Il confine sottile tra effetto terapeutico e qualità della vita

Il bambino è abituato ad esprimere i propri disagi, le proprie sofferenze, con il linguaggio del corpo. Medici e pediatri ne sono consapevoli e quindi preparati all’elaborazione di una diagnosi e di una comprensione della patologia più raffinata e più completa da cui deriva l’uso ragionato dei farmaci, finalizzato all’attenuazione dei sintomi, alla cura, all’eliminazione degli agenti infettivi e altro, ma anche alla valutazione di costi e benefici

La recente autorizzazione dell’AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco) all’immissione in commercio dell’atomoxetina (Strattera) e del Metilfenidato cloridrato (Ritalin) indicate nel trattamento della sindrome da deficit d’attenzione e iperattività (ADHD), ha riportato all’attenzione dei media la questione della somministrazione di psicofarmaci in età evolutiva. Già in passato le polemiche sull’uso del metilfenidato (Ritalin) avevano suscitato un ampio dibattito nel paese non solo tra gli organi istituzionali e le varie associazioni pro o contro i farmaci, ma anche tra gli addetti ai lavori e nella stessa comunità scientifica. In questi ultimi anni si è diffusa nell’opinione pubblica una sempre maggiore attenzione nei confronti dell’uso indiscriminato dei farmaci in senso generale, che spesso sono stati e sono ancora utilizzati impropriamente anche dalla classe medica; basti pensare all’uso ed all’abuso degli antibiotici o dei cortisonici.
E’ vero che nel nostro paese, come d’altronde negli altri paesi occidentali, assistiamo ad un vertiginoso aumento della spesa farmaceutica, ma è anche vero che di pari passo vi è una sempre maggiore diffusione delle cosiddette medicine complementari o “naturali” e dei loro rimedi; alla ricerca della medicina che “non fa male” (e non è sempre così!) o ancora di un diverso rapporto con il proprio medico. L’attenzione verso i farmaci diventa maggiore, quando questi devono essere somministrati ad un bambino ed assume talvolta aspetti fobici, quando si parla di farmaci psicoattivi. I pediatri sono estremamente sensibili nel ricercare la qualità della vita dell’individuo e calibrano attentamente i loro interventi tenendo ben presente il contesto famigliare ed ambientale. Il sintomo di una patologia, di un disturbo va interpretato e soprattutto il bambino è abituato ad esprimere i propri disagi, le proprie sofferenze, non solo fisiche, con il linguaggio del corpo.

Questa consapevolezza del medico e del pediatra in particolare costringe all’elaborazione di una diagnosi e di una comprensione della patologia più raffinata e più completa, ed è da qui che deriva l’uso ragionato dei farmaci, finalizzato si all’attenuazione dei sintomi, alla cura, all’eliminazione degli agenti infettivi e quant’altro, ma anche alla valutazione dei ‘costi’ e dei benefici; ‘costi’ intesi nel senso non solo degli effetti collaterali, ma anche della qualità della vita dell’individuo. In altri termini quanto perdo in qualità di vita nell’assunzione di un farmaco? o altresì quanto coincide l’effetto terapeutico del farmaco con la mia qualità della vita? Tutte queste considerazioni si amplificano quando parliamo di una particolare categoria di farmaci: i farmaci psicoattivi che appunto agiscono sullo stato dell’umore, sul comportamento, sulle emozioni. La moderna psicofarmacologia è nata negli anni ’30 del secolo scorso con l’introduzione dei barbiturici, degli psicostimolanti, degli antistaminici e si è ulteriormente sviluppata negli anni ’50 e ‘60 con l’uso degli antipsicotici (tranquillanti maggiori), degli antidepressivi, del litio, delle benzodiazepine (tranquillanti minori). La ricerca in questi ultimi anni ha sviluppato composti sempre più selettivi ed efficaci, ma sempre con il limite rappresentato dall’agire sulla sofferenza mentale, dipendente, in gran parte e più di altre patologie, dalla relazione umana e dal contesto ambientale, sociale e psicologico. Gli psicofarmaci sono sempre stati utilizzati in età evolutiva, con moderazione e solo in pochi determinati casi: inizialmente l’uso è stato riservato agli psicostimolanti ed ad alcuni composti antidepressivi per la cura sintomatica dell’enuresi. La cautela è sempre stata determinata sia dalla convinzione che molti disturbi emotivi e comportamentali dell’età evolutiva dovessero essere affrontati soprattutto con interventi educativi e psicologici, sia dal fatto che gli psicofarmaci presentassero effetti collaterali notevoli e fossero molto grossolani nella loro azione.

Inoltre bisogna considerare che in età evolutiva è difficoltoso valutare sul piano clinico la natura ed il significato dei sintomi e quindi l’utilità e l’opportunità di un trattamento farmacologico, ciò anche in relazione alle limitate conoscenze circa l’attività dei farmaci psicoattivi ed ai possibili danni che possono procurare ad un organismo ancora in crescita ed in evoluzione. La ricerca e le conoscenze in questi ultimi anni sono andati molto avanti ed anche la psicopatologia si manifesta in maniera differente; ad esempio si assiste sempre più frequentemente ad esordi psicotici acuti in età adolescenziali ed addirittura preadolescenziali: 11-12 anni. In questi casi un immediato e breve trattamento anche (non solo!) farmacologico può interrompere l’esperienza mentale dissociativa, così impedendo nella maggior parte dei casi la cronicizzazione. In questi interventi i nuovi neurolettici, cosiddetti atipici, che hanno minor effetti collaterali, sono un utile supporto. Se invece pensiamo al Disturbo di Iperattività e Deficit di Attenzione (ADHD: Attention Deficit Hyperactivity Disorder), che tante polemiche ha suscitato nel nostro paese ma anche negli altri paesi europei, in Canada, in USA, la questione si fa più complicata. Normalmente l’uso prolungato di un farmaco è giustificato da un modello fisiopatologico conosciuto, dove il farmaco tende a ripristinare i meccanismi fisiologici alterati dalla patologia, oppure la terapia con i farmaci ha un valore sintomatico, cioè elimina semplicemente il sintomo.
Entrambe le opzioni possono essere valide; ovviamente la seconda dovrebbe avere, ma non è sempre così, un valore terapeutico più limitato nel tempo e nei benefici complessivi.
Nel caso dell’ADHD non vi è un modello né neurofisiopatologico né genetico-biologico e addirittura molti autori mettono in discussione l’opportunita di classificare questa sindrome come patologia in sé, visto l’alta frequenza di comorbilità, cioè di patologie associate. Partono da qui le perplessità e le paure di somministrare per lungo tempo a bambini di 5 – 6 anni farmaci psicoattivi, che pur mostrando una loro utilità non sono sufficientemente selettivi nella loro azione. Quello che si vuole mettere in discussione è una cultura che mette al centro dell’attenzione la patologia, la malattia, il disturbo, la sindrome, la categoria diagnostica e non l’individuo nella sua complessità e nella sua unicità. La vera scienza medica non è quella che pretende di curare le patologie, ma quella che ambisce a curare la persona.

Enrico Nonnis
Neuropsichiatra infantile, responsabile di U. O. dell’area della tutela
della salute mentale e riabilitazione in età evolutiva, Asl Roma D
Referente per la neuropsichiatria di psichiatria democratica

Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

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