Il sistema penale minorile e la Dichiarazione di New York

Il sistema italiano di diritto penale minorile prevede la specializzazione dell’organo giudiziario deputato alla sua applicazione. Questo è rappresentato dal Tribunale per i minorenni, che è un organo “ordinario” e non “speciale”, poiché inserito nell’ordinamento giudiziario, ma “specializzato” perché costituito da collegi a composizione mista di magistrati di carriera ed ordinari, questi ultimi scelti fra categorie di esperti minorili di materie non giuridiche.

Per fornire risposte adeguate ai reati commessi dai minori è necessario che le legislazioni penali dimostrino maggior interesse nel promuovere il recupero del reo minore nel perseguimento dell’interesse superiore del fanciullo che, non va dimenticato, è sempre l’obiettivo principale da tener presente così come sancito dall’art. 3 della Dichiarazione dei Diritti del Fanciullo del 1989. Infatti, il trattamento a cui deve venire sottoposto un minore deve essere tale “..da favorire il suo senso della dignità e del valore personale e che rafforzi il suo rispetto per i diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e che tenga conto della sua età nonché della necessità di facilitare il reinserimento nella società e di fargli svolgere un ruolo costruttivo in seno a quest’ultima.” (art. 40 Dichiarazione).

In quest’ottica, a titolo d’esempio, è da sottolineare come la Dichiarazione preveda, dove possibile, la possibilità di adottare provvedimenti senza far ricorso a procedure giudiziarie.  Si deve infatti ricordare che l’art. 27 della nostra Costituzione individua nella rieducazione del soggetto condannato l’unico obiettivo della sanzione penale.

Il diritto penale minorile italiano prevede imputabilità del minore, secondo il quale il minore di anni quattordici non è imputabile, qualunque sia il reato che abbia commesso, e che per il minore tra i quattordici ed i diciotto anni l’imputabilità vada accertata caso per caso. Queste norme attuano il testo della Convenzione che all’ art. 40, comma terzo lettera a, dispone che gli Stati “si sforzino…di stabilire un’età minima al di sotto della quale si presume che i fanciulli non abbiano la capacità di commettere reato.” Il reato commesso da soggetto non imputabile per difetto assoluto d’età, ovvero poiché ritenuto in concreto incapace di intendere e di volere, non resta comunque senza conseguenze per il diritto penale; stabilito il principio della non irrogabilità della sanzione penale intesa in senso stretto, resta aperta la possibilità dell’applicazione di una misura di sicurezza (in particolare libertà vigilata, permanenza in casa, ricovero in comunità o riformatorio giudiziario) quando si tratti di gravi reati e vi sia constatata pericolosità sociale del prosciolto per difetto di imputabilità. Nel caso, invece, in cui il minore sia ritenuto capace di intendere e di volere e quindi possa rispondere penalmente del reato commesso, può beneficare di una particolare circostanza attenuante che consente ai giudici minorili di irrogare pene in genere contenute per fatti che, se commessi da un maggiorenne, porterebbero a condanne pesanti.

Se il giudice accerta che il minore è imputabile, prima di passare al giudizio vero e proprio deve verificare che non vi siano le condizione per la pronuncia dell’irrilevanza del fatto al fine di una rapida ed “indolore” uscita del minore dal processo penale per la rapidità dei tempi della pronuncia. Questo istituto ben si lega a quanto previsto dalla Convenzione di New York (art. 40, terzo comma, lett.b) che auspica l’adozione di provvedimenti che consentano di trattare il minore senza il ricorso a procedure giudiziarie, ma sempre nel rispetto delle garanzie legali.

Il giudice ricorre, invece, alla sospensione del processo  dopo aver stabilito che il minore giudicabile è imputabile e che il fatto per cui si procede non è irrilevante. A questo punto il giudice potrà verificare se sia possibile sospendere il processo per mettere il minore alla prova, sulla base di un programma redatto dal servizio sociale per minori. Anche la messa alla prova, perseguendo obiettivi di trattamento extra-carcerario del minore, risponde pienamente agli scopi indicati della Convenzione.

Queste attività possono rilevarsi estremamente complesse poiché necessitano della collaborazione di diversi soggetti e della mobilitazione di varie risorse, anche economiche, della famiglia, del volontariato.

In particolare il perdono giudiziale è forse il più noto tra gli strumenti indulgenziali a disposizione del giudice minorile. Tale istituto è molto utilizzato poichè risponde a logiche indulgenziali anche se può talora  indurre il minore a ritenere che le sue azioni restino in ogni caso prive di sanzione, con il conseguente pericolo di recidiva.

Sulla medesima linea di una politica criminale improntata a mitezza si muove la sospensione condizionale della pena. Come per il perdono giudiziale, il giudice deve presumere che il condannato si asterrà dal commettere ulteriori reati , ma va detto che la misura viene concessa con una certa larghezza anche in assenza di precisi riscontri al riguardo, venendo in pratica ad assumere un carattere spiccatamente indulgenziale. A differenza del perdono, la sospensione della pena ha un effetto di stigmatizzazione ben maggiore, posto che viene iscritta sul certificato penale del condannato e non viene automaticamente cancellata al compimento del ventunesimo anno, e soprattutto che può essere revocata, con la conseguente automatica esecuzione della pena.

Infine, vi sono anche le sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi come: la semidetenzione, con obbligo di trascorrere in istituto dieci ore al giorno, la libertà controllata che implica una serie variabile di divieti ed obblighi per il condannato, e le sanzioni pecuniarie irrogate in luogo di quelle detentive.

In ultimissima analisi bisogna far riferimento ad un’ ipotesi molto particolare ma in Italia ancora tutta da sperimentare e non molto diffusa. Si tratta dell’ipotesi di “mediation” che permette al giudice minorile di impartire specifiche prescrizioni dirette “a riparare le conseguenze del reato ed a promuovere la conciliazione del minorenne con la persona offesa dal reato.”

Da questa rapida analisi, possiamo dunque concludere che il sistema penale e processuale minorile italiano è un sistema elastico e finalizzato nelle sue linee generali a dare risposte il più possibile extracarcerarie.

Certamente vi sono varie sfide per il sistema penale minorile: quella più difficile è probabilmente rappresentata dalle fasce più marginali ed instabili della popolazione giovanile, in particolare dai ragazzi nomadi e dagli stranieri irregolari, che vivono spesso in gravi condizioni di deprivazione materiale e morale e con rischi continui di coinvolgimento in attività criminali, quali furti in abitazione per i nomadi e lo spaccio di stupefacenti per gli extra-comunitari. Le misure alternative alla detenzione, cautelare o definitiva, che sin qui abbiamo descritto, non sono in realtà applicabili a questi minori, così come per loro non è ipotizzabile alcun progetto di messa alla prova, né un coinvolgimento dell’ambiente in cui vivono, della famiglia che non esiste o che può essere la vera mandante dei reati che commettono, della scuola che non frequentano e del lavoro, inteso come occupazione stabile e regolare, che non hanno e che non avranno mai.

Bisogna allora osservare che certamente questo sistema penale, fondato su un’ampia discrezionalità del giudice e sulla mobilitazione di risorse che spesso non ci sono, rischia di creare delle disparità di trattamento e che, se ciò di per sé non rappresenta una violazione del principio di uguaglianza di fronte alla legge, certamente sollecita uno sforzo da parte di tutti i soggetti coinvolti per trovare soluzioni di progettualità praticabile, pena la creazione di un vero e proprio doppio binario nel trattamento penale del minore.

 

Matteo Corrado

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