Il ruolo attivo dell’azienda

Se la persona disabile ha caratteristiche tali da incontrare le esigenze del datore di lavoro, il suo inserimento e la sua gestione, intesa come risorsa e non come peso, avverranno in un’ottica di valorizzazione e sarà molto più facile il processo di inserimento e di convivenza all’interno della realtà operativa

In Italia, come in altri paesi europei, il tema dell’inserimento lavorativo dei disabili è di fondamentale importanza. La logica che dovrebbe sottendere ogni iniziativa di inserimento dei disabili è quella del riconoscimento e della valorizzazione della persona disabile nell’ambiente di lavoro. Da modalità tradizionali di inserimento impositivo, dovremmo parlare di inserimento mirato e sempre consensuale, attraverso percorsi personalizzati, costruiti “ad hoc” intorno alle esigenze del disabile e del posto di lavoro. È ormai necessario un diverso approccio alla valutazione dell’invalidità e una relativa modifica e innovazione nella logica e nel sistema di collocamento. L’itinerario da seguire dovrebbe partire da un inquadramento delle caratteristiche fisiche dell’individuo per passare ad una analisi delle sue attitudini, competenze, esperienze pregresse e finire con una verifica rispetto alla compatibilità di queste con le necessità del contesto lavorativo.

Un inserimento lavorativo così inteso, quindi, è molto lontano dalle logiche del mero orientamento al lavoro, ed è più vicino ad un processo di “accompagnamento” del disabile nelle situazioni professionali, con la previsione di momenti di verifica a distanza del successo dell’inserimento stesso (follow-up). Oggi si dovrebbe parlare (e realizzare) di transizione integrata come nuova strategia di accompagnamento, tanto per chi deve inserirsi, quanto per chi deve accogliere e inserire. A fronte del radicale mutamento del quadro normativo inerente il diritto al lavoro dei disabili, determinato dall’entrata in vigore della Legge 68/99, è emersa con prepotente necessità l’esigenza di approntare procedure, metodologie e strumenti adeguati al principio del collocamento mirato, rinnovando contestualmente le prassi precedentemente utilizzate, nella consapevolezza di agire in un contesto privo di modelli operativi di riferimento già consolidati.

Per collocamento mirato s’intende quel metodo d’avviamento al lavoro dei disabili che, partendo dalla valutazione delle capacità residue, progetta un percorso personalizzato e predispone gli strumenti per acquisire la formazione professionale (comprese le forme di sostegno) che permetta di realizzare un inserimento lavorativo che soddisfi la professionalità acquisita dal lavoratore disabile e le esigenze produttive. La legge 68/99, abbandonata l’impostazione assistenzialista delle norme precedenti, getta le basi di una politica attiva che leghi occupazione e formazione, con l’intento di collocare il lavoratore disabile al posto giusto affinché possa esercitare al massimo le proprie capacità lavorative. In questa cornice, il cosiddetto collocamento mirato diventa il complesso degli strumenti tecnici e di supporto che consentono un’adeguata valutazione delle capacità lavorative dei disabili e il loro inserimento nel posto adatto, attraverso processi formativi e percorsi personalizzati tali da valorizzare le attitudini e le capacità residue. Questo strumento rappresenta la vera innovazione nel collocamento obbligatorio.

