Non di abuso si tratta, ma di violenza

La parola “abuso” definisce un’iperbole dell’uso che determina un comportamento riprovevole, ma in qualche modo prevede l’ipotesi di un uso corretto. Se, auspicabilmente, esiste l’uso corretto della sessualità tra adulti, vi può essere in alcun caso un uso plausibile della sessualità tra un adulto e un bambino. L’abuso ci sarà quindi sull’adulto, ma in relazione ad atti connessi all’uso del bambino a fini sessuali dell’adulto si dovrebbe sempre parlare di violenza.

Quando si parla dei reati a sfondo sessuale si opera una vera e propria distorsione lessicale dei significati: parliamo infatti spesse volte di violenza sessuale, quasi esclusivamente perpetrata a carico delle donne e di abuso sessuale sui minori.  Mi rendo conto che certe parole sono entrate nell’uso corrente e soprattutto hanno una rilevanza, diciamo una validazione, dall’uso internazionalistico che se ne fa, però a mio avviso bisogna smetterla di parlare di abuso sessuale sui minori. La parola “abuso” definisce un’iperbole dell’uso che determina un comportamento riprovevole, ma in qualche modo prevede che vi sia l’ipotesi di un uso corretto (non a caso si dice che uno fa abuso di alcool). Può esserci, ed auspicabilmente, un uso corretto della sessualità tra gli adulti, ma non vi può essere in alcun caso un uso plausibile della sessualità tra un adulto e un bambino. L’abuso ci sarà quindi sull’adulto, ma in relazione ad atti connessi all’uso del bambino a fini sessuali dell’adulto si dovrebbe sempre parlare di violenza. Mi rendo conto peraltro che ci sono molti filoni di pensiero difformi da questo anche perché spesso sia certi giuristi che certi psicologi si sono esercitati nell’affinare un ragionamento sul limite della definizione di violenza e sulla difficoltà di definire il comportamento sessualizzato, tal che se da un lato ciò ha consentito di evitare degli errori processuali, purtroppo ha offerto il destro alle organizzazioni che espressamente vogliono difendere la pedofilia per proclamarsi paladini della emancipazione sessuale dei bambini e fautori della non-violenza nei rapporti.

I riscontri scientifici e le storie vere delle vittime della violenza sessuale sono concordi nel rilevare come il coinvolgimento del bambino nella vita sessuale dell’adulto sia sempre un evento traumatico destabilizzante il normale percorso di costruzione della propria personalità. Ogni diversa costruzione teorica che discetti sul problema del consenso della vittima, ovvero della assenza di violenza fisica è una pura autogiustificazione e non può essere presa in considerazione per impostare una seria protezione dei minori, né una loro vera emancipazione.

Le norme del nostro codice penale che presiedono a questa complessa realtà sono state modificate molto di recente. Anche se le leggi di riferimento, la 66/96 e la 269/98 hanno già qualche anno di applicazione esse incidono su un terreno di consolidate tradizioni e di tendenziale conservatorismo come è il diritto penale, e per certi versi non hanno potuto incidere sulla cultura sociale oltre che giuridica che deve sostenerle.

Con la legge 66/96 si definisce in modo nuovo il reato di la violenza sessuale. La legge è del 1996 segna una svolta dell’approccio al problema e modifica tutte le fattispecie connesse alla violenza sessuale trasformandoli da reati contro la morale pubblica, a reati contro la persona. l’art. 609bis, del codice penale recita “chiunque con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da cinque a dieci anni.”

Il superamento della precedente classificazione più tesa determinare i comportamenti ( atti di libidine, libidine violenta compenetrazione…) implica una grande novità anche nell’approccio al reato e alla stessa indagine.

La classificazione che c’era prima serviva ad identificare la gravità dei comportamenti perché essendo il bene da proteggere esterno, la morale pubblica, si rendeva necessario indagare ciò che era esterno, ossia i comportamenti dell’autore e non già il vissuto di chi era vittima. Il reato di violenza sessuale era costruito sulla base dei comportamenti dell’attore perché era costruito a protezione di un bene esterno come è la morale.

Nella concezione che è stata introdotta attraverso la L.66/96, della violenza come un reato contro la persona, quello che comincia a diventare pregnante non è più la classificazione dei comportamenti, la loro elencazione, ma il significato che questi atti acquistano soprattutto per chi li subisce, oltre che per chi li compie. La scelta stessa del termine, atti sessuali che unifica le fattispecie nella identificazione del reato, assieme al verbo costringe che qualifica il valore dell’atto, meglio di altri  esempi rappresentano il superamento delle esigenze classificatorie dei comportamenti.

