Il peso delle parole

La formazione esige tempo. Prima si mette in ordine questo settore e meglio è. Ad esempio, affrontiamo i profili professionali degli insegnanti e in particolare degli insegnanti che hanno il compito specifico della specializzazione per l’integrazione. Ma non fermiamoci lì: in parallelo, cerchiamo di avere la stessa attenzione per le figure degli educatori sociali ovvero quelle figure professionali che non fanno parte del sistema sanitario in senso stretto – questi ultimi è bene chiamarli educatori professionali, come il decreto fatto dall’allora ministro della Sanità Bindi aveva indicato, distinguendo gli educatori sociali che fanno parte dell’extrasanitario in un senso rigorosamente amministrativo. Certamente, la cura della salute, connessa alla qualità della vita, non è un compito unicamente delle figure sanitarie, ma anche delle figure sociali.

I due profili professionali richiamati hanno bisogno di interagire con altri profili professionali quali quelli che sono più sicuri di sé – e questo potrebbe essere un limite perché una sicurezza impedisce di avere una autoanalisi precisa – quali quelli del Neuropsichiatria Infantile, dello Psicologo, dello Psicologo Cognitivo e altri, Logopedista e Assistente Sociale.

Il sistema cura interagisce con il sistema educante, formando un solo sistema. E’ interessante utilizzare questo modo di esprimersi facendo vivere il termine ‘cura’ non in senso strettamente farmacologico-medico, ma nell’accezione più ampia del “prendersi cura”, dell’accrescere le caratteristiche che possono dare qualità alla vita degli individui e della società. Questi ultimi due termini – individuo e società – possono anche essere vissuti e organizzati come contrapposti. E’ ciò che risultava chiaramente dalla “confusione” fra “insegnamento individualizzato” e “insegnamento individuale”: emerge da un’impostazione organizzativa basata sulla contrapposizione secondo la quale la buona riuscita individuale è più realizzabile se viene abbandonata la troppa attenzione alla dimensione sociale.

La qualità della vita, e della scuola, che punta più sull’individuale, vuole recuperare il sociale (la società) in un secondo tempo. Elogia il volontariato e riconosce crediti a chi si impegna in tal senso. Rinforza una visione della realtà in cui gli individui di successo aiutano con beneficenze chi vive nell’insuccesso. In questa prospettiva, proprio il termine competenza risulta evocato in un senso sbagliato – a nostro avviso -.

Dobbiamo ricordare, brevemente, che mentre le “capacità” hanno una dimensione sostanzialmente individuale, le “competenze” sono sociali. Ne sa qualcosa chi affronta le tematiche dell’autismo, in cui può vivere o trovare capacità che non riescono a diventare competenze, e in cui un problema è costituito dalla difficoltà a sviluppare un’intelligenza sociale. Gli studiosi e gli operatori hanno continuamente riscoperto gli apporti di Vigotskij, che fa riferimento all’individuo sociale come prospettiva da perseguire (educare ed educarsi).

Questa impostazione deve essere accompagnata da un altro aspetto. Prendiamo ad esempio l’educatore sociale: la possibilità che l’educatore sociale abbia un profilo professionale deve essere accompagnata dalla possibilità che ciascuno possa curare se stesso o se stessa costruendosi un profilo di competenza.

Vorremmo chiarire come all’interno di un profilo professionale vi possono essere più profili di competenza. Che non sono un sistema chiuso: sono una dinamica aperta, per cui vi può essere l’educatore sociale che acquisisce un profilo di competenze ben documentabile a proposito dell’autismo infantile ed ha poi la possibilità di avere a che fare con problemi inerenti la cooperazione internazionale, aggiungendo al profilo di competenza acquisito a proposito dell’autismo quest’altra competenza che riguarda l’intercultura. In questo modo, non abbiamo una fissità di competenze, ma una possibilità di acquisirne nel corso della vita professionale.

Un altro esempio che può permettere di capire meglio: se il profilo di competenza riguarda la sordità, può essere che l’insegnante specializzato per il sostegno all’integrazione, come l’educatore sociale, abbia la necessità di prendersi cura, di dover educare ed istruire un soggetto plurideficiario sordo, cieco e abbia la necessità quindi di acquisire ulteriori competenze. Il suo profilo di competenza si arricchisce per rispondere ai bisogni di quel soggetto sordo e cieco.

Questa organizzazione più sistematica ha bisogno di precisazioni. Occorre evitare che tale operazione crei una serie di specialismi poco adatti ad accostare le realtà nella loro pluralità di problemi. Bisogna rendersi conto che la competenza reale rende l’ambiente competente e questo accade perché vive lo scambio e la contaminazione delle competenze, sapendole invidiare e valorizzare negli altri. Bisogna fare chiarezza anche a partire dagli abusi di competenza o dai limiti che lo specialismo delle competenze può produrre: occorre avere uno sguardo critico e conoscere i rischi, per fare in modo, all’interno della formazione, di imparare a considerarli.