Ma quali sono oggi i modelli e le procedure utilizzate per valutare le capacità lavorative di un disabile? Gli strumenti per la valutazione delle capacità residue in uso presso le ASL e l’Inail sono basate ancora sulla classificazione della disabilità ICIDH 1980, che è organizzata sulla struttura: Menomazione – Disabilità – Handicap, cioè sulle conseguenze derivate dalle malattie. Ci si sofferma in altre parole su ciò che l’individuo “non può fare” piuttosto che sulle sue capacità lavorative. La Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità, e della Salute (ICF), introdotta con l’approvazione da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) nel 2001, considera invece il soggetto disabile come persona e cerca di inquadrarlo nella sua complessità, riflettendo sulla sua salute sempre in correlazione con il suo contesto ambientale, sociale e personale. L’ICF presenta quindi un approccio che riporta i cambiamenti di prospettiva, già iniziati fin dagli anni ’70, nell’affrontare la disabilità e promuove un’ottica integrata, oltre che un modello interattivo e multidimensionale con cui valutare tanto il funzionamento quanto la disabilità. Gli interlocutori principali chiamati in campo da questo modello sono: il personale medico delle commissioni di accertamento della disabilità delle ASL, i centri per l’impiego provinciali, gli operatori del terzo settore, le aziende. Lo sforzo che si richiede, in particolare, ai medici delle commissioni ASL e agli operatori del terzo settore nella valutazione dei disabili è quello di riuscire ad ottimizzare il modello esistente attraverso l’integrazione della valutazione ICF e altri strumenti che siano in grado di far emergere le potenzialità del disabile, come lo strumento del bilancio di competenze. In tal modo sarebbe possibile inquadrare complessivamente il disabile nella sua globalità di persona, con una dimensione fisica, sociale, emotiva, esperienziale.  Lo sforzo che si chiede alle aziende, invece, è quello di esplicitare con chiarezza le necessità lavorative che hanno al proprio interno e di mostrare disponibilità al dialogo/allineamento verso le ASL, i Centri per l’Impiego Provinciali, gli operatori del terzo settore, oltre ai disabili lavoratori.

È fondamentale occuparsi delle persone disabili non solo nel momento in cui devono inserirsi nel mondo del lavoro. Fin dai tempi dell’istruzione e della formazione, medici, psicologi e operatori del terzo settore (o anche insegnati con adeguate competenze) dovrebbero seguire il disabile cercando di inquadrarne al meglio la dimensione fisica, psicologica e sociale. Sarebbe auspicabile che ciascun giovane disabile fosse “accompagnato” nel percorso formativo scolastico e universitario, se presente, per documentare e riflettere sul proprio sviluppo professionale, in termini di abilità, conoscenze e capacità, tanto a livello di gruppo, quanto a livello individuale. Questa attività di accompagnamento e valutazione dovrebbe essere condotta da un gruppo interdisciplinare di esperti che abbia come obiettivo quello di tenere sempre traccia aggiornata delle capacità del singolo soggetto. Il tema dell’inserimento mirato nel mondo del lavoro arriva in un secondo momento, quando il disabile ha concluso il percorso di istruzione e formazione. È in questa fase successiva che, sempre con l’intervento di operatori specificatamente preparati nella mediazione, si dovrebbe tentare un incrocio fra la domanda e l’offerta di lavoro, cercando di far incontrare il disabile con il contesto organizzativo che più è congeniale alle proprie capacità e competenze, aspirazioni e motivazioni. Fondamentale è, a tal riguardo, la tipologia di disabilità del soggetto coinvolto: è cosa diversa, infatti, progettare iniziative di inserimento mirato destinate a persone rimaste disabili a seguito di un grave incidente (attenzione alle esigenze di riprogettazione del percorso di vita di una persona prima completamente abile, con un peso psicologico per il soggetto non indifferente) oppure inserire sul lavoro portatori di disabilità motorie (componente di riprogettazione dello spazio di lavoro determinante) o ancora disabili intesi come fasce deboli della popolazione (ex detenuti, immigrati, minorenni, ecc.).

