Le ragioni di una distanza dall’uomo

Emilio Minelli

Sicurezza, efficacia, accessibilità, rapporto costo/beneficio sono tutti dati che girano attorno a una nuova figura di paziente che, in quanto informato, è in grado di gestire le varie risorse che la MT/MC può mettergli a disposizione.

Per capire cosa siano le medicine tradizionali si può fare sicuro riferimento alla definizione che di esse ne dà la World Health Organization, la più grande e importante agenzia di salute del mondo, che così le definisce:
un prezioso patrimonio di conoscenze, accumulate dalle diverse comunità etniche nei secoli;
una fonte inesauribile di conoscenze teoriche e pratiche;
un contributo alla promozione e alla tutela della salute dell’umanità, a costi inferiori rispetto a quelli del sistema medico occidentale;
un insieme di pratiche terapeutiche, spesso più facilmente accettate da molte comunità etniche, per il riferimento a credenze e opinioni omogenee alle differenti culture tradizionali.
In effetti, le Medicine Tradizionali possono essere considerate il più diffuso presidio terapeutico che, da sempre, l’umanità ha avuto a disposizione per rispondere al suo bisogno di salute e, negli ultimi decenni, queste medicine si sono andate sempre più diffondendo, al di fuori dei confini dei paesi d’origine, anche nei paesi più industrializzati, dove il modello di riferimento per la gestione della salute è costituito quasi esclusivamente dal modello medico biologico occidentale.
È così che termini come Medicina Tradizionale Cinese, Medicina Ayurvedica, Medicina Unani, Chiropratica, Osteopatia, Naturopatia, Omeopatia, sono diventati termini sempre più diffusi anche nei paesi in cui la medicina è contrassegnata da un alto impatto tecnologico.

L’aspetto più interessante dell’interesse della WHO per le medicine tradizionali, però, sta nel ruolo ben preciso che la WHO assegna alle Medicine Tradizionali nella promozione e nello sviluppo delle cure primarie: il più importante strumento per la promozione della salute a livello mondiale. Infatti, nella dichiarazione di Beijing, adottata dal Congresso dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sulla Medicina Tradizionale, tenutosi a Pechino si legge:
Si prende atto che il termine “medicina tradizionale” copre una vasta gamma di terapie e pratiche che possono variare notevolmente da paese a paese e da regione a regione, e che la medicina tradizionale può anche essere indicata come medicina alternativa o complementare;

Si riconosce che la medicina tradizionale è una delle risorse per i servizi di assistenza sanitaria utile ad aumentare la disponibilità e l’accessibilità economica degli stessi e a contribuire a migliorare la salute;
Si esprime la necessità dell’azione e della cooperazione da parte della comunità internazionale, dei governi e degli operatori sanitari per garantire un uso appropriato della medicina tradizionale come componente importante che contribuisce alla salute di tutte le persone, in conformità con le capacità nazionali, le priorità e la legislazione relativa;

Inoltre, da tempo, la WHO ha definito una policy del settore attraverso un documento che non a caso si chiama Strategy 2002-2005. Nel documento vengono definiti gli aspetti salienti per la promozione e lo sviluppo di questo importante settore della medicina.
Esso sviluppa in maniera significativa i criteri per uscire da una posizione di entusiasmo acritico o di scetticismo disinformato e per implementare la sicurezza d’uso di queste metodiche. In particolare, viene ribadito in maniera stringente come sia fondamentale, superando difficoltà metodologiche sicuramente presenti a livello delle diverse tradizioni etniche, implementare studi sull’efficicacia, la sicurezza e la qualità delle medicine tradizionali, valutare il livello di accesso della popolazione a queste medicine, implementare un uso razionale delle stesse attraverso un incremento della formazione degli operatori e una maggiore diffusione delle informazioni al consumatore.
Questo è estremamente importante per convogliare le poche risorse sanitarie disponibili su interventi che siano altamente affidabili e per tutelare la sicurezza del consumatore, esigenza primaria di qualsiasi programma di salute pubblica, e, in tal senso, il WHO ha elaborato una serie di linee guida per affrontare i punti critici e le sfide che la MT/MC ha innanzi a sé sia nei paesi in via di sviluppo per un implemento dei suoi standard qualitativi, sia nei paesi sviluppati per affrontare un proficuo percorso di integrazione con la Medicina Biologica Convenzionale.

