Il villaggio globale

 

Grazie alla cultura tecnologica viviamo continuamente un senso di ubiquità. Internet, la rete delle reti, contiene tutti i linguaggi finora conosciuti mediante i diversi media: dal mondo dei segni a quello audiovisivo sino all’universo tridimensionale. I media elettronici hanno modificato il significato del tempo e dello spazio nell’interazione sociale.

Il passaggio dall’era analogica a quella digitale e l’evoluzione dei mezzi di comunicazione mettono in evidenza come ogni medium non si sia sostituito a un altro, bensì abbia cercato di inglobarlo a sua volta. Dalla stampa al telegrafo, alla radio, al cinema, alla televisione, a Internet sino ai cellulari dell’ultima generazione si è avuto un processo di integrazione dei diversi linguaggi della comunicazione. Grazie alla cultura tecnologica viviamo continuamente un senso di ubiquità: siamo qui e altrove istantaneamente, non solo attraverso le immagini che possiamo vivere in diretta come è stato per il crollo delle Torri gemelle a New York, o il devastante maremoto in Asia, bensì anche attraverso le innumerevoli identità che possiamo assumere collegandoci alle chat-line. Internet è davvero uno strumento di democrazia quando percepiamo l’opportunità di creare un blog o un sito personale rendendoci visibili nell’intero universo virtuale. Appartenenti a questo “villaggio globale”, come l’ha definito McLuhan, l’idea di riflettere sull’attenzione che deve essere rivolta a un tema così attuale, come l’educazione e i media, nasce dal presupposto che i mezzi di comunicazione sono innanzitutto strumenti e come tali non vanno mitizzati, bensì considerati come elementi della nostra quotidianità. I media, tuttavia, contribuiscono a creare delle nuove situazioni sociali, come sostiene Meyrowitz: “I media elettronici hanno modificato il significato del tempo e dello spazio nell’interazione sociale”. Diventa allora sempre più urgente e necessario acquisire conoscenza e sviluppare uno spirito critico al fine di un uso consapevole degli stessi. Prerogativa di una mentalità che si pone in modo nuovo di fronte ai media è quella di non pensare che siano “buoni” o “cattivi”, positivi o negativi, come troppe volte sono stati segnalati (“cattiva maestra tv”, “il miglior amico: il pc”), ma analizzarli, conoscerli in maniera da saperli gestire. Questo nuovo modo di porre la questione dei minori e media è rappresentato dalla media education.

L’Unesco definisce la media education come “lo studio della storia, della creatività, dell’uso e della valutazione dei media” . Essa serve a sviluppare nei soggetti capacità critiche di analisi e conoscenze sull’organizzazione e l’utilizzazione dei media. In questo contesto è importante sottolineare che il bambino è considerato come una persona attiva, agente nelle sue scelte. Pertanto l’obiettivo che si propone la media education è quello di cercare di renderlo autonomo, capace e responsabile di ciò che sceglie. Il bambino è un essere pensante. Per far sì che acquisisca una certa autonomia e consapevolezza della realtà che lo circonda acquista un’importanza fondamentale il compito che si propone la media education. È necessario, cioè, un discorso educativo nei confronti dei media.

La media education si sviluppa attraverso tre ipotesi.

1) Educare con i media: introdurre le tecnologie mediali all’interno della didattica sia come strumenti di insegnamento che di apprendimento, ossia fruire di tali mezzi per imparare.           2) Educare ai media: studiare i media stessi al fine di rendere consapevoli della cultura dei media, in due modi:           a) attraverso l’orientamento estetico-culturale: educazione visiva, artistica, letteraria;           b) attraverso l’orientamento sistemico-funzionale; si studia la comunicazione di massa dal punto di vista delle sue componenti (mittente, medium, messaggio, destinatario…). 3) Educare per i media: riguarda il contesto professionale; si tratta di studiare le strategie, le tecniche per diventare professionisti nel campo della comunicazione, tenendo conto che esistono modelli diversi di formazione a seconda del ruolo professionale che si intende raggiungere: non è lo stesso formare un giornalista, un cameraman, uno speaker televisivo o un creativo pubblicitario.

