Aspetti etici nella malattia

La lotta al dolore fisico e psichico,  l’importanza della comunicazione e dell’informazione,  le riflessioni sull’eutanasia e la necessità di valutare i limiti della cura ed evitare l’accanimento terapeutico sono altrettanti aspetti del rapporto  paziente – medico – terapia, dove il processo evolutivo fonda sul progresso scientifico ma, soprattutto, sul  rispetto dell’umanità e della dignità di chi soffre.

Quando si parla delle necessità assistenziali del malato e della sua famiglia occorre parlare del “dolore totale” (Saunders, 1984), cioè di quel dolore che è la risultante del dolore fisico, che peraltro non è solo uno stimolo nocicettivo ma una complessa percezione psicosomatica, nonché di quelle reazioni di ansia, depressione, rabbia che sono la naturale correlazione dello stato di grave malattia.

Ansia, depressione, rabbia che hanno un’origine più varia.  Possono infatti derivare da sentimenti quali la perdita della funzione sociale, da problematiche quali quelle finanziarie, da turbamenti spirituali, fino alla paura della morte e della sofferenza.

E’ naturale che propedeutica ad ogni intervento, sia la lotta al dolore fisico. Anche in una visuale cristiana, il dolore rimane un nemico da combattere e non da assolutizzare. In un documento del Pontificio Consiglio Cor Unum si è affermato che “la sofferenza (suffering), e il dolore (pain) che vanno distinti l’uno dall’altro, non rappresentano un fine in se stesso” (Conseil, 1982). Lo stesso documento, afferma poi “che bisogna anche mettersi in condizioni di percepire, ascoltando pazientemente il malato, quale è la realtà della sua sofferenza, di cui lui per primo rimane giudice”, e come non ci siano dubbi sulla liceità morale della somministrazione di analgesici e narcotici, pur nel rispetto dello stato di lucidità del paziente, anche se questa terapia, finalizzata a lenire la sofferenza, può prevedibilmente, come effetto collaterale, tendere ad abbreviare la vita.

Già Pio XII nel discorso del 24 febbraio 1957 aveva affermato in tema di anestesiologia che essa combatte forze che, sotto molti aspetti, producono effetti nocivi e impediscono un maggior bene. Il medico, che ne accetta i metodi, non entra in contraddizione né con l’ordine morale naturale, né con l’ideale specificamente cristiano. Egli si sforza, secondo l’ordine del Creatore (Gn 1,28) di sottomettere il dolore.

La comunicazione e l’informazione

Il processo terapeutico deve aiutare la persona del malato, per quanto possibile, a rimanere costantemente soggetto della sua situazione di vita e collaboratore delle modalità terapeutiche. Ma per far questo occorre che al malato sia riconosciuto il diritto fondamentale a conoscere la sua situazione.

Afferma l’articolo 39 del Nuovo Codice Italiano di deontologia medica che il medico ha il dovere di dare al paziente, tenendo conto del suo livello di cultura e delle sue capacità  di discernimento, la più serena informazione sulla diagnosi, la prognosi, le prospettive terapeutiche e le loro conseguenze, nella consapevolezza dei limiti e delle conoscenze mediche, nel rispetto dei diritti della persona e al fine di promuovere la migliore adesione alle proposte terapeutiche, pur dovendosi valutare in base alla reattività del paziente, l’opportunità di non rivelare al malato o di attenuare una prognosi grave o infausta, nel qual caso dovrà essere comunicata ai congiunti. In ogni caso la volontà del paziente liberamente espressa deve rappresentare per il medico elemento al quale ispirare il proprio comportamento.

Tuttavia alla tendenza ancora generalizzata  di nascondimento della prognosi, può collaborare anche il famigliare, che molto spesso è il primo a non volere che il congiunto venga a conoscenza delle sue reali condizioni. Ma questa congiura del silenzio, che trova una prima motivazione anche nelle implicazioni personali di coloro che dovrebbero comunicare, può costringere il malato a recitare la commedia della guarigione fino all’ultimo, senza la possibilità di esprimere le proprie paure e le proprie ansie.

