La febbre rivoluzionaria

Il 6 gennaio è morto Mohamed Bou Azizi, emblema del popolo tunisino umiliato e represso, colui che ha ricevuto uno schiaffo perché voleva lavorare. Bou Azizi si è immolato davanti alla sede del Comune della sua umile città, ricca di diplomati e laureati, ma povera di lavoro e risorse. Il suo gesto estremo ha scosso le coscienze di tutti i popoli.

La sera del 24 dicembre ricevo un messaggio su Facebook da un mio ex compagno di Università tunisino che abita a Montreal. Questo breve messaggio parlava alla giovane donna impegnata da anni nella società civile italiana come immigrata e musulmana, richiamandomi all’ordine. “Dove sei, ora che la Tunisia interna brucia sotto le proteste? Oggi sono arrivate le immagini dei giovani morti nelle manifestazioni…”. È stato uno schiaffo. Mi ha risvegliata dal mio torpore. Centinaia di messaggi di questo tipo hanno popolato, per settimane, la fitta rete del web tunisino. Come allegati, video di immagini dell’orrore che stavano vivendo i nostri connazionali nelle zone più interne del Paese. Sidi Bouzid, Regueb, Rdaief, Gasserine… La lista delle città dove hanno luogo le rivolte dei giovani che invocano la caduta del regime si allunga parallelamente alla lista dei martiri della rivoluzione per la dignità e la libertà. La contaminazione rivoluzionaria è avvenuta on-line, in un Paese nel quale quasi tutte le famiglie accedono alla rete delle reti. A sua insaputa, il regime aveva formato un’armata di internauti capaci di forzare la censura e, soprattutto, capaci di sottrarsi al tentativo di celare la verità. L’ansia di conoscere quanto stava realmente accadendo ha scardinato la propaganda imposta da 23 anni dalla politica repressiva del regime. Al blackout mediatico di tv, radio e giornali nazionali, si è opposto il giornalismo “muto”, fedele alla realtà, offerto dai giovani Tunisini armati dei loro i-phone. La pagina nera di una sollevazione generale sembrava ipnotizzare chiunque vedesse quelle immagini: vittima delle pallottole della polizia era la gioventù tunisina. Eravamo noi che morivamo. Il 6 gennaio è morto Mohamed Bou Azizi, emblema del popolo tunisino umiliato e represso, colui che ha ricevuto uno schiaffo perché voleva lavorare, benché non “piacesse” al sistema corrotto. Bou Azizi si è immolato davanti alla sede del Comune della sua umile città, ricca di diplomati e laureati, ma povera di lavoro e risorse. Il suo gesto estremo ha scosso le coscienze di tutti. La famiglia “regnante” di Leila Ben Ali, consorte del dittatore, spadroneggiava su tutti gli affari del Paese. Una banda di delinquenti incolti controllava il turismo, la grande distribuzione, le banche, le compagnie aeree. Intanto, noi guardavamo in silenzio il sacrificio dei nostri compatrioti sull’altare del despota. Facebook nasce per “reclamizzare le facce”; piano piano, diveniva il luogo in cui i nostri volti si omologavano tutti in un’immagine, quella della bandiera tunisina macchiata di sangue.

Il discorso del Presidente

Ben Ali è stato il primo dittatore ad essere contestato ed ha avuto il “privilegio” di iniziarci alle pratiche che sembrano scritte nei manuali del “Piccolo Dittatore”. Ci ha, tra l’altro, deliziati di tre discorsi alla Nazione degni di essere ricordati dalla storia come tentativi di manipolazione dell’opinione pubblica finiti con la fuga dell’oratore. Il primo, pronunciato con il solito tono poliziesco, ammoniva coloro i quali utilizzavano le televisioni straniere – con un implicito riferimento alle emittenti arabe Al Jazeera ed Al Arabiya – per diffondere notizie false atte a violare la sicurezza e la stabilità del Paese: sarebbero stati puniti con la massima severità. Il secondo discorso, tenuto il 10 gennaio, aveva luogo quando la contestazione era ormai divampata su quasi tutto il territorio tunisino, sostenuta da iniziative di “coming out” individuali contro il regime postati sui principali social network. Ben Ali ha adottato l’ormai famosa metafora del nemico invidioso e mascherato, al soldo degli stranieri, così da cercare di insinuare il dubbio che le proteste non emanavano veramente da noi. Noi, che abbiamo taciuto per anni, non potevamo essere gli attori di questa rivoluzione. Ho seguito ogni parola con stupore, ripugno, speranza. Sembrava parlare ad altri, di altro. Sembrava rispondere ai suoi dubbi, non ai nostri, alle sue esigenze, non a quelle di chi manifestava. Per la prima volta, il Presidente iniziava un suo discorso indirizzandolo alle cittadine ed ai cittadini tunisini in Patria, ma anche all’estero. Le sue minacce erano chiare: avessimo continuato ad invocare la caduta del tiranno, avremmo pagato anche noi, noi della diaspora tunisina. Il mondo non sapeva quanto avevamo sofferto fino ad allora. Ho deciso di gridare a tutti, a me stessa per prima, quel dolore intriso di speranza che avvertivo dentro me.