Infine nel 2003 la WHO con il supporto di Regione Lombardia, ha pubblicato le“Linee Guida OMS sullo sviluppo dell’informazione al consumatore e sull’uso appropriato della Medicina Tradizionale Complementare/Alternativa”, di cui la Consultation per la finalizzazione conclusiva si è tenuta a Milano nel Dicembre 2003, in cui vengono definiti i criteri che uno Stato deve adottare per rendere l’impiego della Medicina Tradizionale sicuro, efficace, appropriato.
È questo un documento strategico da cui, in qualche modo, derivano e nello stesso tempo in cui sono compendiati tutti gli altri. La sua importanza è data dal fatto di individuare un modello eccellente di utilizzo della MT/MC a partire da un capovolgimento del punto di osservazione. Non le tecniche, non le discipline, non gli operatori ma i pazienti sono al centro di questa nuova impostazione.
Sicurezza, efficacia, accessibilità, rapporto costo/beneficio sono tutti dati che girano attorno a una nuova figura di paziente che, in quanto informato, è in grado di gestire le varie risorse che la MT/MC può mettergli a disposizione.
Perché questo possa avvenire, però, diviene strategico lo sviluppo di un network di informazione che deve coinvolgere, oltre al paziente, tutti gli operatori che attorno a lui ruotano e che, troppo spesso, finiscono per gestire la sua salute in maniera settoriale e parcellizzata.
Dunque, strutturalmente, al centro della cura è l’uomo.

Tuttavia anche se questa operazione amplia i margini e le possibilità di integrazione tra medicina tradizionale e medicina biologica non rende necessariamente più umana la seconda che nasce, a nostro avviso, ontologicamente segnata da una distanza radicale dall’umano.

In effetti, l’operazione o le operazioni di integrazione, che in parte e periodicamente si producono, vengono presentate come relativamente semplici. Teoricamente si tratterebbe di aggiungere qualche freccia in più, si dice, nell’armamentario terapeutico del medico. E sembrerebbe che l’unica difficoltà sia soprattutto quella di convincere la medicina accademica della sostanziale utilità delle medicine tradizionali, sebbene le evidenze siano per alcune di esse debolissime, dimenticando che ben altre sono le problematiche da affrontare per confrontare due paradigmi che, a ragione, Kuhn definisce incommensurabili e quindi inconfrontabili.

A ben vedere, infatti, il sapere della medicina biologica e quello delle medicine tradizionali producono due paradigmi che si confrontano, che sicuramente interagiscono tra loro quando vengono utilizzati in maniera giustapposta. Che possano integrarsi, però, è una eventualità che richiede un lavoro piuttosto complesso, che non può che cominciare dal riconoscimento delle differenze che esistono tra questi due mondi. Se non si parte da ciò, si gestiscono comunque operazioni che poco hanno a che fare con il sapere e molto con il potere. Pratiche non disgiunte della storia umana che, però, quando si sono mescolate troppo, hanno prodotto più danni che vantaggi spesso elaborando modelli complessi e confusi ma soprattutto perdendo quella caratteristica di umanizzazione che sembrerebbe, ad oggi, essere uno dei tratti salienti della medicina tradizionale.

Poniamoci, dunque, qualche interrogativo di fondo: questa integrazione è possibile? È auspicabile? Ci sono aspetti delle varie discipline che sono integrabili e altri che non lo sono? Un’operazione di questo tipo è a costo zero, è auto-sostenibile e addirittura può produrre vantaggi attraverso una riduzione di costi? Le distanze che separano la medicina biologica dalla medicina tradizionale sono spesso notevoli. Qual è il livello di compromesso accettabile, perché le due discipline possano dialogare? Quale il punto di traducibilità, che può consentire un dialogo, senza concludersi in una omologazione ed in uno snaturamento della caratteristiche delle due discipline, assunto che il modello che si vuole creare tenga conto del meglio di ogni disciplina e risulti alla fine necessariamente più complesso delle singole parti?
Confronto, interazione, giustapposizione, complementarietà, integrazione, sono tutte operazioni legittime, a patto di verificare se gli strumenti e i contenuti sul tappeto rendono possibili le varie opzioni e sono adeguati per gestire le differenze esistenti.

