Dalla teoria alla pratica

Se si considerano le esperienze accumulate, risulta evidente che non basta aver identificato ed essere riusciti a crescere in laboratorio i vari tipi di staminali. Né si può parlare dell’argomento in modo generico, senza soffermarsi sul fatto che ci sono profonde differenze tra le varie staminali, così come tra le varie malattie, e che ogni approccio terapeutico deve essere malattia-specifico.

Ormai da qualche anno assistiamo, più o meno impotenti, ad annunci quotidiani che propagandano cure miracolistiche a base di cellule staminali per qualsiasi malattia, dalla calvizie alla demenza di Alzheimer. Questa situazione aumenta lo sconcerto tra le persone malate che, se da un lato hanno l’impellente necessità di conoscere le speranze concrete di accedere a terapie realmente efficaci, dall’altro percepiscono la mancanza di adeguati canali d’informazione che le aiutino a scegliere in modo consapevole e informato. È bene sapere, anzitutto, che non ci sono staminali per tutto e per tutti e che, come sempre, generalizzare è sbagliato. In alcuni casi, le cellule staminali sono già una realtà e vengono utilizzate in modo routinario. Solo in Italia, si eseguono più di quattromila trapianti all’anno di midollo osseo per curare soprattutto i tumori del sangue. Negli ultimi vent’anni, le staminali della pelle hanno curato migliaia di gravi ustionati in tutto il mondo, così come le staminali dell’occhio hanno curato molte persone (più di duecento solo in Italia) con problemi di vista determinati da danni alla cornea. In questi ambiti si tratta di dati reali e affidabili, ma le evidenze di un reale potere curativo delle staminali in altri contesti sono tutt’altro che chiare, poiché i risultati espressi dalle sperimentazioni non sono né solidi, né di univoca interpretazione e necessitano di ulteriori sperimentazioni e conferme. Al momento, nel caso di sclerosi multipla, ictus e diabete, si hanno evidenze precliniche dove i risultati, seppur favorevoli, sono ottenuti esclusivamente su animali da laboratorio: non sfugge certo la differenza tra sperimentazione su una cavia e sperimentazione su un essere umano. Nel caso di difetti ossei e cartilaginei, ischemia degli arti o sclerosi laterale amiotrofica, le evidenze a favore di un reale potere curativo delle staminali sono limitate o aneddotiche.

Ci sono, poi, situazioni in cui le evidenze sono addirittura contraddittorie, come nel caso di infarto cardiaco e morbo di Parkinson, o del tutto inesistenti, come per il morbo di Alzheimer. Vale la pena sottolineare che, per quanto paradossale possa apparire, sono proprio queste le situazioni più “gridate” dai media, che così facendo inducono ad aspettative miracolistiche. Si sente spesso parlare di una presunta barriera ideologica da parte della comunità scientifica italiana ed internazionale nell’utilizzo delle cellule staminali, quando si tratta, invece, di un atteggiamento di cautela ragionata, d’obbligo in una fase in cui qualsiasi terapia, prima di essere efficace, deve dimostrarsi sicura e, sopra ogni altra cosa, non deve mettere a rischio la vita del paziente. Un esempio balzato alle cronache nel marzo 2009 parla di un ragazzo israeliano affetto da una grave malattia del sistema immunitario che, dopo essersi sottoposto, in Russia, agli inizi del Duemila, a molteplici trapianti di staminali neurali, dopo quattro anni ha sviluppato un tumore al cervello, originato proprio dalle staminali che gli erano state iniettate. Se si considerano le esperienze accumulate, risulta evidente che non basta aver identificato ed essere riusciti a crescere in laboratorio i vari tipi di staminali, per riuscire a curare le persone bisognose di cura. Né si può parlare dell’argomento in modo generico, senza soffermarsi sul fatto che ci sono profonde differenze tra le varie staminali, così come tra le varie malattie, e che ogni approccio terapeutico deve essere malattia-specifico. Se le staminali servono per curare i tumori del sangue, non è detto che siano altrettanto efficaci nel curare i tumori del cervello.

È necessario, insomma, ammettere che ancora oggi abbiamo una scarsa conoscenza dei meccanismi di base che regolano il funzionamento di queste cellule. È paradossale, per esempio, che si parli di trapianto di staminali nella cura del diabete, quando ancora non si è definito con certezza quale sia la staminale che dà origine alle cellule del pancreas. Tante sono le domande a cui dobbiamo rispondere prima di intravedere un uso su larga scala di queste nuove terapie. Quali cellule staminali utilizzare? Dove prelevarle? Embrionali, adulte, fetali? Del cuore, del sangue, del grasso? Le cellule embrionali danno meno problemi di rigetto, ma possono originare tumori. Le cellule adulte sono prive di tossicità, ma, in certi casi, come per il cervello, se ne possono ottenere solo quantità minime e, comunque, funzionano solo in modo parziale e transitorio. Esiste, infine, la possibilità di utilizzare cellule embrionali “ringiovanite” – le cellule staminali indotte pluripotenti di cui abbiamo già parlato – simili a quelle embrionali, ma ottenute da cellule adulte trasformate in laboratorio. Se anche avessimo la cellula “giusta”, come trapiantarla? In caso di infarto, la somministrazione diretta nella zona danneggiata del cuore rappresenta senz’altro la via migliore, ma in malattie come l’Alzheimer, dove il danno è diffuso a tutto il cervello e un intervento neurochirurgico multiplo sarebbe troppo rischioso e complicato, come possiamo intervenire? Evidenze recenti ci suggeriscono che potremmo arrivarci attraverso il sangue, ma si tratta di un’ipotesi ancora da verificare. E, se anche riuscissimo a trapiantare la cellula giusta, come funzionerebbe, una volta immessa nel corpo? È invalsa l’opinione, alquanto sbrigativa, che le staminali ricostruiscano i tessuti sostituendo le cellule danneggiate. Studi recenti ci permettono, però, di capire la ragione di parte dei fallimenti registrati finora, mostrando come le staminali agiscano, non tanto nel ricostruire il tessuto danneggiato, quanto nell’evitare che si danneggi ulteriormente.

