Il Documento per l’abolizione

Sono molte le ragioni invocabili a sostegno dell’abolizione della pena capitale: dalla sua indimostrata efficacia deterrente all’irreparabilità delle sue conseguenze in caso di errore giudiziario, e – ancor prima – il rispetto dei diritti fondamentali, della vita umana, della dignità della persona.

Nella prospettiva di uno studioso del diritto penale, la pena di morte costituisce, fuori da ogni retorica, un problema inaggirabile e fondamentale. L’attualità del dibattito sulla “morte come pena” emerge con evidenza anche nella fase storica in corso, in cui la pena capitale appare tutt’altro che un retaggio arcaico e marginale, ma costituisce anzi una radicata e diffusa realtà. E ciò non solo nei Paesi in cui la morte di Stato rappresenta una declinazione delle molteplici, sistematiche violazioni dei diritti umani ma, come noto, anche in Paesi di consolidata tradizione democratica, ove, spesso, si ammanta del linguaggio razionalizzante ed efficientista del controllo sociale tecnocratico. La fiducia illuministica in un inarrestabile processo di umanizzazione dei castighi trova un’eclatante smentita nelle profonde contraddizioni che caratterizzano, parafrasando Frank Zimring, l’American capital punishment. Ciò induce ad un’amara considerazione: non pare sussistere alcun rapporto di consequenzialità necessaria fra Democrazia, modernità e secolarizzazione da un lato, e messa al bando della pena di morte dall’altro. La persistenza e la diffusività della pena di morte attraverso le epoche e le culture sembrano accreditare le letture lato sensu antropologiche del fenomeno, che sottolineano le potenti implicazioni irrazionali e simboliche del supplizio capitale. Soccorre, qui, la lezione foucaultiana dello splendore dei supplizi, dell’esecuzione capitale come “messa in scena” minacciosa e nel contempo spettacolare, momento culminante di una biopolitica pronta a convertirsi in tanatopolitica. Il problema della pena capitale continua, dunque, ad interpellarci anche all’indomani della rifondazione illuministica dello ius puniendi entro le coordinate del garantismo penale e dello stato di diritto. Per queste ragioni, chi scrive ha ritenuto importante celebrare il V centenario dalla nascita, presso l’Università di Bologna, del primo insegnamento di ius criminale proprio all’insegna dell’impegno contro la pena capitale. È nato così, nel 2009, il “Documento per l’abolizione universale della pena di morte”, che ha raccolto le sottoscrizioni dei docenti di materie penalistiche di tutte le Università italiane, ed è stato diffuso in oltre ottocento Atenei nel mondo (alcuni dei quali aventi sede in Paesi che ancora applicano la pena capitale). Una testimonianza, questa, che crediamo non abbia un valore solo simbolico o utopistico. Essa intende piuttosto esprimere un gesto di impegno civile e morale e l’ampiezza e la tempestività delle adesioni raccolte ci pare dimostrino la sensibilità della comunità giuridica italiana verso questo tema. Mi pare, infatti, che la partecipazione riscontrata offra una testimonianza di come – al di là delle naturali, positive differenze di vedute ed orientamenti – esista fra gli studiosi una comune convergenza rispetto ai principi fondamentali su cui è edificata la nostra civiltà giuridica. Su tali principi si fonda il rifiuto della pena capitale, rifiuto che non può conoscere eccezioni, neppure dinnanzi a crimini di gravità intollerabile o in nome di estreme esigenze di difesa sociale. Il Documento intende inoltre trasmettere un forte segnale di sintonia con il ruolo di primo piano assunto dal nostro Paese sulla scena internazionale nelle campagne contro la pena di morte. Del resto, se già la Costituzione italiana del 1948 sanciva il divieto della pena di morte con la sola eccezione delle leggi militari di guerra, la modifica dell’art. 27 Cost. – introdotta dalla legge costituzionale n.1 del 2007 – ha assolutizzato la portata del divieto, imponendo un bando definitivo e senza eccezioni. Sono molte le ragioni invocabili a sostegno dell’abolizione della pena capitale: dalla sua indimostrata efficacia deterrente all’irreparabilità delle sue conseguenze in caso di errore giudiziario, e – ancor prima – il rispetto dei diritti fondamentali, della vita umana, della dignità della persona. Si tratta di ragioni che hanno indotto molti ordinamenti ad estromettere progressivamente la pena di morte dai rispettivi sistemi penali, segnando così una svolta decisiva nell’evoluzione del diritto. Attualmente, nessun Paese membro dell’Unione Europea conosce la pena di morte; la sua abolizione costituisce inoltre un requisito necessario per gli Stati che intendono entrare a far parte dell’Unione. È un dato, questo, che talvolta tende ad essere assunto come scontato o acquisito. Merita, invece, di essere adeguatamente valorizzato quale elemento di coesione ed identità nell’ambito del tessuto giuridico europeo. È anche grazie a questi segnali che il nostro appello per l’abolizione universale della pena di morte può proporsi non come una semplice aspirazione ideale, ma come un impegno concreto in grado di dare un senso al nostro operare.

Stefano Canestrari
Professore Ordinario di Diritto Penale. Facoltà di Giurisprudenza. Università di Bologna – Alma Mater Studiorum

Rispondi