Una cosa è certa: non si può pensare di colmare le distanze esistenti apponendo la maschera della medicina biologica alla medicina tradizionale, corredandola di strutture, che non le sono proprie, con il risultato di snaturarla in una banale operazione di omologazione e di rendere possibile che una pratica, che pure a nostro avviso contiene numerose opportunità per la salute, si perda in un trasformismo di maniera. L’unica cosa che ci sembra certa è che il solo contributo che la medicina tradizionale può fornire alla medicina non è un’altra medicina, un’altra anatomia, un’altra psicologia, ma è, molto più semplicemente, e non è poco, la medicina tradizionale e con essa il suo modo di vedere l’uomo. Un approccio più umano perché olistico in cui l’uomo non si offre allo sguardo clinico per quel tanto di oggettivante che esso contiene ma si presenta come xiang, simbolo, che, per la potenzialità che ha di rinvio ad altro, detta la grammatica del rapporto con il terapeuta. Una grammatica in cui lo sguardo è necessariamente e costantemente centrato sul paziente per una attività necessariamente interpretativa di segni ed elaborativa di sensi. Sensi che si trovano in questo percorso comune e che non appartengono a chi li trova ma a chi li percepisce: paziente e terapeuta.

Bisogna, però, partire, dicevamo, dal riconoscimento delle differenze, delle notevoli differenze. In tal senso, utili spunti di riflessione sulla distanza che si frappone tra la medicina biologica e la medicina tradizionale ci possono venire dalla rilettura di passi della lezione che Foucault in Nascita della clinica e Canguilhem in Il normale e il patologico, ci hanno lasciato. Secondo Foucault, se si vuole trovare il punto centrale della nascita della moderna medicina, bisogna andare ai lavori e alle opere di quel Bichat che diceva: «Aprite qualche cadavere e vedrete tosto scomparire l’oscurità che la sola osservazione non aveva potuto dissipare».
Ora, che l’anatomia patologica costituisca uno dei punti fondamentali, se non il punto fondamentale, della nascita della medicina moderna è un dato abbastanza incontrovertibile.
Il problema, però, è capire perché Foucault indichi in Bichat l’inizio di questo cambiamento, quando circa quarant’anni prima Morgagni aveva già descritto le relazioni tra malattie e alterazioni di organi interni.
In effetti, Foucault sottolinea come la lezione di Morgagni, ufficialmente considerato il fondatore dell’anatomia patologica, si sviluppi, a partire da Bichat, solo dopo un certo periodo per un problema di metodo ben specifico: ci voleva un adeguato lasso di tempo per un riassestamento del metodo clinico.
In questo riassestamento, lo sguardo medico, che prima era tutto concentrato sulla lettura dei sintomi, sulle loro frequenze, cronologie, parentele, sulla decifrazione del linguaggio della malattia, in una trasparenza che svelava tutto l’essere nella malattia, veniva a subire uno spostamento e non si posava più sul malato bensì sul suo corpo o, meglio ancora, sul suo cadavere. Prima di questo sguardo ne esisteva un altro—presumibilmente presente già nel primo medico e sicuramente ancora presente nelle varie medicine tradizionali non contaminate—che era estraneo all’anatomia e alla sua investigazione dei corpi muti, delle masse segrete, celate nella profondità del corpo.
In effetti, ancora nel Rinascimento e per tutto il XVIII secolo, la conoscenza della vita era basata innanzitutto sulla ricerca della essenza del vivente, di cui era la principale manifestazione, e sulla sua fenomenologia. La malattia era pensata a partire dal vivente, o dai suoi modelli (meccanici) o dai suoi costituenti (umorali, chimici). Il vitalismo e l’antivitalismo avevano la loro origine, in qualche modo, in questa anteriorità della vita rispetto all’esperienza della malattia. Con l’anatomia patologica di Bichat, invece, la conoscenza della vita trova la sua origine nella distruzione della stessa.
Accanto a Foucault anche Canguilhem, nel suo studio sui concetti di normale e patologico, sottolinea ripetutamente come la conoscenza della fisiologia sia divenuta decifrabile a partire dalla patologia, dalla malattia, e quindi, in qualche modo, dall’infrazione ad una norma. In effetti, da questa posizione sembra emergere chiaramente come il normale biologico sia rivelato solo da infrazioni alla norma e che esista una conoscenza scientifica o concreta della vita solo attraverso la malattia: la fisiologia non fa rumore.

