Psicofarmaci o psicoterapia?

La vecchia diatriba tra trattamento biologico e cure psicologiche non ha più motivo di esistere. Il trattamento integrato costituisce nella maggioranza dei casi lo strumento più adeguato. Un corretto inquadramento diagnostico è l’indice che deve guidare lo specialista nel dosare con equilibrio le proporzioni tra le due modalità di trattamento

La conoscenza dei disturbi psichici più frequenti è stata ampiamente diffusa negli ultimi anni, sia dalla carta stampata sia attraverso i media. Termini come depressione, panico, autismo, ossessioni, fobie, ipocondria, disturbo bipolare, anoressia e bulimia sono entrati nel linguaggio comune, dove descrivono condizioni psicopatologiche che un pubblico sempre più ampio comprende e di cui ha una conoscenza spesso approfondita. La familiarizzazione con tali termini ha ridotto l’impatto negativo ed ha attenuato la paura riguardo queste malattie, anche se un certo alone di mistero continua ad aleggiare intorno a questa categoria di disturbi. Negli ultimi 15 anni le conoscenze sulla natura e l’organizzazione nosografica delle malattie sono migliorate, le conoscenze farmacologiche si sono ampliate, gli strumenti psicofarmacologici si sono perfezionati con meccanismi d’azione più mirati e raffinati. Disturbi ritenuti scarsamente trattabili sono oggi curati con maggior successo, alcune patologie ritenute resistenti al trattamento sono apparse meno gravi. I risultati di questa rivoluzione del modo di trattare il malessere psichico ha coinvolto tutti: pazienti e psichiatri. Da una parte i pazienti hanno ricevuto cure più efficaci e meno gravate da effetti collaterali rispetto alle cure di un tempo, dall’altra gli psichiatri hanno ricevuto maggiore soddisfazione dal loro lavoro ed hanno riscosso maggiore fiducia da parte dei pazienti. Del miglioramento dell’immagine professionale degli specialisti della salute mentale in generale, hanno goduto anche i neuropsichiatri infantili ed il ricorso al parere di questi specialisti è oggi richiesto più di frequente e con maggiore fiducia rispetto al passato. Con l’imminente immissione in commercio in Italia del Ritalin (metilfenidato: farmaco per il trattamento dell’ADHD Attention Deficit Hyperactivity Disorder o Disturbo da iperattività con deficit dell’attenzione) è ritornato d’attualità un dibattito che evoca emozioni forti: il problema della diagnosi e del trattamento dei disturbi psichiatrici durante l’infanzia e l’adolescenza. Quando si tratta questo argomento riaffiorano vecchie convinzioni secondo cui il bambino è per definizione sano mentalmente e tutti coloro che vogliono visitarlo, studiarlo, analizzarlo per individuare e diagnosticare su di lui una malattia psichica sono degni del massimo sospetto. Le opinioni stanno lentamente cambiando ed è maggiormente accettata l’idea che anche il bambino possa ammalarsi di disturbi mentali, proprio come si ammala di tutti gli altri disturbi che affliggono l’adulto. Anzi, tenendo presente il principio che alcune malattie più sono gravi più si manifestano precocemente, l’esordio di un dìsturbo durante l’infanzia e/o l’adolescenza va tenuto ben presente per evitare malaccorti ritardi nella diagnosi e nel trattamento quando questo è richiesto.

Il trattamento farmacologico in neuropsichiatria infantile è stato in passato relegato ai disturbi più gravi. Il trattamento psicoterapeutico ha da sempre riscosso maggiore successo ed è stato ritenuto l’unico strumento possibile, tanto da essere impiegato pressoché ubiquitariamente. Oltre ad essere ritenuta meno invasiva e naturale, la psicoterapia aveva la possibilità di operare utilizzando le elevate potenzialità di apprendimento del bambino dal punto di vista cognitivo e le doti di plasticità del sistema nervoso, che in queste età della vita ha le massime capacità riparative e di sviluppo, dal punto di vista neurobiologico. La diatriba ha così visto per decenni da un lato gli specialisti di indirizzo biologico, che approcciavano al problema con i metodi della medicina e quindi con gli strumenti della diagnosi e del trattamento medico, dall’altra quelli ad indirizzo psicologico, che affermavano in questa fascia d’età il primato dell’approccio psicoterapeutico negando o limitando fortemente qualsiasi intervento farmacologico. Tra le due posizioni, atteggiamenti intermedi sostenevano maggiormente l’una o l’altra posizione, affermando sostanzialmente che l’approccio integrato “psicologico” e “biologico” era quello da prediligere perché portatore dei risultati migliori. I dati degli studi di questi ultimi anni tendono a sostenere la posizione del trattamento integrato. Un numero sempre più ampio di autori si è impegnato a valutare i correlati neurobiologici della psicoterapia e i risultati clinici, che derivano dal rapporto di sinergia tra il trattamento psicofarmacologico e quello psicoterapeutico. I risultati attuali sono confortanti e sempre più numerosi: i pazienti trattati con un’accorta integrazione dei due approcci sono quelli che riportano i migliori risultati. Considerati singolarmente i due approcci hanno luci ed ombre.

