Osteggiare la cultura dell’eutanasia

Gli ospedali sono pieni di soggetti incapaci di badare a loro stessi. Difendere la loro vita non rappresenta una scelta etica, non rappresenta una scelta di fede, rappresenta invece una ben precisa scelta politica e di questo si tratta ed è quest’idea che va affermata.

Episodi recenti di pazienti in gravi condizioni di infermità psicofisiche oppure in stato vegetativo, ben evidenziati dalla stampa e discussi presso la pubblica opinione hanno ormai prodotto un clima emozionale che rischia involontariamente di favorire le molte proposte (provenienti da varie forze politiche e non di rado ispirate dalla “Rosa nel pugno” e dalla “Sinistra radicale”) dirette a regolamentare il periodo di “fine vita” (mi riferisco a quelle sul c.d. testamento biologico ed a quelle mirate ad introdurre o legittimare forme più o meno estese di eutanasia, come già accade in Olanda e Belgio).

Quegli episodi – che peraltro rappresentano solo la punta di un iceberg, in quanto il numero di pazienti in gravi condizioni di infermità psicofisica oppure in stato vegetativo è rilevantissimo – suscitano pensieri che conducono a risposte ambivalenti in rapporto alla natura ed all’enfasi delle notizie ricevute, alle esperienze pregresse di chi viene informato, alle innegabili sollecitazioni culturali, ideologiche e di fede che si accompagnano a tali informazioni. Vengono alla mente di ciascuno innumerevoli interrogativi del seguente tipo: che valore può avere il tempo quando il soggetto ricoverato sembra non essere più in relazione con gli altri e con il mondo? È ragionevole in queste condizioni “ritardare” la morte? Esistono vite più o meno meritevoli di cure, più o meno degne di essere vissute? Esistono standard di qualità da cui dipenda la certezza che chi abbiamo davanti sia veramente una persona?

Sono proprio i casi estremi che evidenziano la nostra inadeguatezza a decidere e ci rafforzano nella convinzione che la vita umana rappresenti una realtà così complessa e inafferrabile che nessuna competenza professionale o scientifica, nessuna riflessione filosofica, possa rivendicare l’autorevolezza necessaria per immaginare di poterne disporre, ovvero per sancirne la soppressione.
Non è poi automatico che lo stato vegetativo sia irreversibile e, nonostante il paziente non riesca a comunicare con il suo prossimo, non può escludersi che percepisca quanto avviene attorno a lui. Talora si relaziona con il mondo esterno attraverso un linguaggio diverso e difficile da capire.

Su questi temi si è soffermato il Centro Universitario Etica E Scienza “Vittorio Longo” di Trieste che di recente ha espresso la convinzione che tale tipo di vita debba essere tutelata. Il Comitato nazionale per la bioetica ha discusso ed effettuato ricerche su varie problematiche legate all’eutanasia ed al rispetto delle volontà del malato e, sino a questo momento, al suo interno, costituisce tesi maggioritaria quella secondo cui l’alimentazione e l’idratazione con sondino di soggetti in stato vegetativo non possono essere assimilate al caso di accanimento terapeutico.
Nel contempo, l’amplificazione dei molti episodi, l’ambiguità sui veri obiettivi perseguiti da alcune parti politiche e la martellante azione dei radicali mettono in chiara luce che la posta in ballo è ben più alta di quella che ad esempio potrebbe profilarsi per la soluzione del caso Eluana. Invero, a partire dai casi più difficili da discernere e che implicano valutazioni ambivalenti, si vuole pervenire ad introdurre nel nostro Paese la pratica dell’eutanasia attiva. Di qui un forte warning da parte di tutti noi su quanto accade e su quanto si vorrebbe legiferare: è indispensabile vigilare!