Negli ultimi cinquant’anni si è andato via via ampliando il dibattito relativo alle diverse posizioni riguardo ai media, alla loro funzione e, in particolare, alla media education. Secondo quanto afferma Len Masterman, infatti, “è possibile distinguere tre approcci fondamentali nell’insegnamento dei media”. Il primo è l’approccio inoculatorio. Qui i media sono visti come “agenti di declino culturale”. Questa prima fase va dai primi anni Trenta fino ai primi anni Sessanta. “La visione dei media come malattia infettiva, come veicolo di anti-cultura” ha dato vita a due tipi di atteggiamenti tra gli insegnanti. Da un lato c’erano coloro che “ignoravano” i media in quanto ritenuti “irrilevanti” e dall’altro coloro che sostenevano una “educazione contro i media”, ossia “si trattava di un movimento fondamentalmente difensivo e paternalistico il cui obiettivo era quello di introdurre certe forme di cultura popolare nella scuola, salvo poi respingerle come commerciali, manipolatrici e poco originali – la cultura della macchina – se confrontate con le più tradizionali forme culturali ‘alte’”.

In tale contesto risultò particolarmente interessante lo studio della pubblicità in quanto “incarnava perfettamente la grande pericolosità dei media”. La pubblicità, infatti, rappresentava i valori materialistici e aveva una grande capacità manipolatrice sul pubblico, oltre ad avere un’“influenza corruttrice sul linguaggio”. Il secondo approccio si ebbe intorno agli anni Sessanta, quando il primo, “inoculatorio”, sembrava essere sulla via del declino. Questa seconda fase si definì “Movimento delle arti popolari” e venne promossa da una nuova generazione di insegnanti, i quali apprezzavano le nuove culture popolari, tra cui soprattutto il cinema, e vedevano in esse dei valori non necessariamente negativi. L’obiettivo da perseguire era “la capacità di dare giudizi critici”. Se l’approccio inoculatorio traeva spunto dalle pessimistiche teorie sulla cultura di massa della Scuola di Francoforte nell’Europa continentale, la svolta decisiva del Movimento delle arti popolari fu resa possibile dallo sviluppo delle teorie sul cinema nei tardi anni Cinquanta.

Il cinema fu inteso come l’opera di “grandi”, o perlomeno “interessanti” registi il cui studio poteva venire paragonato a quello della letteratura tradizionale. Andrew Sarris descrisse i registi Welles, Renoir, Chaplin, Keaton, Ford, Ophüls, Flaherty, Murnau e Hitchcock nel seguente modo: sono questi i registi che hanno trasceso le difficoltà tecniche con la loro visione personale del mondo. Pronunciare il loro nome significa evocare un mondo a sé stante, dotato di leggi e paesaggi propri. Essi hanno anche avuto la fortuna di lavorare nelle condizioni adatte e con i collaboratori giusti per poter arrivare all’espressione più piena del loro genio. Questo approccio fu determinante, negli anni Sessanta, per la scelta del “cinema” come “area privilegiata di studio”, in particolare nel Nord Europa e nel Nord America dove venne applicato in molte istituzioni educative. Il “Movimento delle arti popolari”, tuttavia, pur promuovendo un certo superamento all’approccio inoculatorio, si fece portatore di un atteggiamento “protezionistico” soprattutto nei confronti degli studenti, ai quali si richiedeva di raffinare il proprio gusto cinematografico al fine di saper distinguere tra film “buoni” e film “cattivi” e, allo stesso tempo, tra televisione e stampa “buona” e “cattiva”. Tale approccio si manifestò troppo difensivo e limitante. Non solo, ma uno studente attraverso studi soltanto di tipo teorico non poteva essere in grado assolutamente di “stabilire dei precisi criteri di valutazione dei media”. Nonostante si conoscessero i limiti dell’approccio discriminatorio, esso ebbe seguito fino agli anni Settanta.

