La mia favola

Avevo avuto solo il tempo di riassaporare la calma della mia casa, il calore degli affetti familiari troppo spesso lontani in questi ultimi anni, avevo lasciato da circa un mese questo posto dimenticato da tutti, dove il forte vento che spazza questa terra sembra volerci testimoniare quello che di più insensato possa esserci nella mente degli uomini. 

Darfur, dove il colore della terra non è differente dalle altre e dove qui, la gente non si pone il problema di offrirti quel poco che ha, stringendoti fortemente le mani, sorridendo , col timore che tu possa capire la povertà e la speranza di un  qualcosa che sembra irraggiungibile.

Avevo già incontrato lo sguardo di queste donne in altri posti dove avevo lavorato, e gli sguardi di questi bambini uguali a tutti gli altri bambini del mondo, ma diversi i loro occhi che raccontano quello che ancora non sanno dire con le parole.

Sono qui, dove il cielo potrebbe raccontare ogni notte una favola nuova  e dove la vita è solo un insieme di stenti.

La casa che sarà la sede della Cooperazione Italiana mi accoglie come speravo di non doverla trovare, così per non perdere le sane abitudini mi accingo a passare la mia prima notte da inviata speciale del governo italiano distesa per terra su di una stuoia e allora è facile e divertente ricordare le parole di un vecchio africano che invitato più volte a riposare su di un letto, preferiva dormire per terra e alle facce meravigliate di tutti noi rispondeva con un “terra grande, letto piccolo”.

Ancora è una casa non solo vuota, ma anche buia, così sono le sane e indimenticabili candele a farmi da compagnia mentre le luci proiettano forme bizzarre e quasi irreali.

Non prendo sonno, sono occupata malgrado la stanchezza del viaggio a pensare all’organizzazione di questo meraviglioso e pazzo progetto, nato dico io, dalla forza costruttiva e  innovativa di un direttore generale e alla mia voglia di affrontare imprese che in partenza sembrano sempre irrealizzabili.

E poi se anche verso l’alba il sonno dovesse averla vinta ci pensa il “muezzin” con la sua voce trascinante e per orecchi non abituati monotona, e allora penso a quante altre volte mi sono risvegliata alla voce di una preghiera in questi ultimi anni.

L’unica acqua che riesco trovare è quella che viene fuori da un rubinetto, già usurato prima di essere usato,  acqua dal sapore acre maleodorante, mi fermo per un attimo a riflettere prima di tergermi il viso, che forse per la prima volta ho ottemperato a tutto ciò che di sanitario era da fare prima di partire, vaccini su vaccini, io che ho sempre preferito adattarmi ai luoghi e perché no adottando in maniera veloce gli anticorpi necessari, stavolta ho seguito il consiglio di chi forse ha pensato bene di redarguirmi prima di partire, o forse ha solo voluto proteggermi.

Ho solo voglia di lavorare, mi auto definisco un “diesel”, stento a carburare, ma una volta a motore caldo, difficile che si arresti  senza volerlo, chi mi è ormai vicino professionalmente da alcuni mesi ama chiamarmi “locomotiva” strano, è vero, il paragone è azzeccato,  e  penso di non avergli mai voluto dare ragione su questa definizione, avrei dovuto farlo?

Una casa da sistemare e soprattutto da dare un “italian style”, in questo posto a Nyala, è difficile differenziarsi da tutto ciò che ti circonda, vita, colori, comportamento, troppo, immensamente standardizzato, io voglio il contrario, voglio che il “Sistema Italia” venga notato anche dai minimi particolari, quelli che sembrano ininfluenti ma che poi risultano importanti.

Dicevo all’inizio che finalmente la Cooperazione Italiana deve e può non far sentire più “figli di nessuno” chi lavora per aiutare gli altri, quelli che sotto il nome di organizzazioni non governative, per antipatia, per concetto, per casualità, per scelta hanno remato da sole in questo mondo umanitario, mentre chi aveva dietro una nazione responsabile e pronta ha dato sicurezza e aiuto alle proprie organizzazioni.

Noi Italiani separati in casa in tutto e per tutto; allora chiarisco un concetto, io ho accettato questo incarico perché sono stanca, stufa, dopo anni di girovagare, vedere che noi italiani con il tanto aver fatto non siamo riconosciuti, rispettati, al pari degli altri per i nostri sforzi, per il nostro impegno di fronte ad organismi  laboriosi quanto noi, ma in evidenza in quanto uniti, dove il proprio Governo ha venduto bene tutto ciò che avevano da smaltire.

Voglio dire basta ai grandi organismi internazionali che hanno monopolizzato ogni tipo di aiuto, lasciando noi italiani alla mercè di tutti.

