L’Armenia nel cuore

La guerra termina nel 1994 con la conquista armena della regione contesa. Oggi, gli armeni rimasti in patria sono tre milioni; quelli della diaspora, oltre otto milioni. Si sono stabiliti in Russia, Georgia, Francia, Stati Uniti.

Continuo a pensare all’Armenia. Ho lasciato da alcune settimane Anna e Simon, che ci hanno guidato nella visita del paese, ma è come se fossi ancora con loro. Continuo a ricevere mail dai compagni di viaggio: anche loro non riescono a dimenticare. Rileggo i libri di viaggio di Pietro Kuciukian, medico italo-armeno che ha visitato più volte il paese, anche con la Protezione Civile Italiana a Spitak dopo il terremoto del 1988. Vado a Venezia all’isola di San Lazzaro degli Armeni per incontrare i monaci mechitaristi. A Vardenis, vicino al confine con l’Azerbaigian, sono ospite di Irina Nalbandian dell’associazione di turismo solidale “Aregouni” che accoglie i viaggiatori in famiglia, fa loro condividere la vita di ogni giorno. Irina è laureata in lingue, parla l’italiano e lavora per una fondazione svizzera. Ci racconta della fuga dei suoi antenati dalla Turchia durante le guerre russo-turche del 1828-29 e poi da Mush e Kars quando i Giovani Turchi scatenarono il “Medz Yeghern” (il “Grande Male”). Si fa seria quando ci corregge: “Quella non è Turchia, è Armenia Occidentale”. La lettura di Kuciukian ci aggiorna sugli sviluppi più recenti. Dopo il 1988, con gli scontri per l’enclave armena del Nagorno Karabach, i villaggi azeri della regione di Vardenis sono stati ripopolati dagli armeni provenienti dall’Azerbaigian. La guerra termina nel 1994 con la conquista armena della regione contesa. I morti delle due parti sono 30.000, i profughi un milione.


Danze e ricette per mettersi alla prova

Con l’associazione “Aregouni” seguiamo un corso di cucina armena ed una lezione di balli tradizionali. Visitiamo un asilo sostenuto da Save the Children e poi il laboratorio di uno scultore di khachkar, le tradizionali croci armene intagliate nella pietra. L’ospitalità è sempre spontanea, gioiosa. Gevorg Bokhyan, preside di scuola, ci accoglie nella “Casa Rurale”, centro professionale per l’agricoltura donato dai francesi. Quando sente che siamo quasi tutti senza figli, si lascia sfuggire: “Se non fate figli, perché vi dà fastidio se da voi vengono immigrati?” Con un breve trekking, in un paesaggio stepposo a oltre duemila metri, attraversiamo antichi villaggi prima di raggiungere Makenis, con la sua chiesa del VII secolo, già sede di una scuola. Da una modesta abitazione esce una bambina per offrirci un dolce appena sfornato.

L’olocausto di un popolo
A Erevan, prima di partire per Tsitsernakaberd, il Museo dell’Olocausto, Anna si ferma per comprare garofani. Li depositeremo attorno alla fiamma perenne circondata da dodici blocchi di basalto, simbolo delle regioni armene nell’attuale Turchia. Il museo fu aperto solo nel 1965, superata l’opposizione dell’URSS, timorosa del diffondersi di sentimenti nazionali. Furono uccisi più di un milione di armeni; prima gli intellettuali ed i notabili, poi nelle marce della morte, i vecchi, le donne ed i bambini. Tutto il mondo sapeva. Benedetto XV si appellò a Maometto V perché cessassero i massacri. Per Germania ed Austria, potenze alleate, quella tragedia era “un affare interno della Turchia”. Le sale sono in penombra, le gigantografie rimandano agli orrori dei campi di sterminio nazisti. Viene commemorato un “giusto”, l’autore di un Rapporto segreto sui massacri in Armenia, il missionario protestante tedesco Johannes Lepsius, che cercò di impedire il genocidio. Oggi, gli armeni rimasti in patria sono tre milioni; quelli della diaspora, oltre otto milioni. Si sono stabiliti in Russia, Georgia, Francia, Stati Uniti. Percorriamo la Via del Nord, nel centro della capitale: è un quadro metafisico con monumentali palazzi rosa, assenza di traffico, sensazione di immobilità. All’inizio della via c’è un assembramento di persone: Anna ci informa che il Movimento Nazionale Armeno, all’opposizione, sta raccogliendo firme per incriminare l’ex-presidente Robert Kocharyan al Tribunale Penale Internazionale dell’Aia. Cartelli con i ritratti di persone arrestate, o fuggite per evitare la prigione, denunciano le violenze del primo marzo 2008, quando, durante le proteste per i brogli alle elezioni presidenziali, vennero uccise dieci persone. In Piazza della Repubblica, il Museo Nazionale di Storia celebra gli eventi e la cultura millenaria del popolo armeno. Un’appassionata studiosa, Amalia Chahbazian, ci racconta il passato glorioso, i pogrom, le lotte del suo popolo. Ridotta l’Armenia ad una piccola realtà territoriale, rimane l’orgoglio di essere “uno dei centri della cultura dell’umanità”.

Terra di chiese e monasteri
Visitiamo chiese e monasteri fortificati, luoghi di culto e di studio dove gli armeni, privi di uno stato, sempre in pericolo di venir sopraffatti, riuscirono a difendere la propria cultura. Iniziamo con quello troglodita di Gheghard, del XII-XIII secolo, in parte scavato nella roccia e poi Goshavank, dello stesso periodo, dove si insegnava greco, latino, arte. Su una penisola, le due chiese di Sevanavank, del IX secolo, dominano il lago Sevan. Percorsa una valle profonda, saliamo alla chiesa con mausoleo di Noravank (XIV secolo), da poco restaurata. È uno dei siti più spettacolari dell’Armenia. Stato cristiano già nel 301, l’Armenia si è data l’attuale alfabeto, creato dal santo Mesrop Mashtots, nel quinto secolo. È nel cristianesimo, nell’alfabeto, nella lotta per la sopravvivenza, per i diritti civili, che gli armeni trovano la propria identità. Nel sud del paese, raggiungiamo il monastero di Tatev, sede di un’università nel XV secolo, famosa per gli insegnamenti di filosofia, retorica, grammatica, poesia, pedagogia, letteratura, storia, musica. La maestosa struttura fortificata, costruita su uno sperone di roccia, sovrasta la stretta e selvaggia valle del fiume Vorotan. Un’enorme gru, abbandonata dopo i restauri di molti anni fa, guasta la magia del luogo. Scriviamo al Katholikos (il papa armeno) ed al Presidente perché venga smantellata. Il monastero di Khor Virap sorge sul luogo dove San Gregorio Illuminatore fu imprigionato per tredici anni, dopo i quali, battezzato il re Tridate III, fece dell’Armenia la prima nazione cristiana al mondo. Di fronte al monastero di Khor Virap, in territorio turco, si erge il monte Ararat (5615 m.). La frontiera, guardata da soldati russi, è chiusa. Avevo chiesto alle famiglie che ci ospitavano il significato di quella montagna: “È tutto”, “È sacra”, “È il simbolo della madrepatria”. Prima di accomiatarci, Simon dona a ciascuno di noi una fotografia dell’Ararat. È un addio che racconta il dolore e la nostalgia di un popolo.

In collaborazione con
“Viaggi Solidali Magazine”

Giuliano Prandini
Giornalista, collaboratore del mensile KONRAD, collaboratore de “Il Piccolo”

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