Madre Patria

La Patria è la madre del popolo. La Tunisia è stata una madre che ha sofferto nel più profondo dell’anima, come soffrirebbe una donna, in silenzio, per proteggere i propri figli. Nulla è più avvilente, degradante, amaro, che vivere ogni istante della propria vita nel terrore. Angoscia figlia delle minacce, esplicite, implicite, che incombono su un popolo intero. Un popolo paralizzato dalla paura delle ritorsioni, pacifico per natura e paziente per cultura. Si ha paura per i figli, per il domani. Si ha paura dell’uniforme, si ha paura di parlare, fosse solo insieme al proprio silenzio. La Tunisia ha visto crescere i propri figli in un’atmosfera irrespirabile. Ambiente malsano per far sbocciare i talenti. Eppure, fior fiori di giovani sono cresciuti beneficiando il mondo intero con le loro doti. Oggi, questo terrore si colora del rosso del sangue dei caduti civili. I lividi coprono i corpi martoriati dai manganelli. Finalmente, l’incubo ha un volto. Lo vediamo tutti. Spaventa, ma non così tanto quanto le minacce. Oggi, la legge del silenzio si è spezzata. La Tunisia non potrà tornare indietro. La luce fuggente della libertà che si intravede tra i fumi dei lacrimogeni, tra i corpi straziati dei suoi figli trucidati per aver osato chiedere giustizia, non svanirà. La libertà sta entrando nei cuori degli oppressi, colti o analfabeti che siano, perché il terrore non guardava in faccia nessuno e l’oppressione era la stessa per tutti. Il mondo guarda con stupore a questa piccola Nazione, conosciuta da chi ama il mare, il deserto, le vestigia romane. Conosciuta da chi cerca la pace di un Paese sicuro. In Tunisia, è risaputo, si canta, si balla e si raccontano le migliori barzellette del mondo arabo. In Tunisia, tutto possiede anche il rovescio della medaglia. Chi non ci è nato, chi non ci è cresciuto, saprà poco o niente. Perché nulla si diceva. Si subiva. Si subiva nel silenzio di chi accetta, perché la violenza psicologica, silenziosa ed invisibile, insidiosa e soffocante, si esercita senza sporcarsi le mani. Oggi, non solo le mani sono sporche, ma i lividi fanno sentire vivi. La speranza di una Nazione che ha saputo portare in grembo i semi della libertà non sarà vana. Il tributo di sangue non è mai vano.

La mascarade

Ben Ali tenta di negoziare e la notizia della sua apertura verso un governo tecnico di unità nazionale rimbalza sulle più influenti testate europee. Il suo terzo discorso è emblematico: piega la testa, afferma di essere stato ingannato dai suoi “uomini”, si esprime in dialetto tunisino come ai primissimi tempi del suo “regno” e promette di accordare maggiore libertà di espressione, di rimuovere immediatamente il blocco di Internet e di creare 300.000 posti di lavoro nei prossimi due anni. Chimere propagandate da un tiranno giunto ormai al capolinea, che annuncia che non si ricandiderà alle prossime elezioni del 2014, termine del suo mandato. La TV nazionale diffonde le immagini di coloro che sfidano il coprifuoco per celebrare le parole accomodanti di Ben Ali, caroselli di macchine nelle strade della capitale, qualche persona assoldata dal governo che canta e balla. L’Europa ci crede, il mondo ci crede. Anche Le Monde collabora con il potere, diffondendo la notizia della rassegnazione del popolo tunisino. Tutti sembrano negare la realtà, credere alla farsa. Ma il popolo tunisino non ne vuole più sapere di Ben Ali. Durante quella lunga notte di coprifuoco, la rivolta si fa a colpi di link e pensieri. “Nessuno ha più paura”, grida la Tunisia. La mattina del 14 gennaio 2011, il popolo tunisino diventa artefice della sua storia e si autoproclama “Primo Popolo Arabo Libero”. Quel giorno, la capitale fa sentire la sua voce e i Tunisini fanno ciò che nessuno ha mai osato: senza armi, donne con neonati in braccio, giovani e meno giovani, letterati ed analfabeti, tutti insieme invocano le dimissioni del Presidente proprio davanti al luogo della paura e del terrore, il Ministero degli Interni, il “Guantanamo tunisino”, con i suoi sotterranei maledetti. L’Occidente, come, del resto, il regime, pensava che i Tunisini si sarebbero accontentati di qualche promessa e di una riduzione del prezzo dei beni di prima necessità. A chi pensava, o voleva, fosse solo una rivolta del pane, i Tunisini dimostrano che si tratta, invece, del sogno di libertà e dignità. In questi momenti, il mondo assiste ad una vera “intifada” del popolo tunisino.

Welcome to life!

Il popolo tunisino ha sconcertato il mondo con la sua audacia. L’effetto sorpresa ha colpito il sistema dittatoriale, preparato solamente a reprimere con grande ferocia singoli individui rivoltosi, senza lasciare traccia. I servizi di polizia politica potevano scovare un dissidente in modo molto efficace, ma si sono dimostrati impreparati a reprimere centinaia di migliaia di manifestanti sull’intero territorio nazionale. Il tiranno usurpatore fugge insieme alla sua famiglia la sera del 14 gennaio 2011, lasciando le casse dello Stato vuote ed il cuore di noi Tunisini incredulo. La sfida attuale della costruzione di un Paese democratico sembra sostenuta dalla volontà forte di ricostituire la nostra società, svilita dalla dittatura. Abbiamo il vantaggio di credere in un futuro migliore e lo svantaggio di essere novizi di libertà. La sfida di sradicare un sistema corrotto e di creare una collaborazione cittadina tramite una società civile tutta da costruire occupa le nostre giornate. Abbiamo vissuto la nostra rivoluzione come una resurrezione collettiva, augurandoci a vicenda “Welcome to life!”.

Ouejdane Mejri
Presidente dell’associazione dei Tunisini in Italia PONTES

Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

Rispondi