È probabile, quindi, che queste cellule siano più utili nelle fasi iniziali di una malattia che in quelle tardive, quando si è ormai in presenza di un danno esteso e irreversibile. In sostanza, per trasformare esperienze aneddotiche o promettenti risultati preclinici in terapie sicure ed efficaci, non servono notizie gridate, né viaggi della speranza, così come non serve che l’opinione pubblica si schieri a favore o contro qualcosa o qualcuno. Serve, invece, pianificare oculatamente la ricerca, favorire un dialogo sempre più stretto tra ricerca di base e ricerca clinica, utilizzare protocolli d’indagine internazionalmente validati e confrontabili, analizzare attentamente i risultati già ottenuti – soprattutto quelli negativi, spesso sottaciuti grazie alle regole non scritte che la comunità scientifica erroneamente si è data – e, non ultimo, divulgare “sottovoce”, con misura e rispetto. Rimane, quindi, ancora molta strada da compiere perché le staminali divengano uno strumento terapeutico utile ed efficace; e il percorso, proprio perché pieno di incognite, deve essere fatto all’interno di un sistema rigoroso e controllabile, dove vigano regole comuni a cui non sia possibile derogare. Il fiorire in tutto il mondo di cosiddetti centri specializzati per le terapie a base di staminali, che non si sottopongono ai dovuti controlli di qualità e che spesso fanno del profitto la propria unica ragione d’essere, non facilita questo compito. La comunità scientifica internazionale si è spesso espressa pubblicamente per una chiarezza a tal proposito, dotandosi di strumenti come la Guidelines for the Clinical Translation of Stem Cells (v.d. Hyun et al., 2008; http://www.isscr.org). Sarebbe importante che queste considerazioni venissero tenute presenti dall’intera comunità e che si affinassero strumenti di controllo legislativo a protezione delle persone malate, rese vulnerabili dal bisogno di cura e di speranza.

È su questi temi che il confine tra scienza e coscienza rischia di farsi labile, ed è qui che i cittadini hanno necessità e diritto di essere tutelati ed accompagnati a compiere una scelta consapevole. Dobbiamo inoltre sforzarci di aumentare gli investimenti in questo settore, utilizzando soprattutto finanziamenti pubblici che evitino derive legate al profitto. Tutto ciò richiede tempo, è vero. Ma è bene ricordare che, se il primo trapianto di midollo (cioè di staminali del sangue) fu effettuato addirittura alla fine dell’Ottocento, solo a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso questa pratica è divenuta quotidianità medica. Proprio l’esperienza maturata con i trapianti di midollo osseo negli ultimi sessant’anni ci può fornire una chiave di lettura utile ad affrontare il problema che oggi ci viene posto dall’utilizzo delle staminali. Esperienza che ha visto come protagonista principale Edward Donnall Thomas, il medico statunitense che, con le sue scoperte relative al trapianto di midollo osseo, ha ricevuto il premio Nobel per la Fisiologia e la Medicina nel 1990. La storia racconta che i primi tentativi, compiuti negli anni Quaranta e Cinquanta, furono disastrosi, giacché il trapianto veniva spesso rigettato dall’organismo, nel qual caso la persona andava incontro alla morte. Quasi tutti i ricercatori abbandonarono questa pratica finché, alla fine degli anni Sessanta, non si ebbe una svolta decisiva con la scoperta, da parte di alcuni scienziati che si occupavano del sistema immunitario, delle molecole responsabili del rigetto. Da quel momento si svilupparono protocolli di trapianto di midollo sempre più sicuri, anche se ci vollero ancora una ventina d’anni per affinare le tecniche trapiantologiche e per potersi affidare a quei protocolli come ad una pratica routinaria. Questo non implica che dovranno passare svariati decenni prima di vedere l’applicazione su larga scala di terapie basate sull’utilizzo di cellule staminali. Significa però che non possiamo aspettarci di risolvere da un giorno all’altro i complessi problemi che, al momento, ci troviamo di fronte. In sintesi, finché non avremo fondate certezze sui meccanismi di base che regolano il funzionamento delle cellule staminali, ogni trionfalismo è fuori luogo.

da “La medicina che rigenera. Non siamo nati per invecchiare” (2009) pubblicato dall’Editore San Raffaele.

Gianvito Martino
Direttore della Divisione di Neuroscienze
dell’Istituto Scientifico Universitario San Raffaele presso il cui Ateneo insegna Biologia,
Comitato scientifico Myelin Project

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