Si è affermato che non c’è niente di peggio delle briciole di informazione date con gesti, parole contraddittorie, occhiate tra infermieri e visitatori. Non solo all’ospedale, ma anche in casa, dove parole e bisbigli attraversano le pareti della camera, l’usanza del silenzio è spesso più crudele della dura verità (Tillard, s.d.).

Non ci si dovrebbe tanto porre il problema se informare il morente, quanto piuttosto vedere se esistono controindicazioni a questa informazione, tenendo presente che, in generale, è un diritto inalienabile di ciascuno quello di essere informato sulla propria situazione (Tamburini, 1988).

Notiamo però che l’antitesi non deve essere intesa in modo così netto fra dire o non dire, poichè si può essere altrettanto non rispettosi della persona comunicandogli brutalmente una verità; piuttosto, la reale situazione va chiarita al paziente senza traumatizzarlo psicologicamente, il discorso va variato a seconda del suo grado di cultura, delle sue condizioni fisiche e psicologiche generali e del supporto psicologico che i famigliari possono dargli (Romanini, 1990). “E’ pertanto regola tassativa dei curanti dire della verità la parte che il paziente “oggi” può recepire, con le parole idonee a fargliela recepire né più grave, né più lieve della realtà, rimandando ai colloqui successivi la comprensione della verità nella sua interezza (o perlomeno nelle caratteristiche oggi note al medico). Altrettanto tassativa è la regola di non dire mai nulla di falso all’ammalato (Romanini, 1990).

Queste parole spostano quindi l’attenzione più opportunamente sulle modalità di una comunicazione, dalle quali emergono quelle caratteristiche di “accompagnamento” e di “condivisione”, di accoglimento empatico delle quali si è già accennato, e che dovrebbero caratterizzare il rapporto terapeutico. L’essere umano che è vicino al morente, medico o infermiere o operatore che sia, deve dare innanzitutto la sua presenza e tutta la sua capacità di ascolto. Se il malato è ascoltato, è spesso lui a trovare dentro di sé quel tanto di verità di cui ha bisogno e per cui ha il coraggio. La verità non sempre è fatta di parole. E’ una percezione, un progressivo avvicinamento: è accettazione.

Molte volte, inoltre, la sensazione che il malato non si accorga di nulla, è più una sensazione desiderata e gratificante per coloro che lo circondano, che un evento reale. La maggior parte dei malati sente l’approssimarsi della morte. Il malato lo avverte dai segnali che gli vengono dal corpo e dalle fonti informative che sono intorno a lui, ai quali chiede la conferma dei suoi dubbi e delle sue angosce e che possiamo così indicare:

i segnali fisici e psicologici del proprio corpo;

i tentativi di autodiagnosi (leggere la cartella clinica, chiedere informazioni, ecc);

le informazioni del medico e degli operatori sanitari e le affermazioni di congiunti, amici, altri malati, operatori pastorali, ecc.;

i commenti degli operatori sanitari, dei congiunti, degli amici uditi per caso;

le modifiche di comportamento nelle persone, i cambiamenti nelle cure mediche, nella sistemazione ambientale;

le risposte evasive degli altri riguardo il proprio futuro.

Quanto si è detto finora fa emergere sempre più la responsabilità e gli impegni etici degli operatori sanitari: nella attività terapeutica non è la semplice malattia, ma è il malato e la sua famiglia che si affidano ed entrano in relazione con loro; non è il ruolo professionale, ma le personalità integrali degli operatori sanitari che vengono ad essere coinvolte (Sgreccia, 1987).

E’ per questo che all’impegno etico per gli operatori sanitari della preparazione scientifica, si pone il dovere di una preparazione  e formazione umana, in particolare in un momento culturale nel quale la sofferenza sembra aver perso ogni significato, e la preparazione professionale sembra avere una valenza quasi esclusivamente tecnica. E’ indubbio che occorrono motivazioni personali, ma è altrettanto indubbio che occorrono anche condizioni di lavoro adeguate, contropartite gratificanti, nonché nuove modalità organizzative di lavoro. In particolare, nella assistenza del malato terminale, occorrerà sempre più una assistenza erogata da una équipe multidisciplinare (medico, infermiere, assistente sociale, psicologo, fisioterapista, esperto nutrizionale, terapista occupazionale, volontario, cappellano, ecc.) particolarmente preparata al controllo della sintomatologia dolorosa e dello stress psico-fisico-spirituale.

