Diritto a morire

Si tratta di evitare che il riferimento alla giusta considerazione del malato come interlocutore del medico, e non come oggetto passivo del suo intervento, finisca per giustificare norme le quali indeboliscano la condizione di soggetti già deboli quali sono i malati non più recuperabili alla vita attiva, favorendo la loro uscita di scena nel momento in cui rappresentano un costo per la società.

Due premesse: vanno sempre garantiti i presidi che consentono di non soffrire, vale a dire gli interventi della c.d. medicina palliativa: il paziente, dunque, non deve mai essere abbandonato, anche quando l’evolversi della sua malattia non può più essere contrastato; del pari, vi è convergenza sul fatto che non siano dovute (salvo specifici desideri del malato compatibili con le risorse disponibili) terapie i cui benefici risultino sproporzionati rispetto alle menomazioni o alle sofferenze che ne possano derivare, oppure da applicarsi al malato che si trovi ormai nella fase immediatamente terminale.

Costituirebbe, inoltre, un grave errore tecnico definire la medicina come «fondata» sul consenso: in tal modo, infatti, la si ridurrebbe a un’attività meramente contrattuale, priva di criteriologie sue proprie e disponibile, in linea di principio, per qualsiasi utilizzazione (spesso, del resto, il medico è chiamato ad agire senza disporre del consenso, per esempio in caso di urgenza). Inoltre, si deve tener per fermo che l’attività medica ha per fini esclusivi, come afferma il codice deontologico, la salvaguardia, attraverso mezzi proporzionati, della vita e della salute, nonché il lenimento delle sofferenze. Per cui non è configurabile una relazione tra medico e paziente finalizzata ad altri scopi, come il prodursi della morte. Ciò considerato, è ampiamente riconosciuto che non si possa intraprendere una terapia agendo in modo coercitivo sul corpo di una persona cosciente e capace d’intendere e di volere la quale si opponga: ma non perché quest’ultima avrebbe un «diritto di morire» suscettibile di esser fatto valere, come tale, nella relazione col sanitario, bensì in quanto l’intervento sull’intimità della sfera fisica di un individuo umano richiede di realizzarsi, stanti le condizioni summenzionate, attraverso un rapporto con l’individuo stesso. Per cui il medico conserva il suo obbligo di adoperarsi per la salvaguardia della salute anche dinnanzi al rifiuto di una terapia, ove questa si configuri proporzionata. Egli, dunque, non potrà limitarsi a una presa d’atto formale dell’eventuale rifiuto, ma sarà tenuto ad agire attraverso l’informazione, l’incoraggiamento, la persuasione, il sostegno psicologico, ecc. E ciò a maggior ragione tenendo conto del fatto che la rinuncia a essere curati, come evidenzia la ricerca psicologica, rivela ordinariamente bisogni profondi di non abbandono. Per le medesime ragioni il medico sarà chiamato ad agire per evitare preliminarmente, se possibile, situazioni critiche.

Altra cosa sarebbe, invece, autorizzare l’interruzione da parte del medico di una terapia in atto del tutto proporzionata. In tal caso, infatti, gli si chiederebbe di attivarsi non già per la tutela della salute, ma per un fine opposto: il che, come s’è detto, è inammissibile. Analogamente, non sarebbe accettabile, attraverso tali dichiarazioni, vincolare medici che dovessero intervenire nel futuro sulla persona del dichiarante, ove si trovasse in stato (anche transitorio) d’incapacità, a non utilizzare presidi terapeutici pur del tutto proporzionati. Verrebbe infatti a delinearsi, anche in questo caso, la richiesta di un’attività medica non conforme alla tutela della salute, senza che vi siano le condizioni di attualità del rapporto e della connessa informazione che potrebbero giustificare l’astensione dinnanzi al rifiuto insuperabile di una persona cosciente e capace. In particolare, sarebbero da considerarsi inammissibili dichiarazioni di rinuncia all’idratazione o all’alimentazione (salvo ovviamente l’ipotesi in cui il corpo stesso non sia più in grado di recepirle), posto che queste ultime non costituiscono una terapia volta a contrastare lo stato patologico e men che meno, dunque, una terapia sproporzionata, bensì ciò di cui ogni persona, anche sana, necessita per vivere.

Resta, in ogni caso, la necessità che qualsiasi dichiarazione anticipata consenta pur sempre al medico di valutare la pertinenza della medesima alla luce del diverso stato psicologico tra il momento in essa viene formulata e l’attualità della malattia, nonché in relazione all’evolversi dei presidi terapeutici disponibili.

Quanto s’è detto manifesta il ruolo centrale che compete alla nozione di «proporzionalità» dell’intervento terapeutico, nozione la quale valorizza l’impegno tipico della democrazia inteso a descrivere parametri comportamentali suscettibili di essere condivisi, evitando la radicale soggettivizzazione delle scelte incidenti sulla vita (anche quando rilevino fattori che attengano alla persona) nell’ambito della relazione medica. Simile soggettivizzazione trova oggi molti sostenitori, ma rischierebbe, se accolta, di avere effetti assai gravi.

Da un lato, una tale prospettiva, formalizzando i rapporti, finirebbe non già per giovare all’alleanza terapeutica tra medico e paziente, bensì per favorire logiche di medicina difensiva, le quali si determinano nel momento in cui vengono a essere percepite più probabili dal medico conseguenze negative per asserite violazioni del consenso, rispetto a conseguenze negative riconducibili alla «perdita» anticipata del malato: il che certo non giova all’adempimento del dovere di aiutare i pazienti in difficoltà sul piano psicologico, né, in genere, alla necessaria assunzione di rischi terapeutici.

Dall’altro lato non può non considerarsi come la previsione del «diritto a morire» produca l’aspettativa che di esso, sussistendone le condizioni, si faccia effettivamente uso, determinando la colpevolizzazione dei malati e dei loro congiunti che richiedano ulteriori investimenti di risorse socio-sanitarie, pur in assenza di sproporzione dell’intervento, nel contesto di malattie croniche o in fase avanzata. In questo quadro la presentazione, oggi diffusa, della medicina quale attività nei cui confronti il malato, a un certo punto, dovrebbe difendersi utilizzando il diritto all’autodeterminazione, favorisce, in concreto, spontanee uscite di scena dei sofferenti – anche quando non sia in gioco alcuna forma di «accanimento terapeutico» – molto vantaggiose dal punto di vista dei costi economici, e che nessuno (nessun potere politico) potrebbe esporsi a sollecitare in modo esplicito.

Luciano Eusebi
Professore ordinario di Diritto penale
Università Cattolica – Piacenza

Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

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