Ma quale bioetica?
Discutere dei casi di “fine vita” senza richiamare i princìpi della bioetica significa costruire un polverone in cui il vincitore è solo chi riesce ad affermare la propria ideologia: significa, tra l’altro, essere funzionali al sistema ed al mercato. Pensate quale significativo risparmio di ricchezza potrebbe derivare allo Stato applicando sistematicamente l’eutanasia attiva!
A ciò si aggiunga la circostanza che siamo entrati in un’epoca in cui ciascuno pretende di perseguire con assoluta discrezionalità i propri intenti. Una forte domanda di libertà è divenuta oggi misura dell’esistenza di ciascun soggetto. Sempre più i convincimenti personali assurgono a valore primario, come quando si tratti di strutturare i legami di convivenza, decidere se e quando avere un figlio, farlo nascere e con chi allevarlo, accettare o respingere i processi di fecondazione extracorporea, esprimersi anticipatamente sull’indisponibilità a proseguire la vita in presenza di patologie neurologiche, come stimare i casi di accanimento terapeutico, di interventi su pazienti in stato vegetativo, ecc.

Siccome viviamo in un sistema dinamico, “dove tutto può essere negoziato”, vari studiosi, osservando il concreto comportamento dell’uomo nei contesti organizzati, si sono sentiti in dovere di qualificare la “bioetica” come “plurale” e cioè strutturabile sulla base di princìpi elaborati da lobbies culturali, sociali ed economiche diverse, ciascuna delle quali pretende di affermare la propria visione. Ogni comportamento etico sarebbe così destinato a ricevere giustificazione esclusivamente all’interno del pensiero e della prassi di comunità particolari. Questa interpretazione ha acquisito un certo consenso, soprattutto con riferimento all’eutanasia attiva, al suicidio assistito ed all’aborto.

L’etica delle comunità particolari
Afferma, ad esempio, H. Tristram Engelhardt Jr., “Manuale di bioetica”, ed. Il Saggiatore1999 pag. 106 e segg. “È all’interno di una particolare comunità morale che la vita della persona trova il proprio significato e la concreta direzione morale (bioetica sostanziale)”.
“Dentro la comunità particolare s’impara se sia meglio soffrire le pene di una lunga malattia mortale o evitarle con il suicidio…allevare un bambino handicappato o impedirne la nascita…” (ibidem).
Sarebbe la prassi delle comunità particolari ad esprimere le condotte operative, quelle proposte dalla Rosa nel pugno e dalla Sinistra radicale all’interno del Sistema Sanitario Nazionale, attestando la difesa della vita umana su soglie basse di tutela, ed intanto operando in tutti i modi per creare il territorio ideologico delle leggi sulla fine della vita.
Verrebbero così a strutturarsi ed attuarsi dei livelli di bioetica minimali, la cui logica è chiarita da H. Tristram Engelhardt Jr con le seguenti riflessioni: “Che cosa si deve dire in termini laici generali dello status degli infanti, dei ritardati mentali gravi e delle persone affette dal morbo di Alzheimer a stadi molto avanzati?”

Ecco la risposta dell’Autore: “questi individui non sono persone“. “Eppure” – aggiunge – “molti sono propensi ad accordare loro gran parte dei diritti normalmente riconosciuti alle persone adulte”. Infatti “…menomare un feto o un infante, senza ucciderlo, è come porre in essere una serie di eventi che di fatto menomeranno una persona futura reale”. E così prosegue: “Su questa base è possibile giustificare certe protezioni morali degli infanti” (op. cit. pag. 169). Ed ancora: “Le regole che proibiscono di mutilare e di menomare feti ed infanti, sia pure senza ucciderli, possono essere giustificate in termini di rispetto per la persona che feti e infanti in futuro probabilmente diverranno” (op. cit. pag. 168). E più avanti continua, se qualcuno non avesse capito: “Queste considerazioni, però, non proteggono infanti, ritardati mentali gravi e persone affette da morbo di Alzheimer a stadi avanzati dal pericolo di essere uccise in modo indolore, per un capriccio non malevolo” (op. cit. pag. 169).
In tale contesto, la bioetica del futuro dovrebbe insegnare come convivere in mezzo ad un profondo politeismo etico, quale quello che H. Tristram Engelhardt Jr. è disposto a condividere.
Lo si ascolti ulteriormente “…alla persona in senso stretto si contrappone la persona in senso sociale, alla quale, come nel caso dei bambini piccoli, vengono accordati all’incirca gli stessi diritti della persona in senso stretto…”, ma …“i diritti delle persone in senso sociale sono una creazione di comunità particolari…” (op cit. pag. 173).
Oltre al principio di beneficità (o beneficialità o beneficenza), egli imposta quello di proprietà.
“I bambini piccoli e gli organismi biologici umani sono oggetto di proprietà delle persone che li producono. I diritti di proprietà possono essere limitati non solo dal principio di beneficenza, ma anche dalla circostanza che il bambino piccolo (o l’embrione) diverrà una persona.” (op.cit. pag. 191).
E poi così precisa: “Le persone hanno la proprietà di se stesse. Hanno la proprietà anche di altre persone nella misura in cui queste hanno acconsentito a diventare oggetto di proprietà…” (ibidem).

