Quale fantasma si aggira nell’Unione?

Giovanni Cordini

Ci si deve interrogare sui valori e sui principi comuni che devono orientare il patto costituente e sugli elementi idonei a cementare la “comunità dei popoli”, trasformando un’unione fragile ed ancora precaria in una “comunità di diritto”, nella quale tutti i popoli europei possano riconoscersi

LA CRISI POLITICA DELL’UNIONE E LO SCENARIO EUROPEO
Alla vigilia delle elezioni per il rinnovo del mandato parlamentare europeo del maggio 2014 sembra utile una riflessione che ripercorra le fasi istituzionali che hanno contraddistinto il percorso fragile ed incerto dell’Unione dalla fondamentale riforma di Maastricht del 2002 ai giorni nostri. Nella prolusione tenuta all’inaugurazione dell’anno accademico 2005 all’Università Bocconi di Milano, Tommaso Padoa Schioppa osservava che, al di fuori dell’Europa, si guardava con ammirazione ed anche con qualche preoccupazione alle realizzazioni dell’Unione, in termini sia di benessere economico, sia in relazione ai diritti sociali ed alla “qualità della vita”, considerando molto positivi i risultati conseguiti e ritenendo efficace la strategia europea rispetto ad altri modelli e contesti. Per contro, tra i cittadini e i governanti degli Stati europei, a suo dire, già allora si sarebbe prodotta una sorta di “melanconia” che rallentava il processo costituente e generava incertezza. Da attento e fine osservatore dei fatti economici e dei sistemi monetari, Padoa Schioppa ricorreva, dunque, ad una lettura in chiave psicologica o, addirittura, “psicoanalitica” per spiegare la “crisi politica” dell’Unione, fornendo una spiegazione che, nel dipanarsi del ragionamento, si basava prevalentemente su sensazioni ed atteggiamenti. Si evocava, così, un “fantasma” destinato ad assillare il sonno dell’establishment europeo, pur non avendo né forma, né sostanza. I due referendum con i quali gli elettori francesi ed olandesi respinsero il Trattato che istituiva una “Costituzione per l’Europa”, meglio noto come Trattato Costituzionale, erano destinati a concretizzare questi timori in quanto rendevano manifesto un disagio profondo, tradotto in dissenso. Non so se questo scollamento tra forma e sostanza dell’Europa si possa leggere anche in chiave psicologica. Si tratta di un percorso non privo di fascino. Tuttavia, ritengo più appropriato ed utile fare riferimento alle profonde radici dello smarrimento che attraversa la “coscienza europea”: la flebile resistenza degli Stati europei e dell’establishment comunitario nei confronti di “poteri forti” che agiscono al di fuori del contesto europeo e, in molte circostanze, lo condizionano in ragione della globalità di scelte e decisioni che poi si riverberano sulle competenze e sulle attività comunitarie; la debole solidarietà che i Paesi europei sono in grado di esprimere nella concretezza delle relazioni economiche, giuridiche e politiche; lo sfilacciarsi del rapporto tra governati e governanti che dall’interno degli Stati membri si ripercuote sugli assetti istituzionali comuni; l’incapacità di consolidare il processo di unione politica che dovrebbe accompagnare e dirigere la coesione economica e monetaria. Ci si deve, perciò, interrogare a fondo sui valori e sui conseguenti principi comuni che devono orientare il patto costituente e sugli elementi idonei a cementare la “comunità dei popoli”, trasformando un’unione fragile ed ancora precaria in una “comunità di diritto”, nella quale tutti i popoli europei possano riconoscersi. L’Europa geografica, l’Europa dei commerci e dei mercati, l’Europa economica e finanziaria, l’Europa della moneta unica e del sistema monetario, cioè l’assetto integrato che sembra costituire un punto di non ritorno, avrebbero dovuto trovare un solido ancoraggio nell’Europa politica, la sola in grado di fondere i diversi popoli che compongono il Vecchio Continente. I Padri Fondatori avevano colto questa esigenza, ma non avevano trovato il terreno fertile per promuovere l’unità spirituale dell’Europa in un tempo in cui era forse più agevole rinsaldare le radici comuni. Le ragioni pratiche della pace e del diritto li indussero ad accettare il compromesso volto a rafforzare i rapporti commerciali ed a ripristinare quell’Universitas Mercatorum che, in altre epoche, aveva consentito di migliorare le relazioni tra gli Europei. All’origine dell’Unione, i rappresentanti dei sei Stati firmatari dei Trattati di Parigi (CECA) e Roma (CEE ed EURATOM) ebbero, comunque, la convinzione che il diritto potesse costituire la “pietra angolare” di quell’accordo mercantile e sociale. Nel tempo, la “Comunità di diritto” si è consolidata fino a non consentire arretramenti nella configurazione delle garanzie costituzionali e nella difesa del “patrimonio comune” di diritti e doveri che contraddistingue l’ordinamento comunitario.