L’atteggiamento fideistico nel progresso tecnologico, le conquiste delle conoscenze della biologia, della chimica e dell’informatica ha influenzato in larga parte anche il modo in cui i pazienti guardano oggi ai medici e alla medicina. L’atmosfera di progresso senza limiti (e quindi la capacità di fornire soluzioni senza limiti) ha proiettato sulla tecnologia e sulla scienza una luce di onnipotenza. La stessa luce ha investito anche la medicina creando nei riguardi di alcune malattie aspettative immotivate e speranze illimitate nei trattamenti. Le cure psicofarmacologiche hanno un loro preciso ambito di competenza, che va attentamente osservato muovendosi all’interno di protocolli di diagnosi e di terapia. E’ compito dello specialista fornire le corrette informazioni sul decorso e sulle reali attese di miglioramento. Una dettagliata informazione sulle potenzialità del trattamento, ma anche sulla natura degli effetti collaterali e sulle possibilità di resistenza alla terapia, è indispensabile per aumentare l’adesione al trattamento la cui carenza è uno dei maggiori ostacoli a tutti i tipi di terapia e alle terapie psicofarmacologiche in particolare. L’armamentario terapeutico psichiatrico attuale ha, dunque, grandi potenzialità ma non è naturalmente la panacea di tutti i mali e per tutti i pazienti. È uno strumento che va utilizzato da chi ha una profonda conoscenza del mezzo farmacologico e delle sue indicazioni terapeutiche. Un uso incongruo danneggia il paziente non solo perché non attenua la sofferenza e quindi non lo aiuta a combattere la malattia, ma anche perché consolida la naturale diffidenza verso gli psichiatri e gli psicofarmaci convincendolo che la strada che ha intrapreso è sbagliata e che la soluzione deve essere ricercata in altre direzioni. Questo, molto spesso, porta il paziente a cercare risposte in forme alternative di terapia, che potranno essere o adeguate e con solide basi scientifiche, oppure del tutto inutili e quindi dannose perché causa di perdita di tempo prezioso, di sofferenza, di progressione della malattia. Il risultato sarà nella testa del paziente un senso di ulteriore sconfitta e di ineluttabilità, con la convinzione che la sua malattia sia un condizione senza ritorno. Altre osservazioni possono essere effettuate riguardo la psicoterapia. In era pre-farmacologica il trattamento psicologico ha vissuto la sua epopea ed è stato praticato su qualsiasi forma di sofferenza psichica, sia per natura che per gravità. Edward Shorter nella sua Storia della Psichiatria riporta che “Si calcola che nei primi anni ’80 ogni anno 22 milioni di americani abbiano chiesto assistenza psicologica. A questi individui si doveva almeno un terzo del miliardo di visite effettuate ogni anno. Nel 1987 la psicoterapia da sola è stata la voce responsabile dell’8% di tutte le spese mediche ospedaliere. In un secolo, la psicoterapia, da forma di trattamento semi-sconosciuto praticato dai neurologi era diventato il passatempo nazionale: nel corso della vita più di un quarto della popolazione americana si rivolgeva a qualche specialista”.

È facile comprendere come la psicoterapia sia stata impiegata indiscriminatamente in patologie anche gravi che avrebbero richiesto altri trattamenti. Mentre prima dell’era farmacologica ciò era inevitabile, al momento attuale è divenuto inammissibile. È unanimamente condiviso che la psicoterapia vada impiegata con precise indicazioni sul tipo di trattamento da adottare in disturbi attentamente individuati e diagnosticati. L’utilizzo tout court, senza la prescrizione di specialisti della materia, non solo rischia di essere inutile, ma può diventare addirittura dannoso quando ritarda o impedisce l’impiego dei trattamenti medici e farmacologici associati lì dove appaiono necessari. Attualmente, per molti disturbi, il miglior approccio è costituito dall’integrazione tra psicoterapia e psicofarmacologia. È di questi giorni poi l’allargamento, secondo quanto sarà scritto nel nuovo foglietto illustrativo in accordo con le determinazioni dell’AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco), dell’indicazione terapeutica del Prozac per bambini e adolescenti di otto anni di età e oltre. È stata subito polemica con prese di posizione e anatemi. La disposizione prevede che i giovani pazienti possano essere trattati farmacologicamente in caso di episodi di depressione maggiore di grado da moderato a grave. Il bugiardino precisa che il farmaco potrà essere proposto se la depressione non risponde alla psicoterapia dopo quattro-sei sedute e comunque solo in associazione con una contemporanea psicoterapia. Sicuramente le critiche mosse alla durata esigua del trattamento psicoterapeutico hanno fondamento tale da accendere la discussione. Il periodo di tempo appare davvero troppo breve per esprimere un giudizio riguardo l’efficacia del trattamento. È però positiva la posizione che qualsiasi approccio farmacologico dovrà essere preceduto dal tentativo psicoterapeutico. Spetterà all’esperienza e alle conoscenze del medico capire se il paziente dovrà prolungare il trattamento psicologico o dovrà assumere una terapia farmacologica integrata con la psicoterapia, in una equilibrata sinergia tra i due mezzi al di là della difesa di settarismi culturali o di convinzioni ciecamente dottrinarie.In conclusione, a mio giudizio, non è più possibile difendere questa o quella modalità di terapia senza aver prima compreso qual è la natura e la gravità della malattia che il medico è chiamato a curare. La decisione terapeutica deve seguire il processo diagnostico e non può precederla aprioristicamente. Nemmeno nella decisione dell’impostazione dottrinaria. Chi lo fa rischia, allo stato attuale delle conoscenze, di essere tacciato di difendere interessi lobbistici, di rimanere chiuso in orizzonti confinati di diagnosi e trattamento e di essere fuori dalla possibilità di perfezionare ed affinare continuamente i propri strumenti ma, soprattutto, di non portare a compimento l’azione più importante che il medico è chiamato a svolgere: praticare la migliore cura possibile per i propri pazienti.

Armando Piccinni
Psichiatra – responsabile day-hospital clinica psichiatrica
Università degli Studi di Pisa

Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

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