Una generazione di giovani provenienti da tutto il mondo è rinchiusa nelle carceri

Da un estremo all’altro: o non se ne parla proprio o se ne parla assai!! Di cosa? Del carcere ovviamente, di quel luogo lontano ove si tende a mettere le persone che “danno fastidio”, “gli indesiderati” e soprattutto si tende a dimenticarli lì. Poi accade il fatto eclatante, e un altro, un altro ancora… e se ne parla ogni giorno, si scopre che la situazione è “esplosiva”, che il grado di inciviltà delle patrie galere è inaccettabile, che è disumano il trattamento di chi vive “dentro”.

Gli ingressi di politici, amministratori, di chi vuole vedere le gabbie piene, sono ormai quotidiani, e tutti hanno pronta una soluzione. Un piano per risolverla definitivamente è stato messo a punto, ma… tutto è ancora come prima, anzi peggio di prima e per tenere i riflettori accesi su questa miseria, ancora morti, sofferenza e rabbia.

Ma dove siamo, in quale Paese viviamo se ci lasciamo prendere in giro così?! Se accettiamo che lacrime di coccodrillo siano piante anche da chi prima produce il danno (leggi che producono galera e solo galera, clima di paura e insofferenza…) e poi finge di accorgersi che c’è un problema di “dignità umana”, ma di chi? Certo, dentro non si vive, si cerca solo di sopravvivere. Sono lontani i tempi in cui il volontariato chiedeva per le persone recluse il riconoscimento di diritti umani quali l’affettività, più relazioni con la società esterna, lo studio, il lavoro, una possibilità di reinserimento e soprattutto un aiuto a cambiare strada, ad intraprendere nuovi percorsi di consapevolezza e responsabilità. In sostanza il diritto ad avere un futuro, il diritto alla speranza che dà la forza per accettare anche le miserie, le sofferenze, le delusioni dell’oggi.

Perché stupirsi allora se “dentro” c’è rabbia, se aumentano a dismisura l’autolesionismo e i gesti di ribellione, gli episodi di sopraffazione e le chiusure. Le speranze, anche le nostre di cittadini volontari, sembrano oggi cancellate alla luce di un sistema giustizia ormai esploso ed imploso, dove si fa il possibile, ma il possibile è poco, troppo poco. Il senso della pena si è rinchiuso sulla punizione e sulla vendetta, nella miope illusione che possa servire anche a me, cittadino per bene e di “buona condotta”.

È oggi rinchiusa nelle carceri una generazione di giovani provenienti da tutto il mondo (oltre che dal nostro paese), giovani in carne ed ossa, con berrettino girato all’indietro, scarpe da ginnastica, la felpa con cappuccio ed i jeans (solo e sempre quelli con i quali sono entrati). Li vediamo alla ricerca disperata di una sigaretta che possono solo chiedere come un assetato chiede un bicchiere d’acqua nel deserto, elemosinarla perché non hanno soldi per comperarsela.

A questi giovani spesso nei discorsi affidiamo il futuro, ma non esitiamo ad allontanarli se non rispondono al nostro ideale e, se in mille modi ci dicono che dentro a questo modello non riescono a stare, giungiamo fino a chiuderli e ad abbandonarli, senza accorgerci che forse in questo modo diamo corpo al nostro fallimento di adulti.

Che dire alla fine? Si resiste alla sofferenza e all’ignoranza, perché consapevoli che non c’è fuga possibile dall’oggi in cui viviamo, con le sue contraddizioni, le sue paure, i suoi pochi valori. È in questa situazione che ci troviamo ad operare ed è qui, guardando onestamente e coraggiosamente il problema della giustizia e della pena in Italia, che tentiamo di offrire il nostro contributo come volontari, per tenere aperto un futuro capace di includere e non escludere le persone, anche quelle diverse da noi.

Paola Cigarini
presidente Ass. Carcere Città Modena

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