Alzheimer: aspetti sociali da condividere e agire

Questo è l’Alzheimer. Uno dei maggiori problemi sociosanitari, non solo perché non esiste una terapia risolutiva, ma anche per lo stigma che accompagna malati e familiari dal momento della diagnosi lungo tutto il decorso della malattia. Un dramma nel dramma.

Oltre 500.000 i malati in Italia. Il fatto che ancora non si possa curare non ci esime dall’obbligo di prendersi cura della persona che ha colpito e della sua famiglia. L’accompagnamento nel percorso della malattia può in parte lenire il dolore di chi la vive.

La malattia di Alzheimer è democratica, trasversale, mondiale.  Una categoria di persone ne è particolarmente colpita: gli anziani. Più viviamo, più possiamo contrarre la malattia. E’ un prezzo da pagare per l’allungamento della nostra vita.[1]

Una definizione formulata dal Committee of Geriatrics del Royal College of Physicians britannico nel 1981 definisce la demenza come “incompetenza cognitiva cronico-progressiva ad espressività ecologica”, mettendo così in stretta relazione l’incompetenza con le richieste dell’ambiente nel quale il malato vive. E’ una definizione poco medica e molto sociale, antropologica. L’ambiente siamo anche noi.

La maggior parte delle persone non sa fino in fondo che cos’è la malattia di Alzheimer finché non ne viene colpita,  direttamente o attraverso la malattia di un parente. Questa conoscenza si sta sempre più diffondendo: all’inizio soprattutto grazie alle associazioni dei familiari, ora anche con l’impegno diretto dei servizi sociosanitari pubblici.

La malattia di Alzheimer è multiproblematica e investe il cosiddetto triangolo assistenziale (malato, familiari, operatori). Il familiare, definito seconda vittima della malattia, è la persona che si assume, spesso da sola, il grosso della sua gestione[2]. Non possiamo fare a meno di lui, perché lo Stato non sarà mai in grado di rispondere con servizi propri ai bisogni di questi nuclei, vista la numerosità dei pazienti e le disponibilità di bilancio. E’ necessario riconoscere la malattia e il suo carico assistenziale ed è necessario -così come previsto della L. 328/2000 “Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali” – valorizzare e sostenere la famiglia nella sua responsabilità  di cura.

Il malato di Alzheimer vive la maggior parte della malattia (6-7 anni) al suo domicilio. La casa è di per sé terapeutica: consente di non aggravare il disorientamento spazio-temporale e di conservare più a lungo le abilità primarie. Riveste inoltre un’altra importante funzione: quella di evitare o ritardare la stigmatizzazione della persona demente, spesso definitivamente sancita dalla sua istituzionalizzazione.

La particolare complessità del problema vissuto dalla famiglia alzheimeriana non è stata ancora riconosciuta dagli EE. PP., nonostante le risoluzioni del Parlamento Europeo del 17.4.1996 e del 11.3.1998. Quella del 1998 “deplora che né la Commissione né gli Stati Membri abbiano ancora dato adeguatamente seguito alle sue richieste di potenziare gli sforzi per combattere questa malattia in rapida espansione”. La tendenza neoliberista degli Stati in materia sociosanitaria, che si esplica in non-azione di fronte alla complessità, non deriva solo da motivazioni di ordine economico ma, nel caso dell’Alzheimer, trova giustificazione nella non trasmissibilità della patologia, che non assume dunque caratteristiche di pericolosità sociale (come l’AIDS o la ” mucca pazza”) e non impone/obbliga interventi all’organizzazione dei servizi.