Norma fondamentale per l’efficacia terapeutica dell’équipe è che i membri debbono accettare che nessuno ha tutte le risposte per tutte le domande, dato che tutti in qualche modo dipendono dalla cultura e dalla competenza degli altri colleghi. L’èquipe potrà fornire una particolare risposta assistenziale ai particolari bisogni di un malato, ma dovrà supportare primariamente i suoi stessi membri. L’assistenza al malato terminale può divenire nel tempo emotivamente impegnativa – basti pensare ai legami emotivi, pur empaticamente e professionalmente vissuti, che una frequentazione di un malato nel tempo può suscitare – le riunioni d’équipe allora potranno essere terapeutiche per la salute emotiva dell’équipe stessa. Il lavoro svolto da ogni membro, se coordinato e supportato, può diventare occasione di crescita personale e professionale. E’ quello che attestano le varie esperienze internazionali e nazionali che si sono intraprese in questo ambito.

Nuove modalità assistenziali

Per quanto riguarda l’ambiente occorre accennare a modalità assistenziali sempre più rispondenti ai bisogni e alle esigenze della persona e che mutate condizioni rendono oggi possibili. Nell’ambito della cura del malato terminale sono da ricordare le notevoli esperienze assistenziali elaborate anche all’estero, basti pensare alle istituzioni degli “hospice”; qui però si vogliono delineare alcune linee motivazionali dell’assistenza domiciliare.

Infatti l’ospedalizzazione tradizionale, è oggi una regola che ammette moltissime eccezioni; una serie di situazioni di malattia può essere trattata con vantaggio attraverso ulteriori modalità assistenziali, tra le quali l’assistenza a domicilio.

Un orientamento “centrifugo” dell’assistenza facilitato dal fatto che, attualmente, molte tecnologie sofisticate possono essere utilizzate anche in situazioni diverse da quelle ospedaliere e addirittura in ambito domestico.

Tipico è il caso della dialisi: eseguibile in centri extraospedalieri ad assistenza limitata, può essere condotta anche a casa del malato, tanto più quando venga utilizzata la dialisi peritoneale. Altri esempi di assistenza una volta esclusivamente incentrata sull’ospedale, ma ora sempre più orientata verso l’ambiente familiare, sono l’ossigenoterapia a lungo termine, la ventilazione meccanica, la nutrizione enterale e parentale totale, la chemioterapia e altre forme di terapia endovenosa, la terapia del dolore, l’assistenza ai malati terminali, la cura e l’assistenza delle persone anziane e dei soggetti disabili.

L’assistenza domiciliare, “home care” come è definita negli Stati Uniti, ove nel 1947 il Montefiore Hospital di New York dette avvio al primo programma, ha come primo obiettivo fondamentale il miglioramento della qualità di vita di un malato.

Un miglioramento che si concretizza nel poter rimanere nell’ambito della famiglia, pur ricevendo un’assistenza sanitaria personalizzata ed equivalente a quella in ospedale, dove peraltro le modalità organizzative sono maggiormente rivolte all’assistenza del malato “acuto”.

Tutto questo lo si afferma però, consci che lo sviluppo dell’assistenza domiciliare è legato alla modifica di modelli operativi, alla valorizzazione delle risorse sul territorio (famiglia, volontariato, comunità), ad un processo di sensibilizzazione degli operatori sanitari, ma anche dello stesso malato, non sottovalutando il “senso di sicurezza” che può derivare dal ricovero ospedaliero.