I rischi delle competenze possono essere ordinati secondo alcuni punti. Il rischio di una competenza chiusa significa la possibilità che vi sia una tale presunzione – il termine è nell’ordine dell’etica ma può essere declinato anche secondo l’etica professionale – da ritenere che il proprio sguardo competente elimini ogni altra realtà.

E’ quella situazione che alcune volte si è cercato di spiegare utilizzando la metafora dell’occhio della rana: quella specializzazione biologica che permette di individuare il più piccolo movimento, mentre non ha la minima possibilità di vedere e di accorgersi degli elementi che sono attorno a lei se non sono in movimento. Per questo si dice che l’occhio della rana permette di individuare la mosca in movimento e di far scattare la lingua in una presa immediata del cibo che rappresenta, mentre la stessa rana muore di fame se attorno a lei vi sono molte mosche morte e non c’è movimento d’aria per creare qualche possibilità di individuarle. Ci troviamo davanti ad uno specialismo chiuso.

La conseguenza di una competenza chiusa può essere quella di non vedere altro se non le realtà contenute nella propria competenza, ma può essere anche quella di privilegiare e considerare come unicamente importanti le realtà che si vedono attraverso la propria competenza, trascurando le interazioni, le relazioni tra quelle realtà, visibili attraverso gli occhi della competenza e l’esterno, il contesto.

2. La competenza chiusa rischia di creare dei danni e di non accorgersene; o per lo meno di avere delle difese tali da ritenersi non confrontabile, fuori da ogni comparazione e valutazione da parte degli esterni alla competenza. Un altro punto di rischio della competenza è quello che permette di utilizzare delle attività violente. Noi abbiamo un’idea della violenza immediatamente collegata allo spargimento di sangue, alla coercizione fisica; vi sono però molti tipi di violenza e quelli a cui ci riferiamo sono la possibilità di coartare i ritmi biologici di un soggetto, di non attivare delle condivisioni, delle alleanze con il soggetto e con l’ambiente sociale in cui vive, di non sapere riformulare i piani d’azione secondo le caratteristiche socioculturali e di personalità del soggetto stesso. Esempi purtroppo molto numerosi di questo tipo di violenza. In particolare, uno studio a suo tempo svolto da Tomkievitz ci ha reso possibile una riflessione sulla violenza derivata da un eccesso di presunzione nella propria competenza.

Una terza possibilità di rischio della competenza, infine, è la possibilità di sentirsi gerarchicamente superiore ai colleghi. Bisognerebbe ricordare che il profilo di competenze è all’interno di un profilo professionale e che questo deve collegare alla comunità allargata a cui si appartiene, che comprende non solo gli altri professionisti ma anche i ruoli sociali del contesto allargato. Bisogna avere il senso dell’appartenenza ad un profilo professionale e non ritagliarsi un profilo di competenze equivocandole e rendendolo equivoco, facendolo diventare un’altra professione. Non è così.

3. Una terza parte di questa riflessione riguarda la possibilità che il profilo professionale completato dal profilo di competenze entri a far parte di una proposta e di una prospettiva inclusiva. Questo punto cerca di tener conto in parte dei rischi già delineati e di proporre salvaguardie da quei rischi stessi.

E’ necessario che nei profili professionali a cui facciamo allusione ci sia un chiarimento sulla prospettiva inclusiva nella formazione di base dei profili professionali e non lasciata unicamente a coloro che entrano nello specifico che riguarda l’inclusione. Spieghiamoci meglio: un insegnante deve nella sua formazione avere conoscenze della prospettiva inclusiva senza la necessità di optare per diventare insegnante specializzato, o specializzata, per l’integrazione. Un insegnante di matematica, un insegnante di educazione fisica, devono avere conoscenze di base che comprendano la prospettiva inclusiva e dovrebbe essere chiaro che nella prospettiva inclusiva non si tratta unicamente delle categorie dei disabili che chiamiamo per brevità “certificati”: si tratta di tutti coloro che hanno dei bisogni specifici e speciali. Anche coloro che, ad esempio, vengono da altre culture.

La prospettiva inclusiva non può essere riservata a categorie: è aperta a tutti. E’ un elemento che rinforza la necessità che tale prospettiva venga acquisita nella formazione di base di alcune professioni, possibilmente il più possibile delle professioni. Immaginiamo che anche chi si prepara a fare il medico debba conoscere la prospettiva inclusiva. Sappiamo quanto sia difficile inserire in una formazione che si vuole mirata ad alcune competenze qualcosa che sembra non avere una qualifica specificamente competente, ma più una sensibilità culturale, che può sembrare caratterizzata da buoni sentimenti, con equivoci che sono immediatamente percepibili da chi è addetto ai lavori e forse anche percepibili da coloro che si accostano per la prima volta a questi argomenti.