Un capitolo fondamentale, spesso trascurato, è quello relativo all’azienda che inserisce il lavoratore. Oltre che investigare le motivazioni del disabile, è fondamentale, infatti, rilevare i bisogni dell’azienda, in modo che svolga un ruolo attivo nel processo di inserimento. Se si rilevano attentamente le esigenze dell’azienda, infatti, si evita che questa veda il disabile come un obbligo o un peso improduttivo ai fini del raggiungimento degli obiettivi aziendali. Se il soggetto, infatti, ha caratteristiche tali da incontrare le esigenze dell’azienda, il suo inserimento e la sua gestione (come risorsa e non come peso) avverranno in ottica di valorizzazione e sarà molto più facile il processo di inserimento e di convivenza all’interno della realtà in questione. Oltre ad una mappatura delle competenze del futuro lavoratore, è auspicabile che si compia anche una mappatura delle esigenze, caratteristiche, motivazioni e obiettivi delle organizzazioni imprenditoriali locali. Le aziende sanno meglio di chiunque altro il tipo di lavoro che possono offrire e le competenze e capacità necessarie per ricoprirlo in modo adeguato. Se esplicitano e mettono in comune con altri operatori queste conoscenze e queste informazioni, potranno favorire l’incontro di esigenze che coincidono e che si vengono incontro. Così facendo, le esperienze di inserimento personalizzato, allargando il focus dall’individuo all’organizzazione, faciliteranno l’interscambio fra persona, contesto aziendale, territorio. Sottolineando la loro effettiva utilità anche per le aziende, non saranno più eventi sporadici e occasionali riconducibili ad un numero sparuto di aziende, ma potranno essere sistematiche e ripetute nell’ambiente territoriale di riferimento. Sarebbe molto utile, dunque, svolgere iniziative di sensibilizzazione del mondo imprenditoriale e lavorativo per sollecitare un atteggiamento proattivo e partecipativo di questo attore. In altre parole, l’azienda non deve più sentirsi estranea al processo di orientamento, formazione, inserimento e vedersi attivata solo nel momento in cui il lavoratore entra nell’organizzazione, ma deve concepirsi parte determinante nel far emergere le opportunità di inserimento e di collocamento mirato, che vadano incontro alle proprie esigenze di sviluppo e di crescita strategica.

Nel processo di inserimento è bene tener presente anche un aspetto che fino ad oggi non è stato sempre approfondito: le aspettative del diversamente abile rispetto alla collocazione lavorativa. In ogni iniziativa di collocamento, infatti, si dovrebbero rilevare le attese del soggetto grazie ad interventi di esperti che possano incontrare l’interessato e disegnare poi “l’immagine sociale” che questi si è costruito rispetto alla situazione lavorativa che più si auspica per il proprio futuro. In questo modo sarà più semplice realizzare l’inserimento del soggetto nell’ambiente organizzativo appartenente ad una specifica realtà (impresa, pubblica amministrazione, cooperativa, ecc.). È importante, quindi, costruire l’identità sociale e professionale del soggetto, per poter pianificare al meglio le iniziative di inserimento lavorativo e la loro attuazione concreta. Non tutti i professionisti sono in grado di inquadrare globalmente il soggetto disabile, le sue motivazioni, aspettative, competenze. Alcune realtà nella nostra Provincia, con cui collaboriamo attivamente sul tema della disabilità, hanno sviluppato una buona pratica molto utile per applicare un modello di valutazione psicologico-sociale, oltre che medico, della disabilità: si tratta di adottare lo strumento del bilancio di competenze in relazione alle persone disabili. Il bilancio di competenze rappresenta un punto di partenza strategico da cui aziende, operatori territoriali, istituzioni, dovrebbero partire per ogni iniziativa di inserimento organizzativo dei disabili. Ogni bilancio, redatto da un consulente esperto insieme al disabile con momenti di riflessione di gruppo e individuali, contiene interessi, aspirazioni, motivazioni e risorse personali, esperienze già fatte dal lavoratore, conoscenze, abilità e capacità possedute, potenzialità di sviluppo futuro. Tale strumento permette di ricostruire con il disabile la propria storia formativa e professionale, valorizzandone le capacità e le potenzialità possedute. L’applicazione del bilancio di competenze, unito alla classificazione ICF, rappresenta un metodo che andrebbe diffuso su tutto il territorio nazionale per rendere più esaustiva la valutazione della disabilità e rendere più efficace l’inserimento lavorativo. Il bilancio permette inoltre una forte assunzione di responsabilità da parte del futuro lavoratore, che, anche se affetto da patologie alquanto gravi (per es. deficit mentali), viene coinvolto al massimo nella valorizzazione dell’esperienza lavorativa passata e nella pianificazione di quella futura.

dott.ssa L. Livigni**,
Prof. A. Magrini**,
Prof. A. Bergamaschi*
*Istituto di Medicina del Lavoro – Università Cattolica del Sacro Cuore – Roma
**Cattedra di Medicina del Lavoro – Università degli Studi di Roma Tor Vergata

 

Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

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