, alberghi, incassi che vengono fatti intorno alla produzione delle Fondazioni lirico sinfoniche. Sicuramente, sulle fondazioni bisogna lavorare, gli organi di controllo non hanno fatto il loro dovere e non lo stanno facendo ancora oggi. Ma non si può dare la colpa solo agli organi di controllo, perché alcune volte le regioni e gli enti locali sul territorio, le amministrazioni, le popolazioni, hanno indotto alla mala gestione. Ed io credo che l’analisi debba essere un’analisi di dettaglio. Sono dell’idea che la cultura costituisca per noi un valore aggiunto per vivere in questo Paese, per migliorare la qualità di vita prima di ogni cosa. Bisogna cambiare l’approccio che si ha nei confronti della cultura. Non bisogna fermarsi sul FUS, ma bisogna investire sulla cultura. È necessario reinvestire nella cultura, operare una profonda rivisitazione del sistema. Bisogna adottare una visione a lungo termine, e ad averla devono essere il Ministero e tutte le istituzioni, partendo dalle regioni, che hanno una specifica capacità legislativa e anche finanziaria. Poi si deve convogliare su questo un confronto reale con tutto il Paese, in particolare con tutti i soggetti che operano sulla cultura. La crisi finanziaria può cambiare gli esempi collettivi che i media ci hanno fatto vedere fino ad oggi, ma noi lavoriamo per cambiare i meccanismi che non funzionano bene. Oggi si sa qual è il taglio del 2009, quello del 2010 e quello che sarà nel 2011.

Se le cose andranno così, non parleremo più di FUS nel 2011, non esisterà più il Ministero, non esisterà più il cinema cofinanziato. Noi abbiamo fatto un calcolo che potremmo cofinaziare al 10-15%. Cosa vuol dire? Che solo le grandi multinazionali saranno in grado di produrre, o di aprire, perché per il 90% dovranno essere loro a finanziare, con fondi loro. Naturalmente, il cinema indipendente andrà a morire. Certamente, la collaborazione è mancata e questo è forse il dato più grave. Un pesante ridimensionamento, che riguarda soprattutto la cultura e la pubblica istruzione, non soltanto per eliminare sprechi, ma per recuperare risorse dirottandole verso altre destinazioni. Un’inversione di tendenza, che amareggia in particolar modo perché con il ministero Rutelli, durante il quale ho ricoperto l’incarico di Sottosegretario, in venti mesi di attività di Governo avevamo posto le basi, non senza difficoltà, per un rilancio complessivo del sistema culturale italiano. Partivamo da due consapevolezze, che credo siano oggi ancora più attuali. La prima è che la conoscenza, la formazione, la valorizzazione del patrimonio culturale, i linguaggi e le espressioni contemporanee della creatività e dello spettacolo rappresentano un investimento per il Paese e non un costo inutile. La seconda è che il bilancio della cultura è prioritariamente una responsabilità pubblica, come indica l’articolo 9 della nostra Carta Costituzionale. L’indicazione che viene dall’Europa è che esiste un legame indissolubile tra l’ambiente culturale, le professioni e le industrie creative. D’altra parte, lo aveva suggerito il Censis più di dieci anni fa nel rapporto citato per la convocazione di questo convegno: “lo spettacolo rappresenta un volano di sviluppo economico dalle potenzialità enormi e ancora per lo più insondate”.

Risulta sempre più evidente che la ricchezza del patrimonio culturale italiano si possa ben sposare con le creazioni ed i saperi professionali della contemporaneità artistici e dello spettacolo, ma anche dei settori del turismo culturale, del design, della moda, delle industrie audiovisive, dell’editoria, dell’artigianato, delle imprese specializzate nelle tecnologie per la cultura. Per questo, nel corso della nostra esperienza di Governo, avevamo rafforzato il Fondo Unico per lo Spettacolo (nel triennio 2006 – 2008, + 414 milioni di euro, pari al 42,9% di maggiori risorse disponibili), sviluppando contemporaneamente meccanismi di controllo della spesa. In questi mesi, invece, si vuol far credere che investire risorse nel teatro, nella musica, nell’opera lirica, nella danza, nel cinema, significa sprecare soldi pubblici o, peggio, mantenere i privilegi di caste professionali. Così, per far passare all’opinione pubblica tagli che rischiano di mettere in ginocchio l’intero sistema culturale, che poi è lo specchio dell’identità nazionale, si accredita l’idea che questi settori produttivi costituirebbero un’appendice parassitaria che vive di assistenzialismo. Non si può neanche sostenere che alla diminuzione della spesa pubblica possa in egual misura subentrare il sostegno dei privati. In nessun Paese del mondo lo spettacolo – specialmente quello più “alto” – può esistere, se privato del sostegno pubblico. Non diversamente da quanto avviene per la scuola, la formazione e la ricerca (senza dimenticare che una parte rilevante di quelle risorse ritornano nell’alveo pubblico sotto forma di imposte, contributi sociali e previdenziali). Abbiamo chiaro, per tornare ad un argomento di attualità, che è fondamentale riqualificare la spesa per il settore delle fondazioni lirico sinfoniche, che le risorse non devono essere attribuite in base a valutazioni politiche, bensì a seguito di un’individuazione tecnica autonoma dalla volontà del Ministro e del Governo; che i criteri di scelta devono essere selettivi ed orientati alla qualità.

