Meno diseguaglianza

È un errore diffuso, tra i non addetti ai lavori, pensare che il sottosviluppo sia un problema solo dei Paesi poveri, cosiddetti “in via di sviluppo”. Invece, nel campo della diseguaglianza di genere, cosí come in diversi altri ambiti, l’Italia presenta indicatori di sviluppo molto inferiori a quelli che implicherebbe la mera dimensione del nostro Prodotto Interno Lordo.

Secondo la definizione proposta da Amartya Sen, la povertà non é semplicemente una mancanza di reddito, ma l’impossibilità di soddisfare quei bisogni a cui, in una certa società, si può ragionevolmente aspirare. La povertà é dunque un fenomeno relativo (dipende dal posto e dal tempo) e riguarda molte dimensioni della vita (nutrizione, istruzione, partecipazione alla vita pubblica, dignità).
Poche statistiche bastano a mostrare che, nel mondo, la povertà é un fenomeno principalmente femminile: dell’1,3 miliardi di poveri, le donne sono il 70%. E’ stato stimato che le donne lavorano il 66% del totale delle ore di lavoro, ma ricevono in cambio solo il 10% del reddito complessivo; quanto all’analfabetismo, sotto i 15 anni di età le bambine costituiscono i due terzi, mentre, fra gli adulti, le donne raggiungono i tre quarti del totale.
Senza bisogno di ulteriori cifre, emerge anche che le donne sono più esposte alla denutrizione, al rischio di contagio di malattie infettive, ad essere oggetto di violenza. In una parola, non é possibile raggiungere nessuno degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio, se non riducendo le diseguaglianze tra uomini e donne.
Semplicemente perché, per poter ridurre il numero di persone povere, é necessario ridurre il numero di donne povere.
C’é però un’altra considerazione: non solo é necessario ridurre la povertà femminile per poter raggiungere gli Obiettivi del Millennio, ma emerge che dove le donne possono più pienamente e paritariamente contribuire alla società, vi é anche più crescita economica e sviluppo civile. Dunque, ridurre le disuguaglianze di genere aiuta anche a raggiungere tutti gli altri obiettivi di sviluppo.
Ecco perché tra gli otto Obiettivi del Millennio sottoscritti dai Paesi Membri dell’ONU, il terzo riguarda specificamente la riduzione delle differenze tra uomini e donne.

Com’é noto, gli Obiettivi del Millennio sono organizzati in obiettivi precisi e misurabili, ambiziosi, ma raggiungibili: rappresentano quel minimo necessario a condurre una vita dignitosa, di cui nessun essere umano dovrebbe essere privo. Il terzo obiettivo, in particolare, si propone di eliminare le disparità di genere nell’accesso all’istruzione primaria e secondaria (entro il 2005) e nel complesso entro il 2015. Diciamo subito che, secondo il Rapporto sugli Obiettivi di Sviluppo del Millennio per il 2008, dei 113 Paesi che non hanno raggiunto l’obiettivo entro il 2005, solo 18 si ritiene possano raggiungerlo entro il 2015.
La ragione, evidentemente, é la sottovalutazione di questo obiettivo da parte dei Governi (sia quelli donatori, sia quelli più poveri). Come dire, le pari opportunità non sono molto in voga in giro per il mondo.
Il motivo per cui l’Obiettivo 3 é formulato con specifico riferimento all’istruzione é che questa riveste un ruolo centrale nelle dinamiche di povertà. Una scarsa istruzione (o la sua assenza) é frequentemente la conseguenza di una condizione di povertà, e questo é tanto più vero per le donne. Infatti, nella maggior parte delle società del mondo, a tutti i livelli di sviluppo, se una famiglia può permettersi l’istruzione solo di alcuni dei figli, probabilmente questi saranno i maschi. Esistono ragioni culturali dietro la scelta di utilizzare il lavoro minorile femminile più di quello maschile, ma anche ragioni economiche: a causa delle differenze salariali e di carriera, i genitori possono attendersi che da adulti i propri bambini guadagneranno più delle bambine, a parità di istruzione.
Inoltre, la scarsa istruzione é una delle cause principali di povertà: sia perché costituisce una limitazione in sé, nell’accezione ampia di libertà che abbiamo dato sopra, sia perché limita fortemente la capacità di produrre reddito.
Implicitamente, il miglioramento della scolarizzazione femminile dovrebbe rendere le donne in grado di competere meglio sul mercato.