L’accanimento terapeutico

L’accanimento terapeutico – definito anche come “cure eccessive” – che possiamo definire come una relazione terapeutica medico-paziente quasi oltre il limite della morte – può essere letto come il risultato di una medicina scientifica (e in questo caso “scientifico” sottintende anche assenza di umanità) che vede primariamente la patologia, poi la persona del malato come oggetto biofisico: il funzionamento del singolo organo diventa quindi più importante dell’intera persona. Questa eccezione, di cui l’accanimento terapeutico è l’ultima espressione, è il frutto di una onnipotenza, esaltata poi dalla tecnologia, che può trovare sede anche nell’insegnamento universitario. E’ questa stessa onnipotenza che vede gli accertamenti diagnostici “silenziosi” sostituirsi al racconto dell’anamnesi, quel racconto “rumoroso” nel quale il vissuto di una persona si trasforma in sintomi; racconto soggettivo però e quindi, si può affermare, meno obiettivo dei dati di laboratorio.

Accanimento terapeutico, quindi, come risultato di una preparazione professionale che vede la morte esclusivamente come una sconfitta della scienza medica, sconfitta da evitare, o almeno da ritardare, anche quando non è più coerente il rapporto costi-benefici per la persona malata, anche quando si attua un impari rapporto tra effetti della terapia e effetti collaterali; tutti effetti, però, tendenti generalmente ad aumentare il livello di sofferenza.

Quando si parla di accanimento terapeutico, tuttavia, è doveroso ricordare che anche i congiunti della persona malata collaborano in queste scelte, colti forse di sorpresa nel constatare direttamente che la medicina, forse troppo entusiasticamente presentata dai mass media, ha delle limitazioni, non è onnipotente, non può sempre evitare la morte. D’altra parte gli operatori professionali, cioè tutti coloro che nelle varie professionalità operano in ambito sanitario, e i familiari – ed anche il malato naturalmente – sono tutti adepti dello stesso mondo culturale, così esasperatamente “scientifico” da non riuscire più a presentare obiettivamente i suoi stessi risultati.

Così che la persona malata, spesso è ridotta ad “oggetto di cure”.

Questa attenzione alla persona malata e il rispetto per la vita sono anche le motivazioni che hanno determinato il nascere delle cure palliative, cioè una modalità di applicazione delle conoscenze mediche, quando una malattia è giudicata inguaribile, fondata sul principio di salvaguardare innanzitutto la qualità della vita. Se pur in questo ambito si può parlare di sospensione di particolari trattamenti è necessario però puntualizzare che: 1. tutti i mezzi atti a conservare la vita, anche i più sofisticati e moderni presentano dei limiti noti e invalicabili, segnati dallo stesso limite delle possibilità umane e dall’inevitabile, progressivo degrado delle funzioni biologiche e fisiologiche dell’organismo; 2. la scienza ha gli strumenti più appropriati per definire l’irreversibilità di una condizione patologica ed è consapevole dell’impossibilità di contrastare in questi casi la morte con i mezzi attualmente a sua disposizione; 3. quando una malattia mortale, secondo le considerazioni precedenti, prende il sopravvento, l’applicazione di una cura palliativa non ha il significato (nè negli strumenti nè tantomeno nelle intenzioni) di por fine o abbreviare deliberatamente la vita di un malato morente, ma piuttosto quello di non compiere vani tentativi, utili solo a giustificare la coscienza di chi non sa prendersi cura, quando non può più curare (Di Mola, 1989).

Il Nuovo Codice deontologico afferma che in caso di malattia allo stato terminale, il medico, nel rispetto della volontà del paziente, potrà limitare la sua opera all’assistenza morale e alla terapia atta a risparmiare inutile sofferenza, fornendogli i trattamenti appropriati e conservando per quanto possibile la qualità di una vita che si spegne. Ove si accompagni difetto di coscienza, il medico dovrà agire secondo scienza e coscienza, proseguendo nella terapia finché ragionevolmente utile (art.44).

Questa preoccupazione di proteggere, nel momento della morte, la dignità della persona umana e la concezione cristiana della vita contro un tecnicismo che può diventare abuso, contraddistingueva già la dichiarazione sull’eutanasia della Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede del 1980, che, proponendo un uso proporzionato dei mezzi terapeutici, sosteneva alcune precisazioni.