I testi fanno spesso riferimento a tre fasi di evoluzione della malattia, ma esiste una notevole variabilità da persona a persona. Meglio riferirsi alla demenza come a un processo continuo che impone alla medicina e alla società una serie di problemi di difficile soluzione:

§         è una malattia della persona e della sua rete familiare e sociale che comporta gravi danni psichici, fisici e sociali

§         è una malattia che dura molto a lungo, in media 10 anni

§         è una malattia che muta e si aggrava col passare del tempo, imponendo di cambiare continuamente comportamenti e cure (dal punto di vista cognitivo, comportamentale e fisico)

§         i farmaci disponibili hanno costituito un modesto passo avanti: intervengono sui sintomi, ma non sulle cause della malattia.

La famiglia ha diritto/bisogno di ascolto, di conoscere e approfondire la malattia, di aiuto per diffondere agli altri queste conoscenze (per superare la vergogna e facilitare la permanenza di rapporti sociali), di aiuto per affrontare il vissuto di disperazione, di lutto (si perde una persona mentre è in vita) e di impotenza, di aiuto per cogliere tutto quello che di buono sta facendo per il malato, per non trascurare il proprio lavoro e il proprio tempo di cura  (hanno la consapevolezza di non potersi ammalare), di sostegno per superare il senso di colpa derivante dalla decisione di istituzionalizzare il malato, di aiuto (non solo economico!) per organizzare le risorse disponibili (informali e formali) attorno al malato, di partecipare a incontri di familiari con problematica similare per favorire lo scambio di esperienze e il sostegno reciproco ( gruppi di auto mutuo aiuto).

La persona malata ha diritto/bisogno di rispetto e dignità al pari di ogni altro cittadino; di essere informato, possibilmente in fase precoce, della malattia e della sua evoluzione per poter partecipare alle decisioni riguardanti il tipo di cura e assistenza presente e futura, ma ha soprattutto diritto a servizi che non siano “contenitori”, ma luoghi in cui ci si prenda cura di lei e si promuova il suo benessere. Assistenza domiciliare in primis. Centri diurni assistiti. E, se serve, case di riposo con numero adeguato di operatori, motivati e formati, con rette di conseguenza più costose a carico della comunità, per escludere forme di contenzione fisica e farmacologica[3] e rispettare i ritmi di vita personali.

Un mondo a misura di Alzheimer è attento e solidale, è consapevole dei bisogni, protegge malati e famiglie con lo sviluppo di una rete di servizi. Investe nella ricerca. Riconosce fino in fondo il peso psicologico e finanziario della famiglia nel prendersi cura di questi malati per molti anni.

Le associazioni Alzheimer sono impegnate a far conoscere la malattia, a promuovere solidarietà, a chiedere servizi adeguati, a rispondere direttamente con servizi gratuiti  di informazione, sostegno individuale e di gruppo, consulenza legale, assistenza. E mettono a disposizione delle famiglie materiale informativo che li aiuti nel compito di cura.

 

Associazione Goffredo de Banfield
affiliata alla Federazione Alzheimer Italia


[1] La prevalenza della demenza aumenta in maniera esponenziale con l’avanzare dell’età: si passa da una prevalenza dell’1% nei 60-64 anni a una prevalenza del 32 % tra i 90-94 anni. : ogni anno 150.000 nuovi casi di demenza in Italia, di cui 75.000 Alzheimer

[2] Mediamente 7 ore di assistenza diretta e quasi 11  di “presenza” = 3/4 della giornata ( ricerca Censis, 1999)

[3] Per contenzione fisica si intende l’applicazione di qualsiasi mezzo atto a limitare o impedire i movimenti del corpo o di parti di questo, come ad esempio corpetti, bende, cinghie.  In Italia i mezzi di contenzione vengono usati con una frequenza che va dal 17,5 al 51,7 %. Lo scopo principale é quello di evitare le cadute o impedire la rimozione di presidi (sondini , fleboclisi, cateteri) o gestire un’agitazione psicomotoria. Esiste anche la contenzione farmacologica, grandemente praticata. Alternative alla contenzione possono essere ricercate in modalità di tipo comportamentale. ambientale, sociale, tecnologico: costano più della contenzione.

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