La legge ormai c’è. L’usiamo?

E’ necessario, affinché la riforma diventi realmente operativa ed efficace, che il giudice ordinario e il giudice minorile, ognuno per la sua competenza, si adoperino attivamente per l’applicazione immediata della normativa, valutando, caso per caso, quanto corrispondano all’interesse del minore le modalità dell’affidamento concordate tra i genitori o pretese dal giudice in caso di mancato accordo

La riforma della normativa in materia di separazione personale “dei genitori”, entrata in vigore il 16 marzo u.s., sancisce il principio della bigenitorialità nei confronti dei figli minori, ossia della corresponsabilità di entrambi per quanto concerne la cura, l’educazione e l’istruzione della prole, anche dopo la separazione.

Sotto il profilo del suo significato culturale e sociale il testo normativo in esame merita pieno apprezzamento non solo perché espressione di un principio di civiltà ormai da tempo diffuso in quasi tutti i Paesi europei, ma soprattutto, perché orientato a meglio tutelare il reale interesse del minore, a mantenere un rapporto “equilibrato” e “continuativo” con ciascun genitore, con i nonni paterni e materni e con i parenti di ciascuno dei genitori. E’ necessario – allo scopo di rendere la riforma realmente operativa ed efficace – che il giudice ordinario e il giudice minorile, ognuno per la sua competenza, si adoperino attivamente per l’applicazione immediata della normativa valutando caso per caso la rispondenza all’interesse del minore, delle modalità dell’affidamento concordate tra i genitori o pretese dal giudice in caso di mancato accordo. Come da più parti autorevolmente confermato, riteniamo che, secondo il disposto dell’art. 4 co. 2 della legge n. 54/2006, la competenza in materia di affidamento della prole naturale sia rimasta al Tribunale per i Minorenni. Invero, il nuovo testo di legge, per ciò che attiene alla indicazione del giudice competente, non ha modificato l’art. 38 delle disposizioni di attuazione del Codice Civile, cosicché i provvedimenti contemplati dall’art. 317 bis C.C. relativi all’esercizio della potestà e all’affidamento dei figli naturali, restano attribuiti al Tribunale per i Minorenni.

Decisiva, al riguardo, si rivela la terminologia utilizzata dal citato art. 4 co. 2 laddove si parla di “procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati”: espressione, codesta, che sembra richiamare anche letteralmente i “procedimenti” in materia di affidamento e di esercizio della potestà parentale, già di competenza del Giudice per i Minorenni. Se così non fosse e cioè se il legislatore avesse inteso modificare la competenza per materia avrebbe adoperato una diversa locuzione mantenendo il riferimento ai “figli di genitori non coniugati” secondo la formulazione precedente, contenuta nel Testo Unificato della Commissione Giustizia. Il legislatore dell’affidamento condiviso, inoltre, pare voler superare la ripartizione delle competenze tra il Tribunale per i Minorenni e il Tribunale Ordinario per quanto concerne i provvedimenti sul mantenimento dei figli e sull’assegnazione della casa coniugale attribuendo ad un unico Giudice la competenza anche in adesione alle indicazioni fornite dalla Corte Costituzionale (Sentenza Corte Cost. 13/5/98 n. 166). Le prime applicazioni della legge avranno certamente una particolare efficacia ai fini di una inevitabile revisione dei nodi cruciali di più difficile realizzazione tra i quali potrebbe rientrare la frammentazione di competenze relativamente allo stesso minore sol perché figlio naturale di genitori non coniugati se il giudice che deciderà sull’affidamento sarà diverso dal giudice che dovrà decidere sull’assegnazione della casa e sul mantenimento. Come è noto, tali questioni sono spesso causa di un più acceso conflitto tra genitori con inevitabili ricadute sui figli minori. Sul punto vi è chi sostiene, proprio al fine di valorizzare e tutelare i diritti dei figli minori, tra i quali rientrano il diritto al mantenimento e alla assegnazione della casa familiare, che anche ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati deve essere applicato il nuovo art. 155 C.C., nel senso che dovrà essere un unico giudice a pronunziarsi sull’intera materia. I genitori di figli naturali non dovranno più rivolgersi al Tribunale per i Minorenni per l’affidamento dei figli e al tribunale Ordinario per le questioni patrimoniali, ma potranno ottenere giustizia da un unico giudice (v. Padalino nella nota “L’affidamento condiviso dei figli naturali” sul sito www.minoriefamiglia.it ).