Dormo pochissime ore per notte, sono passata dai mortai iracheni, ai progetti da avviare qui in Darfour, poche ore, per ora basteranno, il fisico mi auguro  continui a sorreggermi.

Lo definirei il periodo oscuro, non si riesce a contattare nessuno in Italia, le linee telefoniche non funzionano, internet è una chimera, eppure avrei bisogno di comunicare quello che qui ho trovato e quello che vorrei fare.

Ho la fortuna però di avere una scorta incredibile ed utile di provviste, sono arrivata carica di tutto, sette colli, ed ora gioisco per averlo fatto. Ho trovato una pseudo cucina, così la sera ad un piatto di pasta riesco a sorridere.

I primi giorni sono tutti dedicati a rendere vivibile questa casa, mi trovo a girare per il “suk” uguale a tanti altri, con i suoi profumi, le sue mercanzie la moltitudine di gente che nel caos più totale si impone delle regole non scritte ma evidenti.

Il mescolio di prodotti, e l’abitudine di questa gente che per alcuni versi ricorda i mercatini rionali di alcuni paesi del sud Italia dove non si paga mai quello che è chiesto, ma la trattazione il mercanteggiare fa parte di regole e soprattutto di rispetto. Sono ormai vaccinata a queste tradizioni e capisco che sarebbe quasi un’offesa pagare senza discutere, magari davanti ad un bicchiere di tè.

Una cosa che sicuramente non si può non visitare a Nyala è il mercato artigianale, la necessità di sopravvivenza accende l’intelletto, questa gente malgrado i prodotti esteri, il “made in china e japan” ha rivoluzionato anche qui la vita, non hanno ancora trovato il mercato giusto, e i prezzi esorbitanti di questi prodotti non aiutano certamente il dilagare di essi. Così come un mare in piena, uno sciame di vespe la gente si accalca intorno a mercanzie artigianali. Il risparmio condiziona tutto.

La polvere fine, ed il vento che la spande fanno si che dopo pochi minuti i miei capelli, il mio viso hanno preso le sembianze di una maschera teatrale giapponese, e per un attimo penso ad una doccia che non avrò il modo di fare.

Penso, seduta sull’unica sedia sgangherata che ho trovato in queste mura che la sera arriva in ogni luogo, in ogni posto di mondo, ma dove non tutti gli angoli della terra danno le stesse sensazioni e la stessa calma, cambia il modo di pensare ma soprattutto in alcuni posti si ha più calma interiore, più predisposizione, finanche più voglia di riflettere. Sarà perché sotto questo cielo dove le stelle sembrano moltiplicarsi di continuo, trovo fantastico poter pensare.

Non amo fermarmi, eppure mi sento quasi in dovere verso me stessa farlo in questo momento, una pausa, una inezia del mio tempo per quello che ho cercato di fare, valutando quello che di importante ci sarà da fare.

Amo vedere le cose finite prima che lo siano, anticipo quello che vorrei fossero, il desiderio di completezza prima che lo sia, così quasi egoisticamente ho sempre considerato importante questa mia predisposizione a dare uno sguardo al lavoro ultimato prima che inizi. E’ questo modo di fare, ho sempre pensato, che divide il successo dall’insuccesso nel lavoro. La sottile differenza di chi gestisce da chi esegue.

La vedo ultimata questa casa, e mi piacerebbe nella mia umile persona poterla rendere visibile agli altri come un pezzo d’Italia, una “villa italia”,  un qualcosa che appartenga a tutti questi ragazzi italiani che lavorano qui, orgogliosi di frequentarla, orgogliosi della sua presenza, pensieri dunque, ma so bene che poi sarà questa la realtà. Sarà questo il lavoro finito.

Ancora una notte “rigida”, sinceramente dormire sul duro del cemento non porta poi tutto questo giovamento cervicale, ma spero duri ancora per poco, ho girato per il quartiere di Nyala alla ricerca difficile di un letto con rete, ho acquistato un letto a corde, sembra uno strumento musicale, ma di vero c’è il fatto che le reti sono una chimera e così ci accontentiamo dello “strumento” per dormire.

E’ tempo di vedere e programmare, è il momento di iniziare quel giro che mi porterà tra questa gente che ha perso tutto, anche la fede a un Dio se mai ci ha creduto, nei campi dei rifugiati dove,  quando qualcuno alla mia età e con il mio girovagare crede di aver finalmente visto tutto, capisce che al peggio alla miseria alla sofferenza non si potrà mai dare un voto perché la volta dopo capisci che il peggio deve ancora arrivare.

 

 Barbara Contini

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