È comunque indubbio che è con la fondazione della anatomia patologica che diventa possibile dimenticando il malato, delineare un corpo fatto di volumi, e solo di essi, distinti e connessi l’uno con l’altro in grandi unità funzionali. Una serie di organi gerarchicamente organizzati, un tutto funzionante, scomponibile in parti, ma il cui segreto, la vita che lo anima, sfugge allo sguardo. Un corpo la cui conoscenza si appoggia sulla sua distruzione. Un corpo che nasce come corpo-cadavere, che si offre alla mano che lo seziona e lo dissocia in parti singole, che vengono estratte e astratte dal loro luogo di origine.
Bichat, fa un passo avanti in direzione dell’isolamento delle parti e sistematizza un concetto interpretativo nuovo dello spazio corporeo: il tessuto. Questo, differenziato e classificato, costituisce una sorta di unità elementare che, associandosi e ripetendosi in un certo numero di combinazioni, va a formare i differenti organi. Assistiamo, dunque, ad una delle prime fondamentali riduzioni della complessità e dell’eterogeneità organica.

Il corpo verrà letto attraverso elementi anatomici sempre più ridotti, sempre più generali, fino a quando, con Virchow, procedendo sempre più dal macro-sistema al micro-sistema, dal tutto organico alla funzione, poi dagli organi ai tessuti e così via, si arriverà alla cellula e, in seguito, alle componenti subcellulari.
La scomposizione del corpo-organismo ritaglia frammenti sempre più invisibili ed isolabili, ma universalizzabili, che disgregano il corpo parcellizzandolo.
Il corpo, così, scompare dietro le sue componenti. A questo proposito è Canguilhem che afferma: «Nella misura in cui l’analisi anatomica e fisiologica dissocia l’organismo in organi ed in funzioni elementari, essa tende a situare la malattia al livello delle condizioni anatomiche e fisiologiche parziali della struttura totale o del comportamento d’insieme».
Secondo i progressi dell’acutezza dell’analisi, si collocherà la malattia a livello dell’organo–lo fa Morgagni; a livello del tessuto–lo fa Bichat; a livello della cellula–lo fa Virchow.

È da questa ridefinizione non del malato ma del corpo, che lo sguardo clinico imparerà a scrutare sempre più attraverso un occhio tecnologico, che rifonda il concetto stesso di malattia. A partire dall’individuazione delle unità tissulari, la malattia acquista un nuovo statuto: il male viene localizzato in un punto fisso del corpo –si introduce la nozione di sede patologica– e non è più disperso nelle serie cronologiche e senza luogo dei sintomi e dei segni.
Questi cessano di essere l’essenza della malattia e divengono un fenomeno secondario e marginale, il prodotto di una causa anteriore: la lesione dei tessuti. La malattia, accompagnata da tutta la sua successione di sintomi, si organizza ora attorno ad un punto fisso del corpo, attorno alla lesione; il male viene regionalizzato e circoscritto, individuato in uno spazio concreto. Questa localizzazione sempre più precisa della malattia porta anche verso una sempre maggiore misurabilità di ciò che non è più essenza ma evento spazialmente collocabile.

In questa patografia la morte del cadavere dice la sua estrema verità sulla malattia. Finché il male aveva un carattere prettamente temporale, nella cosiddetta medicina dei sintomi, la morte ne costituiva l’estremo limite. Oltre essa sparivano i segni e l’essenza stessa della malattia, così come si estingueva la vita. Ma, una volta che nel cadavere sezionato si struttura uno luogo visibile del male, si scopre che il tempo della morte è un passaggio che trasforma una realtà negativa, la cessazione dell’essere corporeo, nella positività del discorso scientifico.

Canguilhem, a sua volta, sottolinea un altro aspetto. Nel Positivismo, i fenomeni patologici negli organismi viventi vengono considerati, per lo più, variazioni quantitative dei fenomeni fisiologici e quindi normali. «Esiste la necessità di stabilire una continuità, in qualche modo misurabile, tra salute e malattia, una omogeneità quantitativamente esprimibile, mossi dalla volontà di liberarsi da una concezione ontologica del male e animati da un certo ottimismo razionalistico». Questo indirizzo epistemologico, che riduce la qualità alla quantità, è, secondo Canguilhem, alla base di un riduzionismo estremo che è in grado di spiegare fenomeni, quali la malattia e la sanità, soltanto riducendoli ad una misura comune.
Non sono, dunque, più il dolore o l’incapacità funzionale o l’infermità sociale che fanno la malattia, ma l’alterazione anatomo-funzionale. La malattia si gioca a livello del tessuto e delle componenti sempre più microscopiche del corpo: in questo senso, può esistere malattia senza malato.
La conclusione drammatica di questa operazione è che «se si vuole definire la malattia, bisogna disumanizzarla»; e, più brutalmente, che «nella malattia ciò che vi è di meno importante è in fondo l’uomo».