SOPRANAZIONALITÀ EUROPEA E “VOCAZIONE FEDERALE” DELL’UNIONE
Sulla scia di un’impostazione cara al vasto e multiforme movimento federalista, che ha fatto sentire la propria voce in tutte le fasi cruciali delle trasformazioni aventi ad oggetto l’ordinamento giuridico comunitario, la Presidenza della conferenza intergovernativa di Maastricht aveva avanzato, sia pure timidamente, la proposta di considerare il Trattato come “una tappa nel processo graduale verso l’Unione a vocazione federale”, ancorando la sopranazionalità europea alla forma federale dello Stato. Dopo quell’accenno, il tentativo di definire l’assetto costitutivo dell’Unione è stato ripreso nel momento in cui i Governi nazionali (alla conferenza intergovernativa di Leaken) hanno istituito la “Convenzione” per la riforma dei trattati. L’architettura e gli obiettivi del Trattato costituzionale risultavano abbastanza definiti: rafforzare il “patto comune” e le reciproche “garanzie” per evitare una possibile dissoluzione, piuttosto che indicare gli elementi fondativi (storici, ideali, spirituali, culturali) di una comunione dei popoli europei in grado di ricomporre gli interessi nazionali, secondo una sintesi unitaria volta al comune bene dei cittadini europei.
Non è questa la sede per una disamina delle cause che, a quel tempo, hanno indotto i cittadini di due “Stati della prima ora”, cioè due Paesi fondatori, come la Francia e i Paesi Bassi, a respingere, a larga maggioranza, il Trattato proposto dalla Convenzione e dai Governi. Riesce necessario, tuttavia, riflettere sulla circostanza per cui l’arresto imposto alla riforma istituzionale dell’Unione Europea e l’inevitabile pausa di riflessione che i Governi hanno dovuto accettare, avviando nuovi negoziati, derivavano dall’esercizio diretto della sovranità popolare, cioè dal voto referendario, e rappresentavano un sintomo evidente di una crisi dell’identità europea e della stessa cittadinanza dell’Unione. La ragione politica sembra avere suggerito ai Capi di Stato e di Governo di eludere per troppo tempo la questione della “sovranità europea” a favore di una dinamica comunitaria duttile. I contorni del patto comunitario sono sempre più sfumati e i criteri comuni necessari per definire un quadro politico di maggiore coesione non sembrano condivisi da tutti gli Stati membri. Sino ad ora è mancata, dunque, la base politica che potrebbe legittimare un impegno vincolante sulla struttura fondamentale dell’Unione, indicando i passi necessari per una stabile organizzazione della stessa, come è stato possibile per altre decisioni non meno importanti (ad esempio, quelle relative all’unione monetaria). Il quesito da proporre agli elettori europei deve indicare con chiarezza quale Europa si vuole consolidare e quali politiche europee si intendono proporre e rafforzare.

Giovanni Cordini
Professore Ordinario di Diritto Pubblico Comparato e Direttore del Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali, Università degli Studi di Pavia

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