L’arte non è un lusso

La cultura non è un lusso da rinunciare in una fase di grave crisi economica e di restrizioni della finanza pubblica. Si tratta, invece, di un settore in cui il nostro Paese gode di un vantaggio comparato che né la Cina né l’euro forte hanno scalfito negli ultimi anni.

veltroni La cultura non è un lusso da rinunciare in una fase di grave crisi economica e di restrizioni della finanza pubblica. Si tratta, invece, di un settore in cui il nostro Paese gode di un vantaggio comparato che né la Cina né l’euro forte hanno scalfito negli ultimi anni.
I tagli alle spese pubbliche, nazionali e locali, destinate alla cultura e all’industria culturale sono rilevanti. Certo, in una situazione economica come quella che si è creata dopo la grande crisi del 2008, ogni euro di spesa pubblica va giustificato e reso efficiente, e a questo esercizio anche il settore culturale non può sottrarsi. Ma quella che a me non sembra accettabile è la motivazione politica dei tagli, basata sull’idea che la cultura sia tutto sommato un lusso, un “di più” che, a causa della crisi, la nostra società non potrebbe più permettersi. Non solo questa motivazione è sbagliata, per il ruolo trainante che le attività e le produzioni culturali hanno sull’economia e sull’occupazione in Italia. Ma, inoltre, impedisce di vedere come proprio questo settore può essere, insieme ad altri, uno di quelli più importanti nel nuovo equilibrio che dobbiamo costruire per i nostri sistemi economici e sociali dopo la grande crisi. Insomma, le scelte politiche dell’attuale governo sembrano dimenticare la storia degli ultimi quindici anni. Una storia da cui emerge un settore culturale niente affatto marginale, e anzi sempre più protagonista delle dinamiche socio-economiche e di sviluppo. Con aumenti rilevanti dei consumi, della spesa privata e non solo di quella pubblica, della produzione, del valore aggiunto, dell’occupazione. Un solo esempio fra i tanti. I tassi di partecipazione degli italiani a mostre e musei sono aumentati di sei punti negli ultimi quindici anni, a partire dal 1996, in parallelo all’aumento di oltre venti milioni delle visite ai musei statali e non statali, le quali hanno origine anche dagli stranieri. Se prendiamo le sei principali città d’arte italiane, fra il 2000 e il 2007 i biglietti staccati dalle reti dei musei civici sono aumentati del 30%. Non voglio essere accusato di propaganda romana, ma non mi dispiace ricordare che nei civici romani l’aumento è stato del 92,9%. I consumi culturali hanno valore (non solo etico, anche economico) in sé, perché contribuiscono alla diffusione della conoscenza, che a sua volta è il principale fattore produttivo, soprattutto nel futuro. Ma hanno valore anche tramite l’indotto produttivo che generano. Nel nostro paese questo indotto ha fatto crescere filiere di specializzazione che hanno importanza almeno uguale a quella dei tradizionali distretti industriali oppure a quella delle produzioni automobilistiche a basso impatto ambientale. Penso al retroterra industriale e artigianale delle attività espositive e di quelle sceniche, così come di quelle teatrali, musicali e letterarie, che tra l’altro assolvono a compiti di fornitura e di formazione per settori ben più ricchi dell’industria culturale, come l’audiovisivo e il cinema. Penso a tutto ciò che è attivato dalle produzioni audiovisive e cinematografiche, e di nuovo penso a Roma, dove è collocato un distretto produttivo di dimensione nazionale e, in alcuni comparti, anche europea e internazionale. Penso alle interrelazioni fra settore culturale e quell’insieme di attività che hanno assunto il nome di “industrie creative”, che spaziano dal design all’architettura, dalle nuove modalità di produzione e di distribuzione dei contenuti culturali all’arte contemporanea. Penso alle filiere dei prodotti e dei servizi di qualità, e ad elevato contenuto di innovazione, che sono collegati ad un modello, per fortuna in crescita, di turismo culturale sostenibile e consapevole. E penso anche alle tecnologie e al know how per la manutenzione dell’edilizia storica, dove l’Italia eccelle per qualità della ricerca e per capacità delle imprese, sia industriali che artigiane. Insomma, per l’Italia la cultura non è un lusso che la nostra comunità e i suoi decisori pubblici hanno voluto prendersi durante un periodo di crescita economica favorevole e a cui oggi sarebbe di necessità obbligatorio rinunciare in una fase di grave crisi economica e di restrizioni della finanza pubblica. Si tratta, invece, di