Occorre però riconoscere che l’istruzione non é la chiave di tutto, proprio perché la competizione senza regole non é la strada maestra per lo sviluppo. Da un lato, il mercato, in quanto istituzione sociale, necessità di regole certe e di equità nelle condizioni di partenza. In assenza di regolazione, i fenomeni di discriminazione (ai danni delle donne, ma non solo) possono essere molto diffusi. Per limitare questo rischio, tra gli indicatori di raggiungimento del terzo Obiettivo del Millennio c’é la percentuale di donne occupate nel settore non agricolo. Questo preciso indicatore é molto utile perché fornisce informazioni sull’occupazione femminile (indispensabile, per poter accedere ad un reddito proprio), ma, indirettamente, anche su quante donne troviano occupazione solo e necessariamente nelle attività agricole, considerate socialmente meno prominenti e retribuite mediamente di meno. Nei Paesi sviluppati, la faccenda é più complessa, in quanto le donne sono normalmente concentrate nelle occupazioni meno retribuite del settore dei servizi, mentre l’agricoltura non rappresenta ormai che una piccola quota del PIL. Peraltro, in molte società, solo una parte dell’economia é rappresentata dal mercato, mentre un’altra parte importante é costituita dal settore pubblico. Anche dove questa porzione dell’economia é piccola, le politiche pubbliche ricoprono un ruolo fondamentale nel determinare le condizioni di vita della popolazione. Ecco, dunque, che l’ultimo degli indicatori adottati é la proporzione di donne nei Parlamenti nazionali. In questo caso, l’obiettivo degli Stati é di raggiungere almeno il 30% entro il 2015. La ragione di tale scelta non é solo il principio liberale, che ciascuno conosce i propri bisogni meglio di chiunque altro, ma anche la constatazione che la discriminazione non si ferma nel mercato, ma valica le porte del settore pubblico. Il potere tende a perpetuare sé stesso ed a scegliere i propri successori. Dunque, occorrono politiche apposite per controbilanciare quello che altrimenti sarebbe un moto perpetuo, di costante esclusione delle donne dalle decisioni pubbliche. Dal 2000, la percentuale media di donne nei Parlamenti é passata dal 13.5% al 17.9% e solo 20 Paesi rispettano, ad oggi, la soglia minima del 30%.

Occorre notare che una definizione ampia di povertà, come quella usata in questo articolo, imporrebbe anche di considerare molte altre dimensioni della vita umana, a di fuori dell’ambito economico. Tra queste, meritano certamente rilievo la salute e l’accesso ai servizi sanitari (inclusi quelli legati alla sessualità ed alla riproduzione); la libertà dalla violenza, anche domestica; la parità nella sfera del lavoro domestico ed in quello non retribuito. Al di là del loro valore intrinseco, secondo molti economisti, il raggiungimento di questi obiettivi é necessario, in particolare, per il raggiungimento del terzo Obiettivo del Millennio, la parità nel campo dell’istruzione e nel mercato del lavoro.
In tutti questi ambiti, il ruolo della cultura e delle istituzioni sociali é ben più determinante di qualsiasi differenza biologica tra uomini e donne. A testimoniarlo é la fortissima differenza geografica nel grado di diffusione e gravità delle disuguaglianze sociali tra uomini e donne. Ad esempio, tutti i Paesi Nordici (Danimarca, Norvegia, Svezia, Finlandia, Islanda) hanno da tempo raggiunto l’obiettivo di un’adeguata rappresentanza femminile nei Parlamenti nazionali, mentre nessuno Stato in Asia ci si é mai avvicinato.
Inoltre, si osserva che tali differenze non dipendono necessariamente dal grado di sviluppo economico (misurato in termini di PIL). Ad esempio, i Paesi dell’Europa dell’Est, tradizionalmente, presentavano tassi di occupazione femminile molto vicini a quelli maschili (ma, con la dissoluzione del Blocco Sovietico, le cose sono notevolmente peggiorate). Occorre concludere con una nota di particolare attenzione. E’ infatti un errore diffuso, tra i non addetti ai lavori, pensare che il sottosviluppo sia un problema peculiare dei Paesi poveri, i cosiddetti Paesi “in via di sviluppo”. Invece, nel campo della disuguaglianza di genere, cosí come in diversi altri ambiti, l’Italia presenta indicatori di sviluppo molto inferiori a ciò che implicherebbe la mera dimensione del nostro Prodotto Interno Lordo.

Cosí, in Italia, le madri single e le donne anziane sono tra gli individui maggiormente a rischio povertà. Il tasso di occupazione femminile é il più basso in Europa, dopo Malta, e le donne costituiscono la maggioranza dei disoccupati (soprattutto di lungo periodo) e degli inoccupati.
Solo con le ultime elezioni il numero di donne nel Parlamento Italiano ha raggiunto il 20% (dunque 10 punti sotto l’Obiettivo del Millennio), ma con un peggioramento nelle responsabilità di parlamentari e ministri donne (ad esempio, in termini di settore o di budget).
Alla luce di quanto detto sul ruolo della cultura, assume particolare gravità il ritorno nel dibattito pubblico di forti stereotipi di genere ed affermazioni gravemente spregiative del ruolo pubblico delle donne. Viceversa, é stato ampiamente dimostrato che le Regioni in cui il numero di donne in Consiglio e Giunta Regionale é più alto, sono anche le Regioni in cui il tasso di occupazione femminile é più alto.
Speriamo dunque che, con le elezioni amministrative alle porte, la primavera porti “nuovi sviluppi” all’Italia.

Carlo D’Ippoliti
ricercatore e docente universitario e membro del Dipartimento di Studi Sociali,
Economici, Attuariali e Demografici della Sapienza di Roma

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