Gabriele Sandri: sette anni, ma sembra ieri

di Gabriele Lagonigro

L’11 novembre 2007, nell’area di servizio di Badia al Pino, il tifoso della Lazio fu ucciso da un proiettile sparato incautamente da un agente. La famiglia ne sta onorando il nome nel migliore dei modi

gabriele sandriA novembre saranno otto anni, ma sembra ieri. Ci hanno pensato i tifosi di mezza Italia a mantenerne vivo il ricordo; e la sua famiglia, anche attraverso la Fondazione che porta il suo nome. Gabriele Sandri aveva solo 26 anni. Quell’11 novembre del 2007, nell’area di servizio di Badia al Pino, si trovò nel posto sbagliato al momento meno opportuno. Stava andando a Milano a vedere la Lazio, la “sua” Lazio, contro l’Inter. All’autogrill scoppiò una rissa, mai del tutto chiarita nella sua dinamica, con un gruppetto di tifosi juventini diretti a Parma. Cose che capitano (e non dovrebbero capitare, per carità), ma che non giustificano in nessun modo ciò che avvenne dall’altra parte della carreggiata, in direzione sud: un agente della Polizia, Luigi Spaccarotella, per bloccare l’auto di Sandri che se ne stava andando, sparò prima in aria e poi ad altezza finestrino.
Gabriele sedeva sul sedile posteriore. Il colpo, esploso da una distanza di diverse decine di metri, lo colpì al collo. Fu la fine di una giovane vita. Per una partita di calcio. Per un litigio con un gruppetto avversario. Per il gesto sconsiderato di un rappresentante delle forze dell’ordine.
A battersi in prima linea, per onorare il nome di Gabriele e diradare le nubi attorno alla sua figura (“non era affatto un violento e non è vero che nelle sue tasche furono trovati due sassi”), è il fratello Cristiano Sandri, avvocato e figura di riferimento attorno alla quale ruota tutta l’attività della Fondazione creata in memoria del giovane tifoso laziale.
Sono trascorsi sette anni e mezzo ed il ricordo di Gabriele nelle curve di quasi
tutta Italia è ancora vivido. A distanza di così tanto tempo ed alla luce di quanto successo, è cambiato il rapporto fra le tifoserie più calde e le forze dell’ordine?
“Direi di no. Ad essere cambiate sono soprattutto le normative. In questi anni sono mutate continuamente, cercando, però, di alzare l’asticella solamente verso la repressione e mai tentando un confronto utile con chi va allo stadio, cercando di trovare altre strade, altre soluzioni. L’esempio più eclatante del fallimento di questa politica è senz’altro la tessera del tifoso: a mio avviso è stata un flop”.
La scomparsa di suo fratello può avere insegnato qualcosa a qualcuno?
“Non lo so. Io non ho mai accostato la disgrazia occorsa a Gabriele con l’operato delle forze dell’ordine tout court. Mio fratello è divenuto un’icona all’interno delle curve, ma non per una contrapposizione fra tifoserie e polizia o carabinieri, bensì per il suo modo di intendere il calcio. Era un ragazzo che stava andando da Roma a Milano per vedere la sua squadra del cuore dopo una notte trascorsa a lavorare, e che macinava, come tanti suoi coetanei, chilometri e chilometri per una passione.
Ecco perché tanti ragazzi si sono rivisti in lui, ecco perché tanti gruppi organizzati ancora oggi lo ricordano”.
Voi avete sempre avuto fiducia nella giustizia. Quali differenze ci sono, dal punto di vista legale, fra la prima condanna a sei anni per omicidio colposo e la seconda a nove anni e sei mesi per omicidio volontario?
“Era evidentissimo, dal punto di vista giurisprudenziale, che quanto successo
nell’area di servizio non poteva inquadrarsi come un atto colposo, anche se la differenza fra omicidio colposo con aggravante di colpa cosciente e omicidio volontario con dolo eventuale è molto sottile. È stato un caso di scuola, il classico caso di omicidio volontario con dolo eventuale che si legge sui libri. Era chiaro sin dall’inizio che l’agente aveva voluto esplodere il colpo da una parte all’altra, pur non potendo immaginare che il suo sparo potesse andare a colpire qualcuno”.