La possibilità che la presunzione di competenza giochi dei brutti scherzi è presente, e richiama il paragrafo precedente; ma è chiaro che ritorna anche nella riflessione che stiamo cercando di fare su questo aspetto. Prospettiva inclusiva, quindi, come elemento di base e possibilità che nel profilo professionale vi siano delle necessità di competenze specifiche ma non esclusive: specificità e non esclusivit.

Non è possibile che chi avrà un profilo di competenza abbia la pretesa di occuparsi esclusivamente dei soggetti che sono previsti da quelle competenze. Bisognerà che ci sia una capacità di flessibilizzare le proprie competenze per aprirle alla continuità che dallo specifico va verso il generale. Vogliamo essere più precisi attraverso un esempio.

Ritorniamo all’autismo: se nell’autismo elementi interessanti che nelle competenze si devono mettere in luce sono relativi alla comunicazione, alla capacità di leggere i comportamenti emotivi, di determinare delle cornici metacognitive che permettano ai soggetti di ritrovare il senso delle loro azioni, ecc. è chiaro che questo profilo di competenze non è esercitabile in esclusiva per i soggetti autistici perché vi saranno certamente tanti altri soggetti che, pur essendo assolutamente lontani dall’autismo, vivono delle condizioni di marasma comunicativo, di incapacità di orientarsi in una pluralità di simboli e significati ed hanno comportamenti problematici che possono essere affrontati utilizzando al meglio le competenze mirate all’autismo.

Nella prospettiva inclusiva significa utilizzarle per potere trasmettere le competenze a colleghe e colleghi che non hanno lo stesso profilo di competenza. Questo significa che nel profilo di competenza – ed è anche questo un elemento che dovrebbe essere predisposto dal profilo professionale – vi è la capacità già indicata di rendere il contesto competente e capaci di dialogo e di scambio le figure professionali del contesto.

L’operazione importante della formazione è quella di pensare di avere una professione che si esercita sempre con una responsabilità personale aperta alla cooperazione con le altre figure che vivono nel contesto educativo, sia esso scolastico, extrascolastico, sia di infanzia, preadolescenza, adolescenza ma anche nella prospettiva di essere con responsabilità educativa per adulti. Questo è un elemento di grande importanza e riteniamo debba essere il più possibile approfondito in continuità, non chiuso in una dichiarazione di principio: reso partecipe e verificato nei fatti. Sappiamo essere nell’ordine della realtà la possibilità di provocare esclusioni.

Abbiamo vissuto e viviamo una frequente esclusione dell’insegnante che chiamiamo di sostegno che, insieme al soggetto di cui si deve occupare, vive una forma di esclusione nei fatti dal contesto classe – e questo succede molte volte –. Non vorremmo arrivare ad un’esclusione attraverso il profilo delle competenze che giocherebbe al ribasso e permetterebbe di mortificare la prospettiva inclusiva, fingendola e non realizzandola.

La possibilità che il profilo di competenze eviti quella dimensione prevalentemente di dedizione oblativa, di sacrificio affettivo che a volte si verifica nelle persone migliori che si dedicano a quello che viene chiamato “il sostegno” e che chiude in un binomio, in una dinamica a due la relazione, anziché aprirla alla pluralità dei soggetti che compongono un contesto educativo, si può trasferire in una situazione di esclusione attraverso un profilo di competenze tecniche.

La possibilità auspicata è quella di arrivare a mettere in moto un sistema premiante della cura educativa ampia e con capacità di autocorreggersi. La nostra proposta è evidentemente segnata dal calendario storico, nel senso che riteniamo opportuna questa proposta negli anni in cui siamo e nel contesto che abbiamo l’avventura di vivere. Non la facciamo diventare un assoluto: è un correttivo necessario in una situazione in cui il rischio maggiore è stato quello di avere competenze, qualche volta, neanche troppo estese, lontane da dove ve ne è bisogno.

Il nostro assunto principale – fare incontrare i bisogni con le competenze utili agli stessi, nella prospettiva inclusiva – ha una funzione storica, e non è un assoluto. Al momento, è una necessità da costruire e garantire, perché ne siamo lontani. Dovrà essere continuamente riesaminata e corretta senza però perdere o sacrificare il ruolo importante delle competenze nella prospettiva inclusiva.

Andrea Canevaro
Dipartimento di Scienze dell’Educazione Città di Bologna

Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

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