Un dramma che dura una vita

Le donne che rinunciano al loro bambino si ribellano alla consolazione ed alla giustificazione banale, perché nulla è peggio del tentativo di minimizzare un dolore. Il recupero della persona nel post-aborto richiede perciò una elaborazione profonda e investe tutti i livelli della personalità

Dell’aborto come decisione dolorosa, come dramma si parla in Italia diffusamente: così è definito sia da coloro che lo considerano un problema essenzialmente della donna sia da coloro che lo valutano anche sotto un profilo etico ed antropologico, e lo considerano problema che tocca donna e figlio concepito.

Ma in Italia, come negli altri paesi del resto, il dibattito sull’aborto ha sempre preso in esame le cause, le motivazioni, gli aspetti medici e quelli legislativi: ossia il “prima” dell’aborto. Si è quasi sempre rimosso invece il pensiero se esso può comportare conseguenze nell’immediato o negli anni successivi della vita della donna, condizionando la vita psichica sua o la relazione della coppia o la serenità dei figli nati o che nasceranno. La mancanza di una seria riflessione sotto questo profilo è davvero singolare perché, come da tempo vanno dicendo alcuni studiosi (Rue V.M., Speckhard A.C. ed altri, 1996) “data la considerevole frequenza con cui si fa ricorso all’interruzione volontaria della gravidanza…la questione riguardante i rischi per la salute pubblica è ben più che un argomento accademico”.

In ambito psichiatrico sono noti le Psicosi post-aborto e gli stati di Stress da aborto ma è necessario aprire nuovi spazi di riflessione attorno alla Sindrome post-abortiva, meno riconoscibile perchè comprende “un insieme di disturbi che possono insorgere subito dopo l’interruzione ma anche dopo diversi anni, in quanto il trauma può rimanere a lungo latente a livello inconscio”.  La donna “può rimuovere, può anche negare, mediante meccanismi di difesa, quanto è accaduto, ma può anche ricuperare la percezione cosciente dell’interruzione avvenuta, evidenziando il bisogno di elaborazione del lutto…” (Righetti P.L., Casadei D., 2005). L’esplosione della sofferenza può accadere in occasione di eventi stressanti quali una nuova gravidanza, sterilità secondaria, aborto spontaneo, isterectomia, o dopo perdite affettive, a volte dopo anni di assenza di sintomi specifici.

In un recente convegno del Movimento per la Vita (Firenze- Montecatini, novembre 2005) sono stati presentati dati relativi ad un Servizio telefonico (SOS VITA 8008.1300) attivo da anni per le donne in difficoltà di fronte ad una gravidanza inattesa o indesiderata: in modo sorprendente il 3.5 % delle telefonate (esattamente 830) sono state fatte in realtà da donne segnate da un aborto, a volte recente (2-3 settimane) a volte distante nel tempo (15- 20 anni) che cercano ascolto, comprensione della sofferenza che patiscono, aiuto per superare la ferita rimasta aperta, che sembra incurabile Non cercano giustificazioni alla scelta fatta a suo tempo: hanno quasi sempre avuto contatti con persone che si sono prodigate in questa direzione e non ne hanno avuto beneficio alcuno. Si ribellano alla consolazione ed alla giustificazione banale, perché nulla è peggio del tentativo di minimizzare un dolore. Il ricupero della persona nel post-aborto  richiede perciò una elaborazione profonda e investe tutti i livelli della personalità.

Una donna su tre nella casistica presentata  ha meno di 25 anni: sono dunque donne cresciute in un contesto culturale nel quale l’aborto non è colpevolizzato, è sostenuto anzi come scelta responsabile all’insegna della positività della autodeterminazione.  Le donne che telefonano però denunciano una sofferenza emotiva intensa e parlano  di una insufficiente informazione, di solitudine, di mancanza di consapevolezza autentica rispetto alla decisione presa, di pesanti condizionamenti che hanno influenzato la decisione. Dicono che non si sentivano in grado di accogliere quel figlio, ma il basso livello di autostima è ulteriormente diminuito con la scelta abortiva. Nella difficoltà del momento la percezione del figlio era rimasta sfocata, quasi realtà astratta rilegata nell’immaginario. Ora essa riemerge e prende consistenza: non di un fatto sanitario si è trattato, ma di una maternità troncata nella sua evoluzione naturale con responsabilità personale, per quanto condizionata dai fatti e dalle situazioni della vita. La maternità non è la gravidanza, riguarda la struttura personale della donna, non solo la sua realtà psicofisica.

La diffusa impressione che l’aborto sia un dramma nel momento della decisione, ma che poi si supera e la vita torna ad essere quella di prima, senza più le difficoltà che hanno portato all’aborto, è irreale: le cose non stanno così, se si va appena un po’ oltre alle apparenze.

 

Elena Vergani
L.D. in Psichiatria
Specialista in Neuropsichiatria
già Primario Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura – Ospedale Molinette di Torino

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