Tra diritti e bisogni

Sovraffollamento, fatiscenza degli istituti di pena, mancata applicazione di leggi quali la Bindi e la Smuraglia, costante riduzione delle risorse destinate al trattamento e alla risocializzazione, calo del personale destinato a questi compiti, fanno delle carceri italiane dei luoghi di sofferenza.

La tragica vicenda di Stefano Cucchi, il giovane morto dopo essere stato arrestato, ha riacceso l’interesse per il carcere da parte dell’opinione pubblica italiana. In particolare, in seguito al caso Cucchi, si sta assistendo al rovesciamento del senso comune, frutto di strumentalizzazioni mediatiche e supposizioni prive di riscontri, che vede le patrie galere come un grand hotel a cinque stelle, i cui ospiti stanno in panciolle a spese dello Stato. Le inchieste di associazioni come Antigone e Ristretti Orizzonti, supportate dalle ispezioni del Comitato di Prevenzione della Tortura (CPT) del Consiglio d’Europa, dimostrano esattamente il contrario. Sovraffollamento, fatiscenza degli istituti di pena, mancata applicazione di leggi quali la Bindi e la Smuraglia, costante riduzione delle risorse destinate al trattamento e alla risocializzazione, calo del personale destinato a questi compiti, fanno delle carceri italiane dei luoghi di sofferenza. L’articolo 27 della Costituzione italiana viene disatteso e il tragico rosario delle morti suggella le condizioni disumane in cui si trovano a vivere i 68.000 detenuti italiani. L’indulto del 2006 aveva solo temporaneamente risolto i problemi di una situazione carceraria afflitta da problemi di varia natura, in cui si intrecciano le trasformazioni sociali e i mutamenti politici che hanno interessato il nostro Paese negli ultimi trent’anni. La riforma penitenziaria del 1975, in seguito puntellata dalla legge Gozzini del 1986, aveva costituito un notevole passo avanti verso l’implementazione dell’articolo 27 della Carta, che afferma che le pene debbono tendere alla rieducazione del condannato. Per la prima volta si riconosceva che il detenuto non smetteva di essere un soggetto titolare di diritti, e che la sua distanza dalla società andava gradualmente ridotta attraverso un reinserimento “a tappe”, fatto di permessi, lavoro all’esterno, semilibertà, liberazione anticipata per buona condotta.

La “Gozzini” aveva funzionato, tanto che nel 1990 le patrie galere ospitavano soltanto 25.000 detenuti. Da allora, si sono verificati cambiamenti significativi all’interno della società italiana, che hanno trasformato anche la sfera carceraria. In primo luogo, il fenomeno migratorio si è fatto sempre più consistente. Privi di qualsiasi rete di protezione sociale, afflitti da precarietà economica, esposti ad una maggiore visibilità da parte delle forze dell’ordine per via delle loro differenze somatiche e culturali, i migranti hanno finito per rappresentare il 35% dell’utenza penitenziaria italiana, con punte del 60% in alcune carceri del Centro-Nord. Queste cifre sono il prodotto di cause diverse: in primo luogo, i migranti non dispongono quasi mai di quella rete amicale e familiare che consente ai detenuti italiani di accedere alle misure alternative. In secondo luogo, la presenza massiccia di cittadini stranieri all’interno del circuito penale si pone simmetricamente alle legislazioni restrittive in materia di immigrazione che, dalla Martelli alla Bossi-Fini, passando per la Turco-Napolitano, i Governi italiani di diverso colore politico hanno implementato. Ciò non tanto in seguito ad una pericolosità reale del fenomeno migratorio, bensì in ragione del panico morale che, dall’inizio degli anni novanta, attraversa in misura crescente la società italiana, e che ha promosso la questione sicurezza ad argomento principe dell’agenda politica nazionale. La crisi politica susseguita a Tangentopoli e la precarietà economica scaturita dalla globalizzazione sono state tradotte da una società italiana disorientata in domanda di sicurezza, da mettere in pratica attraverso l’aumento dell’azione repressiva da parte della magistratura e delle forze dell’ordine. La sfera politica, scossa dalla crisi di legittimazione e preoccupata di riguadagnare rapidamente consensi, ha offerto una sponda significativa al panico morale che attraversava l’opinione pubblica italiana.