Ascoltando queste tesi, diffuse molto più di quanto non si creda e che, attraverso i princìpi c.d. del “consenso”, di “proprietà” (prima menzionato) e di “beneficenza”, rischiano di entrare a far parte della cassetta di attrezzi del Servizio Sanitario Nazionale, non possono non sorgere preoccupazioni nei confronti di un aspetto che ci riguarda tutti: la tutela e difesa della propria vita, in specie quando questa giunge al declino ed entra nel tunnel della sofferenza e della debolezza.
La storia ci insegna che è relativamente frequente e trova giustificazioni nella psiche umana l’atteggiamento di essere forti con i deboli. L’essere umano più debole è di certo l’embrione umano, ma gli ospedali sono pieni di soggetti incapaci di badare a loro stessi. Difendere la loro vita non rappresenta una scelta etica, non rappresenta una scelta di fede, rappresenta invece, una ben precisa scelta politica. Di questo si tratta ed è quest’idea che va affermata.

Il dramma della cultura radicale ed il concetto di persona
Credo che dalle osservazioni precedenti si tocchi con mano che non è mia intenzione affrontare l’argomento dell’eutanasia in modo edulcorato.
La questione richiede una scelta attiva, ci chiama ad una ridefinizione sociopolitica della tutela della vita. La tesi della “bioetica plurale” conduce a conclusioni che non esito a definire “drammatiche”. Dette idee sono alla base della cultura dell’eutanasia attiva. E queste idee fanno parte da sempre del bagaglio culturale dei radicali.

Esse contengono al loro interno un dispositivo che mina alla radice il futuro dell’umanità. Dice infatti H. Tristram Engelhardt Jr “…riusciremo in futuro a plasmare e modellare la natura umana ad immagine e somiglianza degli scopi prescelti non dalla natura o da Dio ma dalle persone umane” (sic). “Noi dobbiamo rispondere di ciò che facciamo soltanto a noi stessi e in termini stabiliti da noi, perché non accettiamo l’autorità canonica sostanziale indipendente di Dio su di noi e non troviamo autorità analoga nella ragione” (ibidem).

In questa visione è l’arbitrio a decidere che cosa è lecito, a stabilire quando la vita deve nascere e se deve nascere e quando la vita deve morire e se deve morire. Viene asserita l’etica del “tutto è permesso”; la certezza della legge e la costanza del diritto sono invece compromesse. E dove tutto è permesso, nulla è veramente garantito: man mano che si estende l’area del permesso, si restringe quella del garantito, l’unica sulla quale sia possibile fondare i diritti dell’uomo. Se tutto è permesso, non ci sono obblighi e perciò neppure diritti, perché il diritto sussiste nella misura in cui accende in altri un obbligo corrispondente. Non per nulla, nella cultura radicale, si è passati dalla difesa dei diritti dell’uomo alla difesa dell’uomo dei diritti. (vedasi al riguardo Ignazio Sanna, L’antropologia cristiana tra modernità e postmoderrnità, Queriniana, 2001, pag. 382).Com’è facile comprendere dalla lettura di queste tesi, che ho voluto riportare nella loro crudezza espressiva affinché non ci si facciano illusioni, emerge l’esigenza di un chiarimento del concetto di persona. È questo un crocevia imprescindibile per avviare a soluzione molti problemi con cui la bioetica si confronta.

