E oltre la famiglia tradizionale?

di Mauro Farina

Foto: nuovavicenza.it

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Negli ultimi anni, dal secondo dopoguerra ad oggi, abbiamo assistito a moltissimi cambiamenti della cultura occidentale, legati ad un lento ma costante movimento culturale teso al superamento della forma familiare tradizionale, che hanno portato ad esiti vari, alcuni contraddittori tra loro.

Da alcuni decenni, precisamente dagli anni ’50 e ‘60 dello scorso secolo, la società moderna occidentale ha assistito ad un lento e costante cambiamento della visione culturale, oltre a quella legale, della famiglia. In certi casi è stata superata la visione della famiglia tradizionale composta da madre, padre e figli, ma anche la visione di una famiglia in cui i genitori devono essere per forza sposati per creare un loro nucleo familiare.
Sempre più giovani, al giorno d’oggi, ricorrono alla convivenza senza contrarre il matrimonio rimanendo disposti a riconoscere i figli che dovessero nascere dalla relazione. Secondo studi sociologici moderni i motivi di questa scelta sono vari, e quello principale è dato dal fatto che il legame matrimoniale è sempre più difficile da sciogliere, per questo prima di sposarsi si prova se la vita di coppia funziona; in questo caso ci si sente più liberi e non vincolati da una scelta sentita, anche se non definitiva, ma molto vincolante. Oltre a questo vi sono anche i vincoli legali ed economici di un’eventuale separazione; non è da dimenticare il fatto che molte coppie convivono per il semplice fatto che non sono riuscite ad ottenere il divorzio dal partner precedente. Sul versante opposto c’è chi è contrario alla convivenza, ritenendola un’espressione di immaturità data dal non sapersi prendere le proprie responsabilità, o più radicalmente nel non essere in grado di stabilire un legame profondo e duraturo a causa della propria superficialità.
Diverso è il caso delle comuni, nate nel 1968 attorno al movimento degli hippies, che cercavano un modello diverso dalla famiglia tradizionale, da loro ritenuta borghese e intesa come chiusa e individualista. Questi collettivi si sono sviluppati per lo più negli Stati Uniti e in Europa del Nord: adulti di entrambi i sessi convivevano gestendo luoghi comuni a tutti e in comunità la vita quotidiana, abolendo la proprietà privata e i tradizionali ruoli maschili o femminili; l’educazione dei bambini era affidata all’intera comunità e anche le relazioni di coppia erano considerate aperte. Ormai è un esperimento esaurito in Italia, ma è un fenomeno sociologico marginale nel resto d’Europa.
Significativa è stata l’esperienza dei Kibbuzin israeliani, nati appunto in Israele e pensati per realizzare una nuova convivenza sociale. Le unità familiari vivono separate tra loro ma la cura dei figli è comune e tutti partecipano all’organizzazione del collettivo, basato sull’agricoltura e alla rinuncia della proprietà private. Secondo alcune ricerche psicosociali i bambini cresciuti nei Kibbuzin hanno un minore livello si di nevroticità che di individualismo rispetto a bambino cresciuti in altri ambienti culturali.
Sulla linea di queste esperienze si mantiene comunque la credenza della famiglia vista come centralità sociale per i singoli individui, ma bisognerebbe ripensarne la struttura cercando di favorire una cultura che che la veda come un nucleo aperto alla realtà circostante e non come un guscio egoistico, trovando un punto di equilibrio tra l’individualità e la collettività.

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