In mancanza di altri rimedi, è lecito ricorrere, con il consenso dell’ammalato, ai mezzi messi a disposizione dalla medicina più avanzata, anche se sono ancora allo stadio sperimentale e non sono esenti da qualche rischio. Accettandoli, l’ammalato potrà anche dare esempio di generosità per il bene dell’umanità.

E’ anche lecito interrompere l’applicazione di tali mezzi, quando i risultati deludono le speranze riposte in essi. Ma nel prendere una decisione del genere si dovrà tener conto del giusto desiderio dell’ammalato e dei suoi familiari, nonché del parere di medici veramente competenti; costoro potranno senza dubbio giudicare meglio di ogni altro se l’investimento di strumenti e di personale è sproporzionato ai risultati prevedibili e se le tecniche messe in opera impongono al paziente sofferenze e disagi maggiori dei benefici che se ne possono trarre

E’ sempre lecito accontentarsi dei mezzi normali che la medicina può offrire. Non si può, quindi, imporre a nessuno l’obbligo di ricorrere ad un tipo di cura che, per quanto già in uso, tuttavia non è ancora esente da pericoli o è troppo oneroso. Il suo rifiuto non equivale al suicidio: significa piuttosto o semplice accettazione della condizione umana, o desiderio di evitare la messa in opera di un dispositivo medico sproporzionato ai risultati che si potrebbero sperare, oppure volontà di non imporre oneri troppo gravi alla famiglia o alla collettività.

Nell’imminenza di una morte inevitabile nonostante i mezzi usati, è lecito in coscienza prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute all’ammalato in simili casi. Perciò il medico non ha motivo di angustiarsi, quasi che non avesse prestato assistenza ad una persona in pericolo.

Queste precisazioni hanno proprio lo scopo di evitare quell’accanimento terapeutico, che è stato definito come “l’essere coinvolti personalmente in un dialogo con il morente, accanendosi a farlo vivere dopo l’ora della morte” (Malherbe, 1989). Siamo all’antitesi dell’eutanasia, ma ancora nella disumanità.

In conclusione, si può parlare di accanimento terapeutico quando un trattamento è di documentata inefficacia in relazione all’obiettivo, cui si aggiunge la presenza di un rischio elevato e/o una particolare gravosità per il paziente con un’ulteriore sofferenza, e in cui l’eccezionalità dei mezzi risulta chiaramente sproporzionata agli obiettivi della condizione specifica (Comitato, 1995).

In questo caso, l’apparato tecnologico, che pur ha i suoi indiscutibili meriti, travalica l’interesse della persona e ne fa un “oggetto”.

E’ questa stessa tecnologia che ha comportato la necessità di una fissazione di criteri di definizione dell’evento morte. Se una volta la morte era la interruzione del respiro della persona – lo specchio messo davanti alla sua bocca non si appannava più – oggi si pongono ulteriori problematiche poiché le stesse funzioni vitali possono essere sostituite dalle “apparecchiature”.

Il criterio oggi generalmente accettato è di ordine neurologico: si dirà che una persona è morta, quando la sindrome clinica di morte cerebrale, la completa estinzione dell’attività cerebrale bioelettrica, l’arresto della circolazione intracranica segnaleranno che il cervello ha subìto delle lesioni tali che non potrà più riapparire la vita umana.

Ancora, “un individuo è deceduto quando ha subìto una perdita totale e irreversibile della capacità globale di integrare e coordinare le funzioni dell’organismo – fisiche e mentali – in una unità funzionale” (Ingvar, 1988).

L’eutanasia                  

L’eutanasia, al contrario, può essere letta come l’espressione intrinseca del fallimento di questo processo terapeutico. Se eutanasia, nel suo significato etimologico significa una “morte dolce senza dolori”, oggi tale vocabolo connota piuttosto l’atto o l’omissione per sua natura o per l’intenzione che lo muove causa la morte di un paziente allo scopo di porre fine alla sua sofferenza. Ma occorre ancora ricordare che nulla e nessuno può, in qualunque situazione, autorizzare l’uccisione di un essere umano, sia questo un feto o un embrione, un bambino o un adulto o un anziano, o una persona affetta da una patologia a prognosi infausta o che sta morendo (cfr. Congregazione per la Dottrina della Fede, 1980). L’eutanasia, a prescindere da tutte le considerazioni morali e religiose che la rendono impraticabile, anche in una visione prettamente pragmatica ha un equivoco di base.  La ricerca ci dice che è scarsamente richiesta dal malato stesso, ma più comunemente richiesta dai familiari e dagli operatori professionali. E’ indubbio che essa trovi una sua genesi nel peso emotivo che la sofferenza impone anche a coloro che lavorano a confronto di essa.