Le questioni di valore sono solo un aspetto secondario perché non bisogna perdere di vista qual è l’obiettivo principale della media education, ossia l’accrescimento della comprensione dei media da parte degli studenti, del modo in cui funzionano e nell’interesse di chi, di come sono organizzati, di come producono significato, di come rappresentano la “realtà”, di come queste loro rappresentazioni vengono interpretate – e da chi. È il termine “comprensione”, con la sua enfasi sullo sviluppo di un’intelligenza critica, autonoma riguardo ai media, a dover assumere quell’importanza centrale che in passato veniva concessa alla nozione di discriminazione.

È importante, dunque, che gli insegnanti incoraggino i loro studenti a sviluppare interpretazioni personali, a farsi un’opinione, senza rimanere ancorati a un’unica suggestione, quale punto di vista del docente. Verso la fine degli anni Settanta avanza un terzo approccio alla media education. È in tale contesto che prende forma una nuova mentalità: quella dello studio dei media frammentato in diversi argomenti, a seconda del mezzo di comunicazione a cui si fa riferimento. Così ad esempio un corso sui media della durata di un anno si può articolare in un trimestre sul cinema, uno sulla stampa, uno sulla televisione, oppuremezzo trimestre sulla stampa e l’altra metà sulla pubblicità e così via.

È necessario mettere in evidenza che la semiotica, la scienza che studia i segni, applicata dal francese Roland Barthes nell’analisi dei testi e dei fenomeni della cultura popolare, ha dato un notevole contributo alla media education. La semiotica, infatti, introducendo la distinzione fondamentale tra significato e significante, tra immagine e referente, concepì il concetto di rappresentazione della realtà promuovendo l’idea di non pensare più ai media come presentazione della realtà, ma come rappresentazione della stessa. Negli anni Settanta non ci furono solo gli studi di semiologia ma anche quelli che interessavano la teoria critica e l’ideologia.

Gli educatori di media di questo periodo cercarono allora di “cominciare a porsi domande su quali interessi i media servono, su come sono costruiti e su quali rappresentazioni alternative ad essi sono state ignorate”. Il compito di un insegnante è soprattutto “quello di dare un senso ai più ampi contesti storici e politici all’interno dei quali le immagini vengono prodotte e consumate”. Molti educatori di media pensano che «mettere in discussione e denunciare certe rappresentazioni mediali e le relazioni di potere che esse nascondono è, e deve rimanere, una delle attività critiche fondamentali della media education, presente e futura» sostiene L. Masterman.

Si deve comunque tener conto che questi brevi cenni storici riguardano soprattutto gli Stati Uniti o Paesi europei come la Francia e l’Inghilterra, nei quali progetti educativi nei confronti dei media si sono sviluppati in tempi più remoti rispetto al caso italiano. Inoltre, studi e ricerche sui media, in Italia e all’estero, sono stati progressivamente ampliati da studiosi e ricercatori soprattutto in ambito universitario, piuttosto che in ambito scolastico. Se già negli anni Cinquanta e Settanta si delineavano le prime tracce di quella che sarebbe diventata poi un’educazione nei confronti dei media, si deve tenere conto, però, che tali idee primordiali erano ben lontane dal vero significato che oggi intendiamo dare alla prospettiva della media education. In tempi più recenti, infatti, la media education non è stata intesa soltanto come alfabetizzazione mediale nei termini di decodifica dei messaggi audiovisivi, ma anche come studio e analisi del pubblico che recepisce tali messaggi. Conoscere la composizione del pubblico, il target di riferimento a cui mira una determinata trasmissione televisiva o una campagna pubblicitaria o l’editoria multimediale è un aspetto da non sottovalutare, e anzi sul quale riflettere per venire a conoscenza delle strategie comunicative e di marketing che ogni azienda adotta pur di catturare l’attenzione dell’utente.

Sabrina Drasigh,
Dottore di Ricerca in Scienze dell’Educazione,
vincitrice del premio Rai “Giancarlo Mencucci” (2004).

 

Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

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