A questo proposito, in Commissione Cultura al Senato, il ministro Bondi ha indicato la strada di un disegno di legge che tenga conto delle indicazioni degli operatori e degli enti locali. Noi ci auguriamo che sull’argomento specifico si possa valorizzare il patrimonio delle fondazioni italiane, dal Maggio musicale fiorentino al Teatro comunale di Bologna, dal Carlo Felice di Genova al San Carlo di Napoli. Lo ha ricordato il maestro Zubin Metha in un appello al ministro Bondi, “laddove si è investito nella realizzazione di spazi e strutture adeguate, come a Los Angeles, Valencia o Montreal, si è registrata una vera e propria ‘esplosionè di cultura ed un ritorno economico per le città stesse”. Per questo, con l’allora Ministro Rutelli, siamo riusciti ad aprire numerosi cantieri, che mi auguro si possano chiudere, anche se ad inaugurarli saranno altri. Voglio ricordare soltanto gli interventi previsti per i 150 anni dell’unità italiana: il nuovo Palazzo del Cinema e dei Congressi di Venezia, il nuovo Auditorium del Maggio a Porta al Prato a Firenze, la riorganizzazione del Museo Archeologico di Reggio Calabria, il Centro per la Scienza e le Tecnologie di Roma. Lo Stato deve infatti concepire i luoghi della cultura come vere e proprie macchine di crescita economica, civile, sociale, oltre che di esplorazione delle espressioni del passato e di incontro con le tendenze culturali del tempo. Ma è ugualmente dannoso coltivare l’illusione che si sta diffondendo in questi mesi: le infrastrutture culturali non saranno mai in attivo, almeno se ci riduciamo a leggerne le prestazioni in termini strettamente finanziari (anche se la quota di introiti è estremamente variabile, e in molti casi permette ritorni significativamente più alti di quanto non fosse solo pochi anni fa).

Ma, di fronte all’assunzione di responsabilità da parte delle amministrazioni locali, al concorso delle Regioni, delle Fondazioni, di Camere di Commercio, sponsor e partner commerciali, il ritorno di interesse per il territorio è generalmente positivo. Soltanto così l’Italia riuscirà ad invertire la crisi profonda che la attraversa, investendo sulla cultura come motore di crescita economica del Paese. Lo diceva Richard Florida già nel 2003, nel suo “L’ascesa della classe creativa”: “Non saranno più le persone creative ad andare dove c’è il lavoro, bensì il lavoro ad andare dove ci sono le persone creative”. Inutile aggiungere che le persone creative si formano soltanto laddove ci sono risorse e luoghi per formarle. Per questo credo sia fondato l’appello che Francesco Rutelli ha lanciato nel corso di un incontro organizzato dall’associazione Bianchi Bandinelli sulla priorità e sull’inderogabilità della battaglia, in Parlamento e nel Paese, ai tagli alla cultura. Se riusciremo a far crescere la consapevolezza che la cultura è un fattore essenziale del nostro futuro, essa sarà sicuramente dotata di più robuste risorse pubbliche, con una larga convergenza, questo è il mio auspicio, ben oltre le diverse visioni ed opinioni politiche. Noi abbiamo fornito a questo Governo dei segnali. Non possiamo subire, come non può subire l’Università, il meccanismo dell’asfissia. Tutte le istituzioni, a tutti i livelli, ci devono aiutare per convincerli ad avere una strategia a medio lungo termine.

Andrea Marcucci
Senatore, Segretario della VII commissione “Pubblica Istruzione-Beni Culturali”
Già Sottosegretario ai Beni e alle Attività Culturali

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