Riformare l’Europa insieme all’Italia

Maurizio Maresca

Serve ridurre l’egemonia tedesca e francese, l’eccesso di burocrazia, ma, specialmente, puntare alla crescita ed attuare una migliore regolazione dei mercati. Contemporaneamente, bisogna avviare nel nostro Paese le riforme dell’amministrazione pubblica e liberalizzare, regolandoli bene, i mercati

Non v’è dubbio che l’Italia, malgrado l’autorevolezza di Mario Monti e la sincera vocazione e formazione europeista di Enrico Letta, abbia progressivamente perduto il suo peso nella costruzione del processo di integrazione anche negli ultimi anni. Monti, in particolare, ha iniziato il suo percorso governativo con il messaggio più europeo possibile, presentandosi prima a Bruxelles e solo poi ai parters europei e riaffermando il “metodo comunitario”, da alcuni anni in crisi (in sintesi, le decisioni non vengono assunte dalle Cancellerie o dai Governi, ma dalle Istituzioni nel rispetto delle regole stabilite dall’Unione).
L’approccio di Renzi è meno teorico, ma molto più concreto. È comunque in linea con una tradizione che certamente lui non ha vissuto (proprio perché appartiene alla generazione Erasmus), ma che percepisce bene, quella del ruolo fondamentale ed irrinunciabile dell’Europa, non solo per lo sviluppo dell’economia, ma anche per la pace e i diritti umani, e non in virtù di un approccio ispirato alle regole tradizionali della collaborazione internazionale, ma costruendo un vero e proprio ordinamento “di nuovo genere”: una comunità di diritto che presidia, anzitutto, i diritti fondamentali, le politiche dell’Unione e le libertà economiche in virtù di una rinuncia alla sovranità operata da ciascuno degli Stati membri.
Renzi, però, è ben consapevole anche del ruolo dell’Italia, senza il cui apporto l’Unione Europea sarebbe diversa. Renzi sa che, al di la di De Gasperi, Spinelli (costantemente ignorato, peraltro, in vita e considerato “diverso” rispetto al processo di integrazione), Martino, ecc., l’Unione che conosciamo è stata costruita da Italiani che lavoravano costantemente nelle Istituzioni (nella Corte, nella Commissione, ecc., molti dei quali sono tra i primi ad essere scettici per la piega in chiave politica, da una parte, ed intergovernativa, dall’altra, assunta dal processo di integrazione).
D’altra parte, al di là dei profili relativi al rispetto delle politiche monetarie e degli assetti di bilancio, la stessa Germania non pare certo, nei suoi comportamenti, il Paese più rispettoso della comunità di diritto che è chiamata ad attuare. E ha tutto da imparare dall’Italia, non solo per quanto riguarda le regole in materia di accesso al mercato, ma anche per la tutela dei diritti fondamentali. Renzi si rende conto che l’Italia rappresenta certamente un problema per le sue mille inadeguatezze organizzative, ma la Germania – e in parte la Francia – costituiscono un problema strutturale: vedono ed interpretano il diritto dell’Unione Europea con l’atteggiamento degli arroganti. Senza capire che hanno bisogno dell’Italia.
Da ultimo, oggi si deve ricostruire l’Unione Europea superando le storture degli ultimi anni (alle quali anche l’Italia, per la sua debolezza, non ha saputo opporsi): superare, quindi, l’approccio “politico” della Commissione (che in fondo nasconde e consente un ruolo egemonico a Francia e Gemania), l’eccesso di burocrazia, ma, specialmente, puntare alla crescita (evitando il centralismo economico, rivedendo i dossier molto delicati nel settore del commercio internazionale – non possiamo pensare di isolarci chiudendoci agli Stati Uniti, alla Cina ecc. solo per proteggere le nostre imprese tedesche e francesi, inefficienti pure rispetto a quelle coreane e americane – ed attuando meglio la regolazione dei mercati in relazione alla quale l’approccio europeo è molto timido). Per l’Italia e per Renzi, tuttavia, il primo problema è quello della credibilità: si tratta di dimostrare subito di essere capaci di compiere un importante lavoro di riforma a casa nostra, quindi di essere degni del percorso di integrazione dei Padri fondatori italiani e, specialmente, di quanti hanno continuato la loro opera negli anni ‘70, ‘80 e, in parte, ‘90. E così, prima di invocare modifiche al patto di stabilità (del tutto logiche), ma anche per pretendere l’adempimento degli obblighi dei nostri partners, è indispensabile dimostrare che sappiamo realizzare le riforme vere, anche se così difficili e impopolari: le riforme della pubblica amministrazione (pletorica, spesso impreparata, spesso inutile) e dell’economia nazionale (i pagamenti dei debiti alle imprese attuando “senza se e senza ma” la direttiva 7/2011, che comunque produce effetti diretti, liberalizzando, ma anche regolando bene, i mercati, tutti oggi ancora molto consociativi, privatizzando le imprese pubbliche con forme davvero convincenti e, ove possibile, dando luogo a public companies e riducendo le imposte sui redditi a non oltre il 30%).
Un lavoro enorme che, tuttavia, rappresenta la precondizione per essere credibili come Paese.

Maurizio Maresca
Avvocato e Professore Ordinario di Diritto Internazionale ed Europeo all’Università di Udine

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