Questa sofferenza influisce anche nelle relazioni fra il paziente e l’équipe medica.

Il morente ha bisogno di medici e operatori che manifestano interesse per lui, anche quando l’obiettivo primario non potrà essere più la guarigione fisica. Ma questa assistenza è realizzabile solo quando il medico e gli operatori sono in grado di gestire i loro sentimenti e le loro emozioni e sanno perciò ascoltare, rispondere, dare spiegazioni ad una persona che sta morendo, lasciando sempre aperta la speranza.

Quando si è detto finora fa emergere sempre più le responsabilità e gli impegni etici degli operatori sanitari: nell’attività terapeutica non è la semplice malattia, ma sono il malato e la sua famiglia che si affidano ed entrano in relazione con loro; non è il ruolo professionale, ma sono le personalità integrali degli operatori sanitari che vengono ad essere coinvolte (Sgreccia, 1987).

Il recente documento dei Vescovi dei Paesi Scandinavi afferma “un paziente non può mai essere considerato semplicemente come “un caso” o essere ridotto a un corpo da sottoporre a terapia. Poiché ciascun individuo ha una dignità innata, un paziente è prima di tutto un essere umano. Pertanto il paziente (se possibile) o i suoi parenti devono essere informati e consultati prima che qualsiasi terapia venga iniziata o interrotta, e anche quando debbano essere eseguiti esami medici (Conferenza, 2002).

E a questa sofferenza umana non si presta particolare attenzione nei processi formativi. Nelle professioni di aiuto è sempre più necessaria una formazione tecnica che si accompagni ad una maturazione psicologica ed emotiva, e in seguito, ad una formazione permanente che offra occasioni per rivedere periodicamente le proprie emozioni, per rispondere in modo adeguato alle domande che la sofferenza pone quotidianamente. L’eutanasia, l’allontanamento dei malati più gravi, l’evitare i congiunti di questo stesso malato. sono forse molteplici aspetti di questa incapacità di dare un “senso” a questa sofferenza che quotidianamente si incontra e che si fa più onerosa in certi ambiti assistenziali. Una incapacità peraltro che oggi ha valenze sociali. Certo, anche il malato può chiedere un atto eutanasico. In questo caso è ancora più evidente il fallimento terapeutico. Lo chiede infatti una persona disperata, così come disperato è anche il ricorso al suicidio. Lo chiede forse una persona alla quale non si è prestata tutta l’attenzione già a partire dal dolore fisico. Ha affermato Cicely Saunders, la fondatrice di St. Christopher’s Hospice, che la richiesta di eutanasia scaturisce sempre dal fatto che “qualcosa o qualcuno è venuto a mancare”.

C’è poi una eutanasia molto più sottile che si concretizza nell’abbandono di un malato alla solitudine, alla difficoltà di essere curato nella fase terminale della malattia, una volta dimesso dall’ospedale, o nel trasportare da una città all’altra, alla ricerca di un posto letto, un malato grave che spesso muore nel corso di questa ricerca. Una eutanasia che richiama responsabilità sociali, ed assistenziali, in un senso più generale.

In conclusione, non ci si può stupire se qualche malato vivendo la solitudine dell’abbandono dei familiari e dei sanitari e infermieri impegnati attorno alle “macchine”, può esprimere un desiderio di morte che lo liberi da una situazione che in qualche modo è già morte. Probabilmente la causa principale dell’eutanasia liberamente accettata è proprio la sensazione di essere socialmente morti.

Prof. Massimo Petrini
Università Cattolica del Sacro Cuore Roma

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