Innatismo, psicologismo o sociologismo?

La risposta a questa domanda è semplice e definitiva: no, non è vero.

Il comportamento umano è sempre il risultato di tre fattori che interagiscono tra di loro in modo non deterministico (ovvero né prevedibile né meccanico) ma secondo dinamiche estremamente complesse e variabili. Il primo fatore in gioco è senz’altro quello biologico. E’ indubbio che il patrimonio genetico influenza e condiziona la persona e il suo sviluppo futuro. Solo il fatto di essere maschi o femmine, bruni o albini ha un effetto indiscutibile sull’individuo. E allo stesso modo alcuni fattori ereditari costituiscono una base di partenza da cui non si può prescindere. Ma si tratta semplicemente di una base di partenza in cui non è iscritto alcun comportamento immutabile. E’ come poter disporre di un alfabeto: il numero delle lettere è limitato e i suoni ben definiti (e questo è il condizionamento inevitabile) – ma quel che si scriverà con quelle lettere non è affatto determinato. Per cui sarebbe un errore pensare che dal patrimonio genetico derivino per necessità dei comportamenti e in qualche modo il destino di un uomo. La storia di un uomo, insomma non è affatto già scritta nel suo menoma. E ciò perché sul primo fattore, quello biologico, se ne innesta un secondo: il patrimonio di esperienze dei primi tre anni di vita. Si tratta di un periodo fondamentale in cui l’encefalo plastico- ovvero quella parte di cervello che si struttura con la crescita e lo sviluppo dell’individuo- si modella profondamente e in cui le esperienze esistenziali assumono una rilevanza indiscutibile.  Tra l’altro, in questo periodo si verificano delle “fissazioni” del comportamento che possono essere considerate erroneamente innate. Ad esempio la scelta sessuale si verifica in gran parte in questo periodo ed è anche per questa precocità che alcuni, errando, pensano che l’omosessualità o l’eterosessualità siano “inscritti” nel proprio patrimonio genetico. E la stessa cosa vale, ad esempio, per la timidezza o l’introversione, che sono dovute al “vissuto” relazionale, ovvero alla percezione del proprio sé, e solo marginalmente a disposizioni innate.

Il terzo fattore che entra in gioco nella definizione della personalità e del comportamento è l’ambiente in cui il soggetto si trova ad agire. E, per ambiente, si intende un insieme di elementi che vanno dai genitori alla nazione, alla città e al quartiere in cui il bambino abita, dalla condizione economica della famiglia all’epoca storica in cui vive.

Ora questi tre elementi vanno valutati nel loro complesso se si vuole veramente ricostruire l’itinerario di una personalità. Quando invece ci si fissa soltanto su uno di loro, e si cerca di ridurre ad esso tutti i meccanismi del carattere e del comportamento, si fa del riduzionismo. E può esserci in riduzionismo biologico e genetico – alla maniera di Lombroso, per intenderci – secondo cui il destino di un uomo è scritto tutto nei suoi caratteri genetici; un riduzionismo psicologico che invece risolve tutto all’interno della relazione che il bambino stabilisce con i genitori nei primi tre anni di vita, e vede in ogni comportamento successivo soltanto un riflesso di quella relazione; o, infine, un riduzionismo sociologico. A quest’ultimo riduzionismo, ad esempio, vanno ricondotte le teorie che interpretano la mente come sorta di tabula rasa su cui è soltanto la società a scrivere, o come uno specchio in cui si riflettono senza mediazioni i disagi del mondo contemporaneo. Oltre il riduzionismo di qualsiasi specie, invece c’è oggi la consapevolezza che ognuno di questi fattori gioca un ruolo di rilievo. Ma anche se, caso per caso, questo o quel fattore può assumere un’importanza maggiore o minore, mai si potrà dire che un dato comportamento era ineluttabile, fatale, scritto nel libro del destino – sia che si tratti del patrimonio genetico, sia che si tratti dell’influsso ambientale.

Anche le oligofrenie gravi- la sindrome di Down, ad esempio – che un tempo sembravano segnare senza scampo  la vita di un essere umano, oggi si sono dimostrate per nulla “fatali”: incidendo infatti sulle esperienze del primo periodo dell’esistenza e inserendo il bambino in un ambiente stimolante e adeguato si riescono a raggiungere risultati straordinari, che rovesciano decisamente tutti i preconcetti meccanicisti e riduzionismi.

Vittorino Andreoli
Neurologo e psichiatra, Direttore del Dipartimento di Psichiatria di Verona – Soave.
Membro della The New York Academy of Sciences. E’ Presidente della Section Committee on Psychopathology of Expression della World Psychiatric Association.

 

DALLA PARTE DEI BAMBINI

BUR Biblioteca Univ. Rizzoli

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