Afferma al riguardo Vittorio Possenti che ”…tutti gli esseri umani sono persone. L’uomo non può nascere prima della persona, né la persona morire prima dell’uomo. Né si entra nella comunità delle persone per cooptazione, essendo chiamati, nominati o accolti da coloro che già lo sono; né si dà alcun passaggio graduale da ‘qualcosa’ a ‘qualcuno’”. Queste deduzioni rigettano la tesi rapidamente diffusasi in varie scuole a sfondo analitico ed empiristico, secondo cui non tutti gli esseri umani sono persone; pertanto l’idea stessa dei diritti dell’uomo dovrebbe venire riformulata in quella dei diritti delle persone: gli esseri umani non avrebbero diritti in quanto uomini, ma solo in quanto persone. Una conseguenza rischiosissima è che il concetto di persona sia volta a volta ridefinito in base a certe caratteristiche accolte da alcuni e rifiutate da altri, di modo che l’idea stessa di diritti della persona diventi variabile, arbitraria, evanescente (Vittorio Possenti, op.cit. del 2005).

Insomma, chi sostiene dette tesi e precostituisce la “ricetta” dell’essere persona, non dovrebbe trascurare che una tale impostazione oscura, nei confronti di tutti, il principio di appartenenza ad una comune umanità: l’individuo vivente che identifica la specie umana è l’uomo e l’uomo è sempre persona.

Altrimenti, dovremmo introdurre delle convenzioni arbitrarie. E si rischierebbe di dire, ad esempio, estremizzando, che solo l’adulto in forza e salute, capace di esprimersi, e di lottare con voce ed energia, si conquisterebbe lo status di persona.Occorre stimare in modo nuovo le modalità di assistenza. Se le moderne terapie rendano artificiale la vita dei pazienti. L’aver tracciato la linea di demarcazione sopra descritta non vuole costituire una semplificazione negando l’importanza delle scelte personali sulla propria vita (quelle che ciascuna persona compie orientandola e stimando per sé stessa il percorso che ancora le resta da fare), come pure la presenza dei problemi gravi e delicati che si pongono in presenza di malati terminali e di pazienti in stato vegetativo.

Sulla prima questione vale la pena ribadire che la vita è quel supremo bene che rimane misterioso nonostante le invasioni della tecnologia e in cui è legittimo ascoltare la volontà del singolo, poiché si tratta non solo di realtà biologica ma altresì spirituale e personalistica. Ed è ovvio che intendo riferirmi alla vita propria e non a quella altrui: quest’ultima, in linea di principio, è e rimane indisponibile.

Sulla seconda questione occorre considerare che l’enorme evoluzione che la scienza e le tecniche hanno ricevuto negli ultimi anni ci impone di stimare le modalità di assistenza in modo nuovo. Molte forme di assistenza ai malati sono oggi da considerare ovvie ed obbligate. Non possiamo pensare di liberare l’uomo dalla vita, consegnandolo alla morte sulla base delle prescrizioni e delle terapie della medicina del secolo scorso.

Nutro riserve sulla tesi secondo cui la vita del malato in un ospedale sarebbe oggi artificiale a causa del progresso scientifico e tecnologico. Su questo non concordo con Vittorio Possenti (Vittorio Possenti, art. su Il Foglio cit.). È vero da un lato, falso dall’altro. Stiamo discutendo di un fenomeno in piena dinamica, che nessuno può definire in quanto i suoi confini sono continuamente sfuggenti e si ripropongono man mano che mutano le condizioni di contesto.

Non solo la vita altrui rimane indisponibile, qualunque sia lo stato della tecnica medica in un dato momento storico, ma, soprattutto, non è lecito discutere dell’interruzione volontaria della vita di un malato terminale o di un soggetto in stato vegetativo assumendo sic et simpliciter, implicitamente, che vi sia un terzo soggetto (il medico) obbligato ad intervenire. È troppo facile ritenere di poter incaricare una serie di soggetti (altri esseri umani) ad intervenire come se loro fossero – questa volta davvero – i nuovi servitori, non solo della tecnica medica di oggi, ma di un’ideologia che non è propriamente quella di chi ha il compito di curare. Deve invece essere giustificata l’astensione terapeutica e cioè il rifiuto del cosiddetto “accanimento terapeutico” in presenza di patologie totalmente irreversibili.

Maurizio Fanni
Professore ordinario Università Trieste,
Presidente del CUES (Centro Universitario Etica e Scienza “Vittorio Longo”)

Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

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