Le innumerevoli facce del fenomeno

Questo istituto comprende due tipologie diverse: quella del bambino straniero affidato ad una famiglia della sua stessa nazionalità, e cioè dell’affidamento omoculturale; e quella del bambino straniero affidato a una famiglia italiana, che costituisce l’affidamento internazionale in senso proprio. L’affidamento familiare internazionale deve essere consentito comunque solo in favore di minori stranieri provenienti da Stati con i quali sono stati stipulati specifici accordi bilaterali.

In un contesto in cui le relazioni e gli scambi avvengono sempre più a livello mondiale, anche l’affidamento familiare ha perso lo spazio del villaggio acquisendo una dimensione internazionale. Guardando attorno osserviamo situazioni diverse per svolgimento e finalità che possono rientrare nel calderone di affidamento temporaneo di un bambino ad una famiglia di un altro Stato: genitori della borghesia che nelle vacanze mandano il figlio all’estero, o dall’estero in Italia, presso un’altra famiglia per imparare la lingua, con forme di scambio di ospitalità o no; persone che lavorando o svolgendo volontariato all’estero accolgono dei bambini bisognosi e chiedono al loro ritorno in Italia di portarli con sé; coppie di nazionalità “mista” che vorrebbero far venire presso di loro in Italia dei nipoti stranieri per aiutarli a crescere in un ambiente più ricco e stimolante; genitori del Maghreb che con il regime giuridico della kafÇla affidano il figlio ad un’altra famiglia della stessa nazionalità e religione perché lo tenga e cresca in Italia; bambini di paesi in guerra o che muoiono di fame che famiglie italiane vorrebbero ospitare; bambini che arrivano in famiglie italiane per soggiorni solidaristici con scopi sanitari; e gli esempi possono proseguire. Tutte queste realtà, regolate o tollerate o scoraggiate o addirittura vietate, hanno in comune che un bambino è affidato ad una famiglia distante dalla propria la quale, di fatto o di diritto, esercita su di lui una potestà limitata. Di fronte a questo, molti ritengono opportuno che una legge disciplini l’affidamento internazionale nella varietà delle sue forme possibili rivolgendosi sia ad agevolarlo e riconoscerlo quando è interesse di un bambino straniero venire presso una famiglia diversa dalla sua in Italia sia a chiudere la porta agli abusi. In questa direzione si muovono ormai anche alcune proposte legislative che vogliono affiancare alla disciplina dell’affidamento familiare interno quella dei casi di affidamento internazionale.

Quando un fenomeno nuovo acquista dimensioni di una certa rilevanza, il diritto deve regolarlo: così è avvenuto con la disciplina dell’adozione internazionale del 1983, allorché è emerso che da quattro o cinque anni gli italiani si rivolgevano ormai in frotte per adottare bambini all’estero; così il problema si pone oggi di fronte alla crescita esponenziale delle convivenze; così è tempo di fare per l’affidamento familiare internazionale. Una legge sull’affidamento familiare internazionale dovrebbe prescindere da considerazioni di convenienza di politica estera e da preoccupazioni relative ai flussi dell’immigrazione per essere rivolta a “completare il sistema italiano di protezione sostitutiva del minore”. In particolare essa, secondo il principio di sussidiarietà, dovrebbe preoccuparsi di offrire ai bambini stranieri temporaneamente privi di un ambiente familiare idoneo le risorse di una famiglia accogliente quando essi non le trovano nel loro Stato.

Per pensare le linee legislative dell’istituto dell’affidamento familiare internazionale, che finora si è sviluppato solo di fatto, bisogna delimitarne il territorio e i confini. Come ipotesi di partenza usiamo una nozione molto ampia,comprendendovi tutti i casi in cui una famiglia con residenza o domicilio in Italia accoglie presso di sé, per un periodo tendenzialmente temporaneo e senza formazione di legami civili stabili, un bambino straniero la cui famiglia risiede all’estero. In realtà questa nozione comprende due situazioni principali che necessariamente devono avere trattamenti diversi: quella del bambino straniero affidato ad una famiglia della sua stessa nazionalità, e cioè dell’affidamento omoculturale; e quella del bambino straniero affidato a una famiglia italiana, che costituisce l’affidamento internazionale in senso proprio.[….]