In altre parole i due fattori che determinano l’identificazione del reato sono: il fattore soggettivo di colui che vuole mettere in atto dei comportamenti tesi a garantirgli un soddisfacimento sessuale, indipendentemente dal fatto che riesca a raggiungerlo o meno, ed il fattore psicologico del soggetto passivo che cioè tutti questi atti siano attuati in modo tale da compromettere la possibilità dell’altro, del soggetto passivo, di esprimere il proprio consenso libero al manifestarsi di questo rapporto. Ora, questo ci aiuta a capire come si è spostato il concetto di violenza non semplicemente rilevabile nell’uso della forza fisica: violenti sono tutti quegli atti che sono contrari all’esercizio della libertà di autodeterminazione del soggetto nell’ambito della sfera sessuale, quindi riguardano la privazione della libertà e compromettono l’ esercizio del consenso agli atti sessuali; è la dimensione del consenso dunque che diventa determinante per l’espressione della libertà sessuale.

Aver legato il concetto di violenza sessuale all’esercizio libero e responsabile del consenso implica sicuramente una maggiore garanzia di poter davvero perseguire atti che in sé possono offendere relativamente poco la morale pubblica, ma ledere in profondità la dignità personale, ma consente anche di individuare una soglia entro cui l’esercizio di tale consenso sia opportunamente esprimibile.

Tale soglia è stata identificata nel 14° anno di età. Al di sotto di questa età si presume che indipendentemente dalle forme personali con le quali la persona passiva si sia espressa, non ci sia la possibilità di dire che quella persona ha la libertà, la maturità e la possibilità di esprimere il consenso a rapporti sessuali.

Questa norma è di fondamentale importanza in ordine al problema della prostituzione minorile. Moltissime infatti sono le persone che si dedicano ad un turismo incentrato sulla ricerca di particolari solleticazioni sessuali e ritengono normale perciò il ricorso alla prostituzione. Persone che mai nella loro vita normale si accompagnerebbero ad un bambino o ad una bambina, si sentono in qualche modo protetti da fattori peculiari quali una leggenda metropolitana sulla maggiore libertà sessuale di altri popoli, ovvero il contesto festaiolo, l’idea del provare tutto, nonché il fatto in se della negoziazione della prestazione che lascia al cliente l’idea e la convinzione che effettivamente ciò che si è consumato aveva il consenso di entrambe gli attori.

Le norme introdotte con la L. 269 del 1998 hanno rafforzato il sistema di tutela del minore andando a sanzionare tutti i comportamenti connessi a fattispecie assai gravi quali il Turismo sessuale, la prostituzione minorile e la pornografia minorile.

Assai opportunamente siamo entrati in una fase di revisione di questo impianto normativo in quanto dopo i primi anni di attuazione della legge grazie alle relazioni che il governo svolge biennalmente al parlamento sullo stato di applicazione della normativa, se ne è potuta monitorare l’applicazione e verificare le lacune o le ambiguità.

Da questo punto di vista infatti si deve riscontrare che alcune norme pur indicando beni importanti da proteggere non sempre operano nel modo migliore perché creano dei contrasti con altre norme.

Un esempio evidente al riguardo è l’effetto che l’applicazione della tanto attesa riforma dell’art.111 della Costituzione, quello che viene chiamato il “giusto processo” , ha avuto su uno degli aspetti più innovativi della legge 269/98. In essa infatti si prevede l’intrecciarsi delle azioni giudiziarie di perseguimento degli autori del reato e quello di protezione delle vittime. È infatti previsto che la Procura che procede per i reati appena citati debba informare il Tribunale per i Minorenni ai fini della assunzione di ogni atto necessario per la protezione del minore stesso. Questo aveva consentito l’avvio di protocolli operativi tra le Procure tesi a garantire al minore vittima di un così devastante reato di essere da subito preso in carico, protetto e messo in condizione di avviare un percorsi di recupero. Oggi questo non avviene con le stesse modalità in quanto non viene trasmesso il fascicolo integralmente, ma solo la notizia del procedimento e ciò per impedire che vi sia un conflitto di grande rilievo sul fatto che ogni giudizio debba costituire le prove in se e non possa acquisirle da altri.

Questa applicazione formalmente corretta di  una norma finisce per impedire al Tribunale per i minorenni di assumere i provvedimenti più opportuni sulla base di una conoscenza piena degli atti processuali che concernono quel minore, con il risultato di applicare delle procedure standard non relative ai bisogni effettivi di quella piccola vittima.

Purtroppo nella proposte di legge che verrà discussa in Senato non si affronta questo tema anche perché esso dovrebbe connettersi con un altro assai delicato della riforma della giustizia minorile. Insomma ancora una volta dobbiamo constatare con una certa tristezza che per quanti sforzi di miglioramento si stiano facendo, e molte proposte vanno onestamente in tale direzione, resta fermo l’impianto culturale di questa nostra giustizia penale che non riesce a elaborare una vera strategia di protezione delle vittime né nello specifico processuale né sul piano riabilitativo sociale, e resta di fatto una giustizia adultocentrica in cui lo spazio per il bambino, per il suo recupero, per la sua riabilitazione non è come dovrebbe essere una considerazione preminente.

 

FRANCESCO MILANESE
Tutore Pubblico dei Minori del Friuli Venezia Giulia

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