Investiamo in capitale naturale

L’Italia è uno dei Paesi al mondo con la più elevata biodiversità e presenza di specie esclusive (endemiche). La stupefacente varietà di paesaggi naturali e di ecosistemi del nostro Paese costituisce un’enorme ricchezza che contribuisce anche al successo del turismo nazionale.

Preservare questa ricchezza dalle pressioni locali e dalla minaccia dei cambiamenti globali richiede interventi immediati, rigorosamente pianificati e protratti per un lungo periodo. Il valore dei servizi offerti dagli ecosistemi naturali è inestimabile, la loro perdita anche parziale costituirà un danno socio-economico enorme accrescendo ulteriormente la vulnerabilità del territorio” (dalla mozione finale del congresso congiunto dell’Associazione Italiana di Oceanologia e Limnologia e della Società Italiana di Ecologia, Ancona 17-20 settembre 2007). Parlare di investimenti per la protezione ambientale e la conservazione della natura in tempi di crisi economica sembra un esercizio accademico o da associazione di volontariato ambientale. Sono poche le voci del mondo politico o imprenditoriale nazionale che toccano questo problema, anche quando il degrado ambientale ed il dissesto di un territorio devastato dall’opera dell’uomo appaiono in tutta la loro gravità. Negli ultimi tempi, fra i grandi del mondo, solo Benedetto XVI ha espresso parole chiare, richiamando l’uomo ai principi della sostenibilità, la responsabilità di usare le risorse naturali con saggezza, parsimonia ed equità, tutelandole e preservandole anche a favore delle generazioni future.
La nostra società sembra essere pervasa dal dubbio che i costi ambientali possano compromettere la tanto sospirata ripresa economica, il benessere, l’occupazione. In precedenza, la percezione dell’importanza della questione ambientale aveva assunto, sia pure a fatica, forma e sostanza. Così, sul piatto della bilancia, vengono posti i bisogni primari: il reddito, l’alimentazione, la mobilità, i servizi e altro ancora. Come se un ambiente salubre e ricco delle sue componenti naturali fosse un’opzione facoltativa, una sorta di bene di lusso insostenibile in tempi di crisi economica.
Se questa è la premessa, possiamo ben chiederci quanto siamo disposti ad investire per salvaguardare una habitat vulnerabile, o qualche specie a rischio estinzione. Poco o nulla! E così è, se si pensa che le perdite e i danni subiti da specie vegetali ed animali, habitat ed ecosistemi naturali sono elevatissimi, ed in continua e rapida crescita. Un’iniziativa promossa dall’ONU fra il 2001 ed il 2005, tesa a valutare lo stato di salute del pianeta e le priorità per il nuovo millennio (il Millenium Ecosystem Assessment, http://www.millenniumassessment.org/) ha messo in evidenza una situazione drammatica. Oltre il 60% degli ecosistemi naturali è seriamente danneggiato, con la compromissione o la perdita dei servizi che forniscono al pianeta; l’eutrofizzazione dei mari costieri è in aumento, soprattutto dove è più rapido lo sviluppo economico; lo sfruttamento degli stock ittici ha ormai superato la capacità di rinnovo della risorsa; si contano perdite significative di mangrovie (35%), barriere coralline (20%), specie animali e vegetali, con tassi di estinzione da 100 a 1000 volte più elevati di quelli naturali.
Di fronte a questi dati allarmanti, dobbiamo prendere coscienza del fatto che il benessere dell’umanità dipende in larga parte dai servizi forniti dall’ecosistema. I paesi economicamente e tecnologicamente avanzati possiedono un’incredibile capacità di controllo dell’ambiente e dei suoi cambiamenti, ma sono impotenti di fronte ai fenomeni naturali più rilevanti, a maggior ragione nelle aree del sottosviluppo. Si pensi, ad esempio, a quanto appena accaduto ad Haiti, oppure a quanto è successo, a livelli infinitamente minori, in Versilia, poche settimane orsono.