Diversamente deve avvenire quando una pubblica autorità giudiziaria o amministrativa dello Stato di origine o direttamente i genitori hanno affidato un bambino straniero ad una famiglia italiana, di parenti o non, che entra, o chiede di entrare, con lui in Italia. In queste situazioni che interessano una famiglia italiana come affidataria e dove l’affidamento si svolge in Italia, il nostro Stato deve considerare la necessità e convenienza dell’affidamento riferita alla capacità degli affidatari e al bene che il bambino può trarne. Infatti l’affidamento può avvenire a persone inadeguate oppure in frode alla legge per aggirare le norme sulle adozioni o addirittura essere particolarmente dannoso per il bambino per il fatto stesso di venire portato distante dalla sua famiglia che se ne occupa e gli vuole bene. Queste relazioni di affidamento familiare non sono regolate e, per esse, probabilmente è opportuno introdurre un doppio regime. Si possono infatti individuare alcune fattispecie di affidamenti familiari internazionali in casi particolari, nei quali l’affidamento familiare internazionale può corrispondere veramente all’interesse di un bambino o apparire in concreto l’unica risorsa possibile per aiutarlo, sicché pare iniquo erigere barriere negative. Senza pretendere di essere esaustivi, la pratica giudiziaria conosce i seguenti casi principali che meritano attenzione e devono trovare soluzione: -affidamenti familiari ai confini dell’Italia con altri Stati europei fra famiglie che comunque hanno una vicinanza geografica; -affidamenti endofamiliari (esempio: affidamento dei figli abitanti all’estero della sorella defunta); -affidamenti avvenuti durante una permanenza prolungata del cittadino italiano all’estero che al momento del suo ritorno nel territorio dello Stato italiano devono essere proseguiti per salvaguardare i legami maturati; -affidamenti per motivi umanitari specifici valutati caso per caso da un’autorità amministrativa centrale in occasione di calamità naturali, epidemie o guerre; -affidamenti per motivi di studio o di lavoro di ragazzi già grandicelli; -affidamenti disposti dallo Stato estero a scopo di adozione come periodo di prova (corrispondenti ai nostri affidamenti preadottivi) perché successivamente lo stesso Stato in caso di esito soddisfacente proceda a dichiarare l’adozione.

Al di là dei casi anzidetti di affidamento familiare internazionale in casi particolari, l’affidamento familiare internazionale deve essere consentito solo in favore di minori stranieri provenenti da Stati con i quali sono stati stipulati specifici accordi bilaterali e in conformità con il contenuto di questi accordi, con la caratteristica di prevedere, come per l’affidamento familiare interno: -una temporaneità non superiore a due anni, salvo rinnovo; -la destinazione solo a bambini in condizioni di grave disagio familiare o di istituzionalizzazione; -la formulazione di progetti specifici per ogni bambino. Inoltre – a differenza dell’affidamento familiare interno – occorre introdurre una barriera stabilendo un’età minima dei bambini affidati in questa forma. Le proposte di legge finora presentate escludono giustamente i neonati e i bambini piccolissimi e propongono che possa andare in affidamento solo il bambino che sia già in età scolare o abbia raggiunto un’età di nove-dieci anni. Infatti il bambino quanto più è piccolo tanto più ha bisogno di un affidamento familiare interno, che mantenga fisicamente la prossimità con i genitori, mentre quando è cresciuto può allontanarsi dal suo contesto – che quasi sempre non gli offre altre risorse sostitutive che gli istituti o la strada -con minori danni; inoltre consentendo l’affidamento internazionale solo per i bambini più grandicelli si riduce il pericolo di abusi e ci si pone veramente nella prospettiva della sussidiarietà rispetto all’affidamento familiare interno che può trovare nell’affidamento familiare internazionale un modello cui ispirarsi per cominciare a svilupparsi. Nel pensare e costruire quest’ultimo affidamento è importante soprattutto evidenziare la sua natura di strumento di solidarietà evitando: -il rischio che possa servire per eludere le norme sull’adozione internazionale, come è avvenuto in alcuni casi (per fortuna pochi) con i soggiorni solidaristici; -la possibilità che la distanza fra l’Italia e l’altro Stato determini di fatto una rottura definitiva dei rapporti con la famiglia di origine con cui il bambino abbia un legame che con gli opportuni sostegni sociali, sanitari ed economici può essere recuperata al suo ruolo.

Per l’efficace svolgimento dell’affidamento familiare internazionale inoltre devono essere fissati alcuni punti fermi, magari chiaramente esplicitati in una norma di principio introduttiva. Lo Stato italiano prima dell’affidamento familiare e durante il suo svolgimento collabora con le autorità del Paese di origine del bambino attraverso una propria Autorità amministrativa centrale. Questa Autorità mantiene le relazioni con lo Stato di origine per autorizzare gli ingressi, per evitare sotterfugi, per soddisfare la giusta esigenza dello Stato di origine di sapere come va l’affidamento di un suo cittadino e quindi per trovare le soluzioni quando l’affidamento debba essere superato con altre misure. A questa stessa Autorità potrebbero pervenire le segnalazioni di servizi e persone circa gli affidamenti. Gli affidatari hanno gli stessi doveri e facoltà (mantenere, istruire, educare,cura della salute per gli aspetti ordinari, rapporti con le autorità scolastiche) degli affidatari interni, con l’estensione espressa all’affidamento internazionale in corso in Italia delle norme dell’affidamento interno consensuale. Lo Stato, nel determinare i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti sociali (art. 117, comma 2, lett. m della Costituzione) dispone che le Regioni,che hanno competenza generale per l’assistenza (art. 117, comma 4, Costituzione), verifichino la capacità degli affidatari e – una volta che il bambino è venuto in Italia assicurino la vigilanza e il sostegno come per l’affidamento familiare interno. Su altri punti è necessario aprire un confronto.

