Troppa strategia attorno al Jobs Act

di Fabrizio Mezzanotte

La vera sfida della politica italiana negli anni a venire sarà proprio quella di riuscire a controllare lo scontro generazionale, non solo nel mercato del lavoro

Tra tutti i progetti di riforma annunciati da Matteo Renzi ce n’erano due cruciali: riforma costituzionale e Jobs Act. Un risultato positivo avrebbe finalmente regalato all’Italia, con una ventina d’anni di ritardo, quella “third way” che le altre grandi Democrazie, più o meno dichiaratamente, percorrono da anni, mentre qui non è mai arrivata, complici una sinistra ancora ideologicamente attaccata a posizioni da Prima Repubblica e una destra inadeguata e populista, responsabile, forse, più della sinistra stessa della mancata svolta liberale.
Il progetto di riforma costituzionale, dopo lo sprint iniziale, è stato messo momentaneamente da parte a causa delle difficoltà nella trattativa con Berlusconi e per il motivo che questa stessa trattativa non viene vista con occhio benevolo da una parte della maggioranza. In questi mesi, invece, è entrata nel vivo la discussione sull’altra riforma, a mio avviso ancora più importante, quella del mercato del lavoro.
Credo di non essere particolarmente catastrofico nell’affermare che la situazione è disperata. Il tasso di disoccupazione giovanile e il crollo della produttività rappresentano i segnali che il mondo del lavoro, per come lo abbiamo conosciuto finora, non è più possibile, non è più sostenibile. La solita miopia italica quando si tratta di individuare i grandi problemi macroeconomici ha fatto passare l’idea che questa insostenibilità fosse dovuta alla crisi economica, quindi fosse qualcosa di passeggero. In realtà, la crisi ha solo assestato il colpo finale a un mercato del lavoro al collasso e, diversamente da quanto si pensa, è il secondo ad essere causa della prima, non viceversa.
A partire dagli anni ’60, il boom economico, alimentato da una spesa pubblica e da un aumento del debito insostenibili, ha fatto da traino al miglioramento dello stile di vita e dei diritti di tutti i lavoratori. Le generazioni passate sono state formidabili nel produrre crescita e benessere, le battaglie per i diritti encomiabili, ma in tutto ciò mancava una visione che andasse oltre la propria generazione. I padri hanno garantito una vita agiata ai figli, ma non si sono preoccupati di lasciare loro margine di crescita. Si sono preoccupati di accumulare ricchezza e, visto il passato da cui venivano, ci sarebbe anche da capirli. Non hanno, però, creato un modello sostenibile nel tempo. In più, la classe dirigente ha la gravissima colpa di non essersi accorta di un declino già abbondantemente iniziato negli anni ‘90 fino alla fine del 2011, quando il Paese si è trovato letteralmente ad un soffio dal default.
La vera sfida della politica italiana negli anni a venire sarà proprio quella di riuscire a controllare questo scontro generazionale, non solo nel mercato del lavoro. Renzi ha avuto il merito di capirlo prima di tutti e di smuovere il suo partito da posizioni ormai obsolete, ma il problema ora è proprio il rapporto tra lui e il partito: quella che doveva essere una discussione è diventata una battaglia personale del premier contro la minoranza e temi di vitale importanza inerenti il mercato del lavoro sono stati banalizzati fino alla classica formazione delle squadre “art.18 si” e “art. 18 no” con rispettive tifoserie. Come sempre, la si è buttata in caciara.
Il premier possiede due solidi argomenti a favore: la necessità di una maggiore fluidità nel mercato del lavoro e il conflitto generazionale di cui sopra. La minoranza PD e i sindacati portano avanti soprattutto le istanze della vecchia generazione. Può essere che la difesa dei diritti e dello status quo di quella che attualmente è una minoranza nel mercato del lavoro vadano a scapito delle nuove generazioni, alle quali questo mercato sta diventando inaccessibile. Si tratta, comunque, di diritti, e non di privilegi, come ha dichiarato il premier. Uguaglianza si, ma non verso il basso. L’art. 18 deve essere rivisto e ammorbidito, ma non va buttato. Con questa riforma, Renzi ha cercato di sconfiggere definitivamente non solo la minoranza del suo partito, ma anche e soprattutto la storica e radicata influenza dei sindacati. Ha attaccato il loro totem con decisione cercando lo scontro frontale. In questo ha alimentato la visione dei lavoratori realmente tutelati dall’art. 18 come dei privilegiati, aizzando contemporaneamente contro di essi le nuove generazioni, lontanissime dall’idea di avere un contratto tutelato da questo articolo, e cercando quasi di far passare l’idea che gli enormi problemi del mercato del lavoro siano risolvibili solo grazie all’abolizione dell’art. 18. Da un punto di vista strategico, ciò rappresenta una buona mossa, ma questa riforma è cruciale e dovrebbe essere influenzata il meno possibile da giochi politici. I sindacati non riescono proprio a stare al passo col mondo del lavoro moderno. C’è davvero bisogno di fluidità e l’art. 18 è ormai poco più che un simbolo.
Non è possibile che l’intero dibattito sulla riforma ruoti attorno alla sua abolizione, come se fosse l’unico fattore determinante.

di Fabrizio Mezzanotte
Giornalista per The Bottom Up.

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