Pur senza evocare i grandi fenomeni naturali o i disastri causati dall’imperizia dell’uomo, dobbiamo rimarcare con forza che l’uomo dipende dai beni e dal flusso dei servizi dell’ecosistema. Del lungo elenco, ne citiamo solo alcuni: l’approvvigionamento di cibo, acqua, legname, fibre; la regolazione del clima e del ciclo idrologico; l’incorporazione e la trasformazione dei rifiuti; i servizi di supporto quali la formazione del suolo, la fotosintesi, l’impollinazione e i cicli dei nutrienti. L’ecosistema fornisce anche servizi culturali che interessano la ricreazione e gli aspetti estetici e, non ultimi, i benefici psicologici e spirituali.
L’uomo è parte integrante dell’ecosistema, con le cui componenti interagisce in modo dinamico e non sempre negativo. Anzi, entro certi limiti, l’uomo ha modellato il proprio ambiente di vita con risultati di grande pregio, tuttora percepibili: la laguna di Venezia, che senza l’uomo non esisterebbe, le campagne dell’Umbria, delle Marche, della Toscana e, in misura purtroppo sempre minore, la pianura Padana.
Fin qui abbiamo considerato ciò che si apprezza perché ha un valore di utilità. Ma l’ecosistema possiede anche un valore intrinseco, che difficilmente riusciamo a cogliere nel suo significato più profondo, e che va inquadrato nel contesto dell’evoluzione delle migliaia di specie viventi che popolano il pianeta. La Terra, come la conosciamo oggi, è il frutto di una storia evolutiva lunga milioni di anni e fatta di interazioni tra l’ambiente abiotico e gli esseri viventi. Gli organismi modificano l’ambiente in cui vivono e da questo sono selezionati in una continua e lunga rincorsa che ha inizio con la comparsa della vita sulla Terra. Cosa conosciamo di tutto questo? Molto poco! Conosciamo qualche centinaia di migliaia di specie, soprattutto quelle che interessano l’uomo perché addomesticabili, velenose, medicinali, ecc. Ma quante specie ci sono sul pianeta? Non lo sappiamo con certezza e le diverse stime differiscono tra di loro anche di un ordine di grandezza. Quindi, se non sappiamo cosa c’è, esiste qualche ragione per cui dovremmo preoccuparci di ciò che muore, scompare, si estingue?
Per capire questo aspetto, dobbiamo ricorrere ad una metafora, purtroppo molto attuale. Per quanto concerne la biodiversità, oggi l’umanità è come un cliente che ha un conto in banca del quale non conosce la consistenza: non sa quanto danaro ha a disposizione, ma continua a spendere con imprudenza. Giorno dopo giorno, usa con estrema facilità la carta di credito, fintanto che il conto non si svuota. Ma se possiede solo quel conto corrente, il giorno in cui rimane senza disponibilità è sul lastrico.
Ecco, con gli ecosistemi e le specie viventi noi ci stiamo comportando come il correntista dell’esempio: stiamo spendendo giorno dopo giorno un patrimonio di cui non conosciamo l’entità esatta. Inoltre, il debito che stiamo contraendo, in termini di perdita di specie, non potrà mai esser ripianato, né con investimenti economici, né con le tecnologie. Le cause principali sono da ricercare nel prelievo di materie prime e combustibili, nel consumo di suolo per la produzione agricola, nell’urbanizzazione del territorio e delle coste, nella deforestazione, nella profonda modificazione degli ambienti delle acque interne, nei consumi idrici ad essi collegati e nell’inquinamento.
L’ultimo rapporto “State of the World 2010” del Worldwatch Institute, dedicato a consumismo e sostenibilità, riporta che, negli ultimi cinque anni, i consumi di beni di vario genere sono cresciuti del 28% a beneficio di meno del 10% della popolazione mondiale, con una sperequazione crescente tra Paesi industrializzati e le grandi aree del sottosviluppo.