Attraverso i commenti di questi autori, il percorso dello stabilirsi della medicina biologica risulta abbastanza semplice e lineare. Ma, paradossalmente, il percorso di istituzione della medicina biologica illustra, come fosse un negativo fotografico, anche il percorso della medicina tradizionale.

Non possiamo negare che è proprio quella frase con cui Canguilhem coglie uno degli aspetti fondamentali della medicina biologica, quello che più ci colpisce: «nella malattia ciò che vi è di meno importante è in fondo l’uomo». Nulla di più distante dalle conclusioni cui giunge, in cui vive e si pratica la medicina tradizionale, tanto che essa potrebbe dire e dice, come un negativo fotografico, «nella malattia ciò che vi è di più importante è in fondo l’uomo».

Lo sguardo, l’occhio clinico, che per secoli, nella medicina precedente la nascita della medicina biologica, ha reso possibile questa pratica elementare di ricerca dei segni e dei sensi del malato, viene ormai educato ad una diversa visione ed è indubbio che per ri-cogliere l’uomo nella sua globalità di storia, emozioni e tempi, bisogna ri-educarlo ad una visione non riduzionista, che non si limiti alla osservazione di parti e solo di parti. Ci verrebbe da dire che è l’occhio al tutto che fa la differenza. Più ancora che l’espressione fenomenica delle varie pratiche tradizionali. Ed è indubbio che la medicina tradizionale ha una pratica, consolidata nell’uso, di ricerca del malato e della sua globalità, che ormai è sempre più un dimenticato capitolo della storia della medicina biologica.

Questa radicale distanza è colmabile? E se è colmabile, qual è il metodo che si vuole utilizzare per andare oltre, conservando, come dicevamo, sia le risorse della medicina biologica che quelle della medicina tradizionale? Probabilmente si. Ciò che è fondamentale è un approccio di commistione e di traduzione delle diverse entità concettuali che come dice Feyerabend se sono incommensurabili restano non di meno traducibili purché si scelga non una posizione di parte ma di confine.
Stando sul confine dell’elaborazione del discorso scientifico, avviene ciò che R. Rosaldo in “Cultura e verità” riporta come testimonianza di una messicana lesbica: «stando ai confini, una persona riesce a farcela solo tollerando le contraddizioni, l’ambiguità. Imparare a essere indiana all’interno della cultura messicana e messicana da un punto di vista anglo-americano. Impara così a destreggiarsi tra le culture. Ha una personalità plurale, il suo stesso modo d’agire è pluralistico. Non si getta via nulla, il buono, il cattivo e il brutto, nulla è respinto e nulla è abbandonato». Non si limita a sostenere le contraddizioni, ma tramuta l’ambivalenza in qualcos’altro.
Quindi non si tratta, secondo la teoria di Kuhn, di attivare una sorta di conversione tale per cui, nel passaggio da un paradigma all’altro, il convertito dovrebbe dimenticare, senza più capirlo il paradigma precedente. Molti studiosi presuppongono che il contesto in cui due culture possono essere comprese insieme venga costruito a tavolino da uno studioso e che possano, quindi, emergere punti di contiguità senza un contatto personale. Ma la comprensione non può esistere senza contatto e commistione. È questo che cambia le parti in causa. «Chi non vuole cambiare (come gli studiosi che non ce la fanno a liberarsi dal discorso descrittivo e teorico delle scienze sociali dell’Occidente) e chi, inoltre, tema di cambiare gli altri (per proteggere culture non occidentali) si troverà in un mondo artificiale, che è perfettamente descritto dai principi filosofici dell’incommensurabilità e dell’intraducibilità della tradizione».

Il rischio maggiore e ciò che si deve evitare, però, resta quello di una pericolosa ambliopia, in cui lo sguardo è sempre con un occhio solo: o prevale quello di una medicina tradizionale o prevale quello biologico in cui l’uomo, quello intero, sfugge.

Emilio Minelli
Deputy Director WHO Collaborating Centre for Traditional Medicine
Centre of Researches in Medical Bioclimatology, Thermal Medicine, Complementary Medicine and Well Being Sciences. State University of Milan

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