Il diritto di crescere sereni

I minori sono oggetto di valutazione per la loro migliore collocazione con l’uno o l’altro genitore mentre l’interrogativo dovrebbe essere: con quale dei due genitori il bambino si sente maggiormente protetto?

Il presente articolo prende spunto da quanto scritto dalla dott.ssa Marcella Lucidi nell’articolo “Quando l’infanzia resta muta” (Ottobre 2005) nella cui conclusione si legge <<C’è ancora molto da fare perché quei diritti, per molti bambini, non vengano violati.>>. Condividendo lo spirito della tutela dei minori e della necessità di azioni forti affinché il diritto degli adulti non sia prevaricante, credo sia alquanto necessario pensare non solo alle situazioni estreme in cui i minori si trovano coinvolti (vittime o autori di reato) ma per una volta vorrei riflettere sullo status di quei bambini che stanno vivendo la ben più consueta (in termini numerici) condizione di dis – agio dovuta alla separazione (e successivo divorzio) dei propri genitori. Provando a cambiare punto di vista, vorrei parlare di quei minori che, nelle Consulenze Tecniche d’Ufficio, si trovano oggetto di valutazione circa la “migliore collocazione del minore con l’uno o l’altro genitore”. Tradotto: esiste una persona – il CTU – che dovrà rispondere ad un Giudice circa l’idoneità genitoriale dell’uno o dell’altro ex-coniuge a crescere i loro figli.

L’interrogativo, nei termini di tutela del minore dovrebbe  invece essere <<con quale dei due genitori il minore dimostra un attaccamento più sicuro?>> o, più semplicemente, con quale dei due genitori il minore si sente maggiormente protetto considerando che non esiste tra il minore e i propri genitori un identico attaccamento. Convinta che il futuro della psicologia giuridica debba necessariamente passare attraverso un serio confronto tra le opinioni dello psicologia, della giurisprudenza e degli esperti sociali, intendo presentare una riflessione su alcune delle numerose problematiche che avvolgono questo ambito lavorativo sperando con questo di attivare un dibattito costruttivo volto al miglioramento dell’intero sistema. Purtroppo (o per fortuna, secondo il punto di vista) mi sono trovata più di qualche volta a supervisionare il lavoro di colleghi per una valutazione del lavoro attuato da un consulente del giudice al fine di dirimere questioni rimaste irrisolte o presentare osservazioni circa la metodologia attuata ed i criteri di valutazione utilizzati.

I maggiori problemi sono emersi nei casi di separazione conflittuale dove i minori vengono resi oggetto di contesa tra i coniugi non solo per l’ottenimento della loro custodia in termini di affetto ma per il conseguente vantaggio in termini economici che tale affidamento procura (dalla casa all’assegno di mantenimento). Purtroppo, in assenza di una agevole collaborazione lavorativa ed interdisciplinare tra psicologia e giustizia che includa il livello istituzionale (i Presidenti dei Tribunali e gli Ordini Regionali degli Psicologi e degli Avvocati), non resta altra via che il compromesso o l’adattamento ad un sistema che spesso dimentica il fine delle consulenze tecniche – soprattutto quelle disposte in ambito di separazione – che “dovrebbe essere” il benessere del minore e non la prevaricazione del diritto dell’uno o dell’altro ex-coniuge. Sebbene le norme che regolano l’istituto della consulenza tecnica siano assolutamente sufficienti, per non dire adeguate, a garantire – sia pure con un opportuno adattamento metodologico – il rispetto dei principi del diritto e delle parti in causa ci si trova troppo spesso di fronte alla tendenza del CTU di vivere il proprio ruolo come inclinazione a ricercare e conquistare la fiducia del Giudice andando a colludere con schemi di pensiero di senso comune o comunque distanti dalle dinamiche interne alle famiglie.

Gli incarichi infatti vengono conferiti per lo più in base alla fiducia personale del Giudice piuttosto che facendo riferimento ad un criterio di competenza giuridica che tenga conto della effettiva esperienza acquisita. Inoltre non sempre la scelta del CTU avviene tra coloro che sono iscritti all’Albo dei consulenti Tecnici del Giudice e con scarsa rotazione degli incarichi (a contrasto dell’art.23 att. c.p.c.).  Ricordo che una consulenza su un sospetto abuso sessuale fu svolto da un CTU al primo incarico. Lo psicologo giuridico, stante la denunciata mancanza di specifica preparazione professionale e non conoscendo quindi le Norme ed i Principi del Diritto, tende a confondere il ruolo professionale extra giudiziale con quello richiesto dallo spirito della consulenza tecnica psicologica. Inoltre, tenendo conto che la psicologia è una scienza “probabilistica”, ove è carente una specifica formazione professionale, si rischia di cadere nella confusione del ruolo professionale: nelle situazioni di separazione coniugale ove si cerca una mediazione tra le parti in causa si stravolge la natura e la finalità della consulenza tecnica giudiziale. Un esempio sono appunto le CTU che cercano di mediare il conflitto in una coppia in separazione quando l’incarico è volto a considerare l’affido del minore. Il diritto di quest’ultimo passa in secondo piano in virtù di una spiccata propensione a rivolgersi al diritto degli adulti trascurando il soggetto della consulenza: il minore ed il suo diritto a crescere in una dimensione di “benessere”.

Pensare che questo conduca alla comprensione del “genitore idoneo” senza tenere in considerazione il minore “perché in tenera età” è un grave torto al suo diritto di tutela. Cosa desideri il minore, le sue esigenze, il suo stato d’animo nei confronti del padre e della madre è un dato doveroso da conoscere. È doveroso approfondire il suo attaccamento verso l’uno o l’altro genitore, le sue condizioni di vita ed il suo comportamento con l’uno e con l’altro genitore non orientando questo secondo la dicotomia dello stare meglio/stare peggio ma secondo il punto di vista di chi osserva una relazione e la valuta nella prospettiva del benessere della sua crescita. Si intende con questo mettere in risalto la valutazione degli elementi di vita e relazionali così come sono intesi dal minore attraverso un processo di mimèsi, non di empatia e nemmeno di mera valutazione testistica. La confusione del ruolo di molti psicologi chiamati a svolgere consulenze tecniche è enorme: se da un lato manca ancora una formazione specifica circa la metodologia da utilizzare in tali contesti, dall’altro esistono errori formali e di contenuto che fanno riferimento ad ambiti psicoterapeutici relativi a situazioni di cura che poco hanno a che vedere con il contesto giuridico.  È auspicabile che questo campo di lavoro, cenerentola nella tradizione psicologica, si rinnovi al più presto attraverso il richiamo all’attenzione del diritto del minore. In altri termini, del resto, l’interesse per la psicologia applicata al campo della giustizia si affianca a quello per la filosofia del diritto e, da questo, all’etica professionale.

Manuela Ponti
Psicologa esperta in Psicologia Giuridica

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