Strumento di approfondimento e di verifica indispensabile ad una corretta decisione sarà l’ascolto del minore che il legislatore ha reso obbligatorio e che anche il giudice ordinario dovrà più frequentemente disporre avvalendosi, se necessario, di esperti capaci di affiancarlo senza sostituirsi a lui. Il diritto del minore ad essere ascoltato e ad esprimere la sua opinione, dopo la Convenzione di New York del 28 novembre 1989 ratificata con la legge 27 maggio 1991 n. 176 e della Convenzione di Strasburgo del 25 gennaio 1996, ratificata con la legge 10 marzo 2003 n. 77, esige una concreta e reale applicazione da parte dei giudici che trattano controversie di natura familiare o comunque incidenti sulla situazione esistenziale di un minore. L’auspicio, a questo punto, è che il minore, se capace di discernimento sia sempre ascoltato dal suo giudice che dovrà poi tenere in debito conto il suo punto di vista in sede di decisione (in tal senso Corte Cost. Sentenza n. 1/2002). Secondo l’art. 155 sexies “il giudice dispone l’audizione del figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento”: il giudice, pertanto, quando l’età del bambino lo consente deve sempre procedere al suo ascolto prima di adottare la decisione. A riguardo, si deve ritenere che il giudice non possa arbitrarsi di trascurare l’assunzione di una fonte di conoscenza e di pregnante valutazione quale è la parola del minore che è direttamente interessato nella sua vicenda familiare e può quindi fornire un decisivo apporto sempre che sia capace di discernimento. Sia ben chiaro che la voce del minore è qualcosa di diverso da una fonte di prova secondo la formale accezione del termine, ma è tuttavia fonte di conoscenza più preziosa delle altre perché riproduce in modo diretto ed autentico la situazione umana nella quale egli stesso è in prima persona coinvolto. Per questa decisiva considerazione riteniamo che il mancato ascolto del minore possa costituire nella maggior parte dei casi una grave omissione. Occorre aggiungere che si tratta di un tipo di ascolto estremamente complesso e delicato che, pertanto, ha bisogno di un giudice sensibile e professionalmente attrezzato. Il giudice che procede all’ascolto infatti deve essere in grado di spiegare al ragazzo, in modo appropriato, il senso della decisione giudiziaria e la conseguenza che tale decisione avrà sulla sua vita. Il tema, come è noto, è stato già più volte affrontato non solo dai giudici di merito ma anche dalla Suprema Corte già prima della decisiva pronuncia della Corte Costituzionale innanzi richiamata. I supremi giudici, con una decisione sul principio contenuto nell’art. 12 della Convenzione ONU sui diritti del fanciullo, hanno testualmente affermato che la norma “attribuisce all’opinione, ai sentimenti, agli interessi del minore se capace di discernimento un rilievo del tutto nuovo rispetto al quadro della nostra precedente legislazione, mirando ad attribuire all’infanzia ed alle componenti affettive e sentimentali di cui essa si nutre la priorità che le spetta nell’ambito della società” (Cass. 15/1/1998 n. 317).

Insieme all’ascolto del minore, altro elemento innovativo della legge di riforma è rappresentato dalla attivazione dei percorsi di mediazione tra i genitori. Tale strumento, tuttavia, è rimasto affidato alla discrezionalità del giudice. Vero è che il ricorso obbligatorio alla mediazione sarebbe stato di grande utilità non solo ai fini della riduzione del conflitto fra i genitori, ma anche in funzione delle decisione del giudice sull’affidamento dei figli: in tal senso il giudice sarà chiamato a “ravvisare” l’opportunità di acquisire il consenso a quel tentativo di mediazione che “esperti” dovranno attuare “con particolare riferimento alla tutela dell’interesse morale e materiale dei figli” (v. art. 155 sexies 2° co.). Diviene, quindi, ancor più necessaria ed urgente una normativa specifica sul profilo professionale del mediatore e sulle caratteristiche dei servizi di mediazione intesa come risorsa fondamentale che non potrà essere affidata alla improvvisazione o ad “esperti” non qualificati. Deve, infine, essere ribadito il convincimento che la operatività di un procedimento nuovo che affronti in modo sollecito ed attento la materia della separazione e dell’affidamento dei figli, richiede al giudice una profonda rivisitazione della funzione che è chiamato dall’ordinamento a svolgere: i suoi metodi di intervento e la tipologia dei suoi provvedimenti devono avere necessariamente caratteristiche sensibilmente diverse da quelle del giudice che opera in altri settori del diritto. Il giudice dell’affido condiviso dovrà maturare ed affinare la consapevolezza del suo delicato e complesso ruolo nella costruzione di un progetto di vita, di un percorso di sviluppo che nel rispetto della legge deve contribuire ad un “programma di globale protezione del minore e di aiuto alla sua famiglia” (A.C. Moro “Manuale di diritto Minorile” ). Fondamentale e di grande rilievo sarebbe la istituzione di un organo giudiziario realmente specializzato per la trattazione del diritto dei minori e della famiglia, con competenze esclusive e su base territoriale diffusa quale dovrebbe essere il tribunale delle persone e della famiglia

 

Maria Rita Verardo Romano
Presidente nazionale AIMMF

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