La riproposizione costante del tema dell’insicurezza, di cui viene esagerata la gravità, è sfociata nel varo di alcuni significativi provvedimenti legislativi, che si sono rivelati a medio e lungo termine criminogeni, in quanto hanno contribuito in maniera non secondaria all’aumento registrato della popolazione detenuta. La prima di queste leggi è la Jervolino-Vassalli del 1990, varata sotto la spinta dell’allora leader del PSI Bettino Craxi. Riducendo la modica quantità, prevedendo l’adozione di misure repressive verso i consumatori di stupefacenti, questa legge si rivela criminogena per due ragioni: sia per l’aumento dei detenuti, sia per la crescita dei suicidi in carcere da parte di persone che non avevano compiuto alcuna azione lesiva della convivenza civile e si trovavano costretti ad affrontare un processo penale e una detenzione, con le conseguenze del caso per le loro relazioni sociali, affettive e professionali. Gli effetti della Jervolino-Vassalli (e della Fini-Giovanardi del 2006, sua diretta filiazione) sulle carceri italiane, vanno al di là dei suicidi e dei pestaggi. Ad analizzare le statistiche penitenziarie, balza subito all’occhio come un terzo dei detenuti debba la privazione della libertà alla violazione delle leggi sugli stupefacenti. Se contassimo anche i carcerati arrestati in seguito a reati contro la proprietà legati alla necessità di acquistare le sostanze stupefacenti, probabilmente questa percentuale aumenterebbe considerevolmente. Inoltre, un decimo dei detenuti risulta essere sieropositivo, e si trova dentro sia perché non tutti i giudici di sorveglianza sono disposti ad accordare il differimento della pena, sia perché spesso questa categoria di detenuti non dispone di alloggi, famiglie, amici disposti ad accoglierli.

Siamo di fronte ad un’ulteriore pagina nera delle carceri italiane, che testimonia come i problemi sociali, come la sieropositività, oggi vengano affrontati attraverso la sfera penale. Ad aggravare la situazione delle carceri italiane ci ha pensato anche il conflitto di interessi, a riprova della strumentalità politica che spesso investe la questione carceraria. Nel 2005, l’allora governo Berlusconi II, per far accettare dall’opinione pubblica la legge ex-Cirielli, inserì un comma che prevedeva la negazione dei benefici della Gozzini (permessi di fine settimana, lavoro esterno, semilibertà, liberazione anticipata) per i detenuti recidivi. Ne conseguì un ulteriore sovraffollamento delle prigioni italiane, che spinse nel 2006 il governo Prodi ad approvare l’indulto per porre riparo ad una situazione che si andava facendo sempre più esplosiva, al pari di quella odierna. Da notare che l’approvazione dell’indulto fu caldeggiata da segmenti importanti della polizia penitenziaria, a cui la situazione dentro le prigioni cominciava a sfuggire di mano. L’effetto dell’indulto sarebbe stato temporaneo. La mancata riforma delle leggi sull’immigrazione e sul consumo di stupefacenti, l’ascesa di una nuova maggioranza sempre più caratterizzata da slanci securitari, il varo di nuove leggi “criminogene”, come quella dell’estate scorsa, che introduce il reato di clandestinità, hanno riportato la situazione carceraria in condizioni analoghe, se non peggiori, a quelle del 2006.
In questo contesto di disagio e repressione, il taglio della spesa pubblica gioca la sua parte, rendendo vano il dettato costituzionale e le leggi che tendono ad un’umanizzazione della pena. Ad esempio, la legge Bindi (1996), che prevede l’assorbimento della sanità penitenziaria all’interno del sistema sanitario nazionale, tarda ad entrare in vigore, soprattutto perché i medici penitenziari chiedono l’adeguamento salariale attraverso il riconoscimento di un’indennità di rischio che le ridotte risorse finanziarie rendono difficile concedere.

Altre considerazioni vanno svolte in merito alla legge Smuraglia (1998), che prevede agevolazioni fiscali per le imprese che assumono detenuti o che trasferiscono in carcere parte delle loro attività. In questo caso, sono la crisi economica e la segmentazione del mercato del lavoro a renderne difficile l’implementazione. Per concludere, ci sembra opportuno fare un cenno alle leggi sul carcere che non sono state approvate, e che faciliterebbero notevolmente l’umanizzazione degli istituti di pena italiani. La prima riguarda l’introduzione del difensore civico per i detenuti, già istituito in molti Paesi europei, e che l’Unione Europea inserisce tra i requisiti che i Paesi candidati all’adesione debbono soddisfare. Nelle legislature precedenti è stato affossato da veti incrociati di natura politica e propagandistica da entrambi gli schieramenti. Al momento, non è neppure in discussione. La seconda legge riguarda l’introduzione del reato di tortura, che permetterebbe di fare luce su molti abusi compiuti dalle forze dell’ordine ai danni dei cittadini. Una legge di questo tipo, se approvata, permetterebbe di indagare su fatti che vanno dai pestaggi del carcere di Sassari, avvenuti nel 2000, alla morte di Stefano Cucchi, passando per le Scuole Diaz, Alberto Lonzi ed Aldo Bianzino. Nel 2005 ci si era riusciti, salvo incorrere in un ememdamento della Lega Nord, che considerava la tortura reato solo se reiterata. Anche di questa legge si sono perse le tracce. Voltaire diceva che la civiltà di un Paese si misura dalle carceri. Per l’Italia vorremmo tanto che non fosse vero. Purtroppo, la realtà smentisce questo nostro desiderio.

Vincenzo Scalia
Senior Lecturer di Criminologia presso l’Anglia Ruskin University – Cambridge (UK),
membro dello European Group on Deviance and Social Contro

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