Spaccarotella oggi è in carcere?
“Sì”.
Che cosa può essere passato per la testa del poliziotto, a suo avviso, nel momento in cui ha esploso il colpo?
“Il discorso va spostato sulla disponibilità di un’arma da fuoco nelle mani di chicchessia, che andrebbe sempre approfondita a dovere. Servirebbero dei controlli forse più rigidi, sia per rassicurare coloro i quali le hanno in dotazione, sia i cittadini.
Esplodere un colpo come ha fatto l’omicida di Gabriele è una cosa fuori da ogni regola di cautela e di ingaggio. Sarebbe stata sufficiente una biro e un taccuino per prender nota della targa, o magari una telefonata a un commissariato vicino, e la macchina sarebbe stata bloccata senza problemi lungo l’autostrada”.
Si è mai fatto vivo, l’agente, con la vostra famiglia?
“No. Era uscita la storia di una lettera che avrebbe inviato ad un sacerdote, il quale, a sua volta, avrebbe dovuto spedirla al parroco del nostro quartiere. Lui, però, non l’ha mai ricevuta. Se è andata persa, ne avrebbe potuto scrivere un’altra”.
Che obiettivi si pone la fondazione Gabriele Sandri? Quali attività svolgete?
“La mission è insegnare ai giovani la cultura dello sport. All’inizio, sull’onda dell’emotività, siamo partiti in grande stile, poi, ovviamente, il seguito è un po’ calato ed oggi facciamo fatica a far arrivare il nostro messaggio. Non ci uniamo al coro dei contro, intendiamo lanciare input positivi affinché i giovani capiscano
la bellezza dell’agonismo vissuto con la giusta trepidazione, sempre, ovviamente, nella cultura di uno sport sano. Credo che tuttora potremmo fungere da intermediari con cui colloquiare per mettere in contatto due tipologie di visioni differenti. Mi rendo, però, conto che non è semplice e che il processo per superare questi muri di diffidenza sarà ancora lungo”.
Con quali tifoserie organizzate avete oggi maggiori rapporti oppure allestite eventi comuni?
“Il sostegno dei ragazzi delle curve non è mai mancato e non facciamo differenza fra un gruppo e l’altro. Non vogliamo distinzioni o barriere. Il valore della vita non va mai messo in discussione e bisogna andare al di là dei luoghi comuni.
Rappresentare il mondo del tifo come un ambiente permeato solo dalla violenza significa diffonderne un’immagine che non corrisponde a quella reale”.
Dal punto di vista normativo, c’è qualche modello, in Europa, da cui prendere esempio per reprimere la violenza e, contemporaneamente, integrare maggiormente i tifosi?
“In un primo momento è logico pensare ai Paesi dell’Europa settentrionale, ma poi abbiamo visto ciò che hanno combinato gli Olandesi a Roma, e neanche gli Inglesi, fuori dal Regno, si comportano benissimo. Poi, in Gran Bretagna, per esempio, il problema si è spostato a chilometri di distanza dagli stadi, dove le frange più violente si danno appuntamento e scatenano la loro furia. Forse la Germania, in questo momento, è quella che affronta meglio la questione. Per capire come in Italia ci si concentri solo sulla prevenzione, è emblematico il caso della normativa sul fair play finanziario, all’interno della quale è prevista la figura, in ogni società, dell’addetto ai rapporti con la tifoseria. Mi chiedo: quanti l’hanno adottata?
Perché non iniziare in questo modo una nuova forma di rapporto con i supporter?
Sarebbe il modo migliore per cominciare un nuovo ciclo”.
Con le forze dell’ordine avete allestito qualche iniziativa comune?
“Non c’è stata occasione, ma non ci è mai passato per la testa di metterci in contrapposizione a loro. Le nostre dichiarazioni sono sempre state coerenti e abbiamo sempre indicato come unico responsabile il singolo, mica tutti gli agenti. Forse, dall’altra parte, si sono scissi i due mondi in modo troppo drastico, non certo da parte nostra. Non ci sogneremmo mai di colpevolizzare tutte le forze dell’ordine
per quanto è successo a Gabriele”.

di Gabriele Lagonigro
direttore di City Sport e caporedattore di SocialNews

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