Né giustizia né prevenzione

La pena di morte non costituisce attuazione della giustizia, né strumento di prevenzione dei reati. La pena di morte si manifesta come applicazione palese del male. Il male posto in essere da uno Stato, o da chi comunque controlli un certo territorio, non costituisce ragione sufficiente per rendere giusta una risposta che implichi la violenza.

La pena di morte si manifesta come applicazione palese di quanto, nei rapporti intersoggettivi, rappresenta più radicalmente il male, posto che, senza infingimenti o mitigazioni, recide il rapporto con l’altro, annullandone la vita stessa. Si deroga così all’istanza di mutuo riconoscimento tra gli individui umani quali soggetti uguali in dignità, il cui esistere – a prescindere da qualsiasi giudizio sulle loro qualità o sulle loro condizioni esistenziali1 – è indisponibile. Essa comporta, inoltre, un esercizio giuridicamente ponderato di quel male, cioè un esercizio del medesimo non dovuto a condotte trasgressive. Pertanto, ove sia prevista da un ordinamento democratico, pone ciascun cittadino, in maniera assai più diretta che in qualsiasi altro caso, dinanzi alla responsabilità di una scelta pubblica avente per oggetto l’agire secondo il male. Accettare il ricorso a condanne capitali rende di conseguenza impossibile sentirsi innocenti o, se si vuole, tener per ferma la dinamica in forza della quale molti ricollegano il giudizio positivo di se stessi – rimossa la consapevolezza del livello mai azzerabile di corresponsabilità sociale – proprio alla qualifica di altri (e solo di altri) esseri umani come mal-fattori.

Da tutto questo deriva che il rifiuto della pena di morte va collocato essenzialmente sul piano morale, quale rifiuto di utilizzare per qualsivoglia finalità mezzi costituenti di per sé un male, perché tali da assimilare l’altro ad un oggetto suscettibile di distruzione. Ne dovrebbe anzi risultare favorito l’abbandono di ogni teoria della pena che, seppur con interventi meno estremi, attenda conseguenze positive dalla riproposizione in forma analogica del medesimo male compiuto e, dunque, da una sanzione indifferente al futuro del condannato. Fermo quanto s’è detto, resta nondimeno interessante evidenziare come non vi sia contrasto, anche in rapporto alla pena di morte, tra il giudizio di ordine etico ed una valutazione non riduttiva di ciò che si riveli utile per contrastare la commissione dei reati. Mai, infatti, s’è potuto dar prova di un apporto preventivo della minaccia e dell’esecuzione di condanne capitali rispetto alla ricorrenza sul piano sociale degli illeciti con esse sanzionati. Anzi, vi sono seri riscontri di un rilievo delle medesime in senso opposto, in senso, cioè, criminogeno. Simile esito non è per nulla sorprendente: constatato che gli effetti stabili di prevenzione non dipendono da profili di intimidazione o neutralizzazione, ma dalla capacità dell’ordinamento di mantenere elevata, anche attraverso il momento sanzionatorio, ’autorevolezza dei precetti normativi2, cioè la loro capacità di essere accolti dai cittadini (e dallo stesso condannato) per convinzione, appare chiaro che il ricorso alla pena di morte faccia decadere, nella coscienza civile, il rango del principio di intangibilità della vita espresso dalle norme penali poste a salvaguardia proprio di quel bene.

Valgano le parole di Cesare Beccaria: «I Paesi e i tempi dei più atroci supplizi furono sempre quelli delle più sanguinose e inumane azioni… Se le passioni… hanno insegnato a spargere il sangue umano, le leggi… non dovrebbero aumentare il fiero esempio, tanto più funesto, quanto la morte legale è data con istudio e con formalità. Parmi un assurdo che le leggi… che detestano e puniscono l’omicidio, ne commettano uno esse medesime, e per allontanare i cittadini dall’assassinio, ne ordinino uno pubblico» (Dei delitti e delle pene). La stessa formulazione, alquanto dibattuta, reperibile al n. 2267 del Catechismo della Chiesa Cattolica (1997) depone, a ben vedere, per un’inammissibilità senza riserve del ricorso alla pena di morte. Quel testo, infatti, dichiara anzitutto senza equivoci, citando l’enciclica Evangelium vitae (n. 56), che oggi sono «praticamente inesistenti» le condizioni del c.d. «insegnamento tradizionale» secondo cui, sul piano teorico, il ricorso, come extrema ratio, alla pena di morte non potrebbe essere escluso in assoluto. Si deve altresì considerare l’inserimento di quel testo entro l’ambito della riflessione (e del paragrafo) concernente la legittima difesa. Il che manifesta, da un lato, come di un uso della violenza possa eventualmente discutersi, non senza la relativa problematizzazione, solo nei limiti della legittima difesa. Ma proprio per questo, dall’altro, impedisce a priori di legittimare la pena di morte come istituto giudiziario: quest’ultima risulta per sua stessa natura incompatibile con la legittima difesa, la quale attiene esclusivamente all’interruzione non altrimenti realizzabile di una condotta aggressiva in atto (realtà del tutto diversa da quella in cui s’interviene, con la condanna capitale, su un soggetto ormai catturato e posto nella condizione di non nuocere).

Si tratta di una prospettiva che appare in continuità con l’evolversi della riflessione sulla guerra: anche rispetto a quest’ultima, il male posto in essere da uno Stato, o da chi comunque controlli un certo territorio, non costituisce ragione sufficiente per rendere giusta una risposta che implichi la violenza3, della cui accettabilità potrebbe a certe condizioni parlarsi solo in contesti paragonabili all’intervento delle forze dell’ordine nei confronti di condotte offensive attuali: fermo l’impegno inteso a determinare le precondizioni remote di giustizia necessarie affinché simili condotte non vengano favorite (sotto questo profilo assumerebbe notevole rilievo che al richiamo dei requisiti tradizionali della c.d. guerra giusta venisse affiancata in modo esplicito, parallelamente a quanto accaduto in merito alla pena di morte, l’esplicita presa d’atto della loro non configurabilità in rapporto agli scenari contemporanei).

1 – Cr., di chi scrive, Il rapporto con l’«altro» alla luce della Costituzione. I riflessi delle problematiche sul «fine vita» e l’«incostituzionalità» di ogni configurazione dell’«altro» come nemico, in AA.VV., Dignità e diritto. Prospettive interdisciplinari, e-book in http://dipartimenti.unicatt.it/scienzegiuridiche_2129.html.
2 – Oltre che, ovviamente, dalla c.d. prevenzione primaria, cioè dal contrasto dei fattori, e in particolare degli interessi materiali, nel cui contesto si inseriscono le condotte criminose: cfr. p. es. sull’intera problematica, di chi scrive, Ripensare le modalità della risposta ai reati. Traendo spunto da CEDU 19 giugno 2009, Sulejmanovic c. Italie, in Cassazione penale, 2009, 12, p. 4938 ss., nonché voce Pena, in Enciclopedia filosofica, a cura di V. Melchiorre, vol. 9, Bompiani, Milano, 2006, p. 8455 ss.
3 – Cfr. AA.VV., Ha ancora senso parlare di guerra giusta? Le recenti elaborazioni della teologia morale, a cura di C. Bresciani e L. Eusebi, Edizioni Dehoniane, Bologna, 2010.

Luciano Eusebi
Professore Ordinario di Diritto Penale – Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano

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