un settore in cui il nostro paese gode di un vantaggio comparato che né la Cina né l’euro forte hanno scalfito negli ultimi anni. Un settore che, se viene certamente colpito dagli effetti negativi dell’attuale congiuntura nelle domande che il mercato esprime, può contare al tempo stesso su prospettive favorevoli generate, durante ma soprattutto dopo la grande crisi che viviamo, da una ricomposizione della domanda di consumo che lo vedrà relativamente avvantaggiato al confronto con altri consumi. Per motivi (relativi) di costo, di sostenibilità, di prevedibile aggiustamento delle preferenze individuali e collettive. E quindi si tratta di un settore che le politiche pubbliche, e quelle economiche in particolare, devono sostenere con l’obiettivo di presidiare una specializzazione fortemente radicata nel nostro paese, di renderne massimi gli impatti a vantaggio del resto dell’economia, di mantenere in vita fino alla fine della crisi in corso una capacità produttiva che non possiamo permetterci di distruggere. Naturalmente, non bisogna sottrarsi ad una riflessione volta all’innovazione degli strumenti pubblici di intervento nel settore culturale. Non basta ripristinare i capitoli di spesa. Occorre anche ripensare gli strumenti ed alle modalità operative di intervento. E non basta pensare solo allo Stato. Occorre coinvolgere le istituzioni pubbliche di ogni livello, occorre pensare in termini autenticamente federali, occorre affrontare temi e problemi che non si chiudono meramente all’interno dei meccanismi decisionali dello Stato centrale. A cominciare dall’intensificazione delle collaborazioni e dei partnariati pubblico-pubblico, e principalmente fra Stato, Regioni ed enti locali, in particolare Comuni: uno degli effetti della crisi sarà di inaridire, almeno temporaneamente, l’afflusso di risorse da parte di sponsor e Fondazioni ex bancarie, e una risposta deve essere quella di mettere insieme più frequentemente e con maggiore integrazione le azioni delle diverse istituzioni pubbliche, superando gelosie e incrostazioni. Se la politica fosse all’altezza, e il Governo volesse rimettere la cultura al centro dell’agenda, la quale come sappiamo è occupata da ben altre preoccupazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri, la crisi potrebbe anche diventare l’occasione per alcune riforme di fondo. Ad esempio, nei rapporti fra industria audiovisiva e resto delle attività e produzioni culturali, che forniscono all’audiovisivo tanta parte dei suoi contenuti. Dodici anni fa fu fatto il primo passo avanti, passando dalle quote di distribuzione alle quote di produzione per i prodotti dell’industria audiovisiva nazionale ed europea a carico dei concessionari televisivi nazionali. Non vi è dubbio che quella misura ha contribuito a rilanciare un intero settore produttivo. Tuttavia, l’eterogenesi dei fini è sempre in agguato nelle politiche pubbliche, e oggi è necessario considerare l’effetto negativo indotto da quella norma sull’estensione dell’assetto oligopolistico dalla televisione alle produzioni audiovisive e cinematografiche. Quindi, una nuova scelta sarebbe di passare a un vero e proprio regime di contribuzione diretta, o almeno a un mix fra contribuzione diretta e obblighi di produzione e co-produzione. E poi la scuola, la formazione di base per l’accesso alla conoscenza dei prodotti culturali e per l’espressione della creatività. Qualche mese fa Baricco ha fatto su questo punto osservazioni importanti, anche se in un contesto volutamente “provocatorio”. Sono stati aboliti i tradizionali moduli formativi sull’arte e sulla musica, ma non è ancora cresciuta un’offerta alternativa, dimenticandosi che arte, cultura, musica sono elementi fondativi dell’italianità. E quanto profonda sia la domanda in questa direzione lo dimostrano gli eccezionali successi di pubblico giovanile ai tanti festival tematici di cultura e di scienza nati negli ultimi anni in tante città italiane. Anche qui un ruolo importante può giocarlo un’offerta audiovisiva intelligente e moderna. Ma è comunque necessario progettare davvero qualcosa di nuovo, con riferimento anche alle forme meno antiche dell’espressione culturale (come ad esempio il cinema), costruendo modelli formativi decisi non solo dai pedagogisti, ma capaci di integrare istituzioni e professioni del settore culturale con il mondo della scuola e della formazione.

Walter Veltroni
Parlamentare, giornalista e scrittore Italiano
GIà Ministro dei Beni Culturali

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