Nel nostro Paese, una delle emergenze ambientali di maggiore rilievo riguarda il consumo di suolo per effetto dell’urbanizzazione, che raggiunge valori molto elevati lungo le coste e nelle aree più densamente popolate. L’ultimo rapporto dell’Osservatorio Nazionale sui Consumi di Suolo (http://www.inu.it/) riporta tassi di urbanizzazione che oscillano fra i circa due ettari al giorno del Piemonte ai circa dieci ettari al giorno della Lombardia. Il fenomeno interessa soprattutto le aree di pianura o fondovalle, dove si trovano i suoli più fertili e di maggiore pregio agricolo, il reticolo idrografico principale, le maggiori riserve idriche, le aree costiere, dove la popolazione si concentra sempre più. Paradossalmente, con l’attuale crisi economica, il concetto ribadito in tutte le situazioni è “sostenere i consumi per uscire dalla crisi”. Si privilegiano, dunque, settori produttivi che contribuiscono al degrado e non si considera la possibilità di investire in interventi di tutela e riqualificazione ambientale. Nel frattempo, si prevede che il settore ambientale possa avere un crescente respiro economico a medio-lungo termine. È ovvio che, in questo contesto di sviluppo, appare estremamente difficile proporre azioni di conservazione e ripristino degli ecosistemi naturali, soprattutto quando non ne è percepita l’importanza. Nell’immediato, a sostegno di questa opzione, basterebbe evidenziare come i benefici che una migliore qualità ambientale comporta per la salute umana siano di gran lunga superiori ai costi degli interventi necessari per ottenerla.
Ricette di facile applicazione non ce ne sono. L’unica certezza è che occorre investire in conoscenza, al fine di poter attuare un’adeguata prevenzione ed azioni di tutela, ripristino e conservazione dotate di un fondamento scientifico robusto e, quindi, di una maggiore possibilità di successo. Tutto ciò è in larga misura subordinato agli investimenti che il Paese saprà e potrà fare nella formazione e nella ricerca nei settori delle scienze ecologiche ed ambientali: oggi, questi sono pressoché inesistenti, e rappresentano meno del 5% dei finanziamenti destinati ai Progetti di Ricerca di Rilevanza Nazionale (PRIN).
A fronte di queste carenze culturali e strutturali, si aprono le sfide del terzo millennio, sempre più caratterizzate da processi e fenomeni che richiedono robuste basi conoscitive in nuovi settori, sia della ricerca, sia della pianificazione. Cambiamento climatico, dissesto idrogeologico, invasività dell’urbanizzazione e delle infrastrutture nel territorio agricolo, perdita delle componenti naturali, inquinamento e contaminazione sono solo alcuni degli aspetti in gioco. Per affrontare in modo serio e scientificamente responsabile questi problemi, bisogna ricorrere a nuovi modelli di gestione, rispondenti all’obiettivo di una pianificazione delle attività antropiche non conflittuale rispetto alla conservazione dei processi ecologici ed alla salvaguardia della naturalità degli ecosistemi. Purtroppo, la conservazione degli ecosistemi è molto spesso confusa con il verde urbano e, peggio ancora, resiste il preconcetto che gli esseri viventi possano essere considerati come entità a sé stanti, oggetti dell’arredo ambientale, potendo esistere in modo indipendente dall’ambiente che li ospita.
In assenza di una base conoscitiva approfondita, l’attuazione di piani di sviluppo sostenibili dovrebbe far riferimento a strumenti gestionali flessibili, di tipo adattativo. Si tratta di riconoscere il valore dell’ecosistema e delle sue funzioni, incorporando nell’analisi e nelle azioni l’incertezza e l’imprevedibilità insite nelle dinamiche naturali e nelle risposte ai diversi impatti. Servono strategie di intervento basate sulla valorizzazione dell’esperienza e non solo sulla fiducia illimitata nei mezzi e nelle risorse tecnologiche. Le azioni devono essere guidate dalla comprensione graduale, basata sull’analisi delle serie di dati disponibili e sulla sperimentazione di campo e di laboratorio. Nel contempo, le conoscenze devono essere ampliate, consolidate, mantenute nel tempo adottando metodologie e tecniche validate e rigorose. Ma, soprattutto, si deve tendere alla riduzione dei rischi, tenendo conto che tutti gli ecosistemi sono interconnessi, e che azioni locali possono determinare alterazioni con effetti additivi che si riflettono a livello regionale o globale. La risposta all’azione dell’uomo è spesso dilazionata nel tempo e si può manifestare all’improvviso anche in modo catastrofico. In altre parole, vista la complessità dei processi naturali, deve essere attuato il principio di precauzione.
Su questi temi, la comunità scientifica nazionale ha condotto studi ed ha acquisito competenze importanti. E’ pronta a supportare un processo intelligente di investimento in capitale naturale.

Pierluigi Viaroli
Professore di Ecologia
Dipartimento di Scienze Ambientali, Università degli Studi di Parma
Presidente della Società Italiana di Ecologia

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