Anzitutto, quando l’affidamento familiare internazionale avviene nello Stato di origine per un bambino che risiede ancora lì, a procedervi e ad autorizzarlo deve essere l’autorità competente di quello Stato. Abbiamo però, nel panorama internazionale, degli Stati che non conoscono l’istituto giuridico dell’affidamento familiare e, in questi casi, occorrono degli accordi per prevedere una valutazione e un consenso di organi pubblici sul fatto che il minore possa andare in affidamento familiare in Italia presso una famiglia italiana. Appare perciò impensabile, anche per i rischi che si crei un mercato sotterraneo dei bambini, che i genitori stranieri possano procedere direttamente all’affidamento familiare prestando il loro consenso dinanzi agli uffici consolari italiani all’estero. Quali organi devono presiedere e vigilare alla gestione dell’affidamento familiare internazionale in Italia?

È necessario prevedere una Autorità amministrativa centrale e, in qualche caso, può occorrere l’intervento di un giudice, ma la gestione deve essere soprattutto sociale. L’affidamento familiare interno è un fatto sociale (e solo accessoriamente quando manchi il consenso dei genitori -un fatto giudiziario); e anche l’affidamento familiare internazionale deve essere tracciato come un fatto sociale, dove il livello giudiziario entra in gioco solo nei momenti della tutela.[….] Non è compito dei Tribunali per i minorenni o del giudice tutelare gestire direttamente gli affidamenti familiari o vigilare sul loro svolgimento mentre i servizi degli enti locali sono già cresciuti e maturi per farlo autonomamente; e solo per assicurare i diritti del minore deve riemergere la giurisdizione con la funzione propria di terzietà. Inoltre, se l’intervento del Tribunale per i minorenni prima e dopo l’adozione internazionale è una anomalia italiana che la complica con scarsa utilità, qui si allargherebbe tale intervento all’affidamento internazionale con un effetto di burocratizzazione delle procedure nel passaggio di atti fra servizi, Tribunale e Autorità centrale che autorizza gli ingressi e di ripetizione delle valutazioni. Infine, i Tribunali per i minorenni e i giudici tutelari sono già oberati da troppo lavoro e aggiungendo loro altre attività improprie che non potrebbero svolgere per un paradosso le si renderebbe solo formali. Va anche disciplinato il raccordo fra affidamento familiare internazionale ed adozione internazionale, quando successivamente maturi una condizione definitiva di distacco del bambino dalla famiglia di origine e appaia opportuno che egli rimanga stabilmente nella famiglia affidataria. È indubbio che l’affidamento familiare internazionale non deve diventare, accanto ai soggiorni solidaristici, un secondo canale di accaparramento dei bambini (non restituiti alla scadenza dell’affidamento) per l’adozione. E tuttavia non basta proibire l’adozione a chi ha un bambino in affidamento, perché il bambino può avere bisogno, quando è abbandonato, proprio della accoglienza da parte di quella famiglia con cui ha già un legame. La questione vera è che ogni decisione su eventuali percorsi adottivi deve essere presa solo dalle autorità del Paese di origine, con la collaborazione dell’autorità centrale italiana.

La questione più particolare degli affidamenti familiari internazionali per motivi di studio trova un punto di riferimento – quanto all’età dei minori che possono fare ingresso in Italia per motivi di studio – in una normativa recentissima. Come è noto, fino a ieri l’ingresso di minori stranieri per motivi di studio avveniva nell’ambito di programmi di scambio approvati (art. 44 bis comma 2 lett. b del Regolamento di attuazione n. 33/2004). Il decreto legislativo n. 154 del 10 agosto2007, recependo la direttiva comunitaria 2004/114/CE, ha introdotto nel T.U. sull’immigrazione n. 286/1998 l’art. 39 bis che prevede: “1. È consentito l’ingresso e il soggiorno per motivi di studio, secondo le modalità stabilite nel regolamento di attuazione, dei cittadini stranieri: a) omissis b) ammessi a frequentare corsi di formazione professionale e tirocini formativi nell’ambito del contingente annuale stabilito con decreto del Ministro della solidarietà sociale, di concerto con i Ministri dell’interno e degli affari esteri, sentitala Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, di cui al decreto legislativo 29 agosto 1997, n. 281; c) minori di età non inferiore a quindici anni in presenza di adeguate forme di tutela; d) minori di età non inferiore a quattordici anni che partecipano a programmi di scambio o di iniziative culturali approvati dal Ministero degli affari esteri, dal Ministero della pubblica istruzione, dal Ministero dell’Università e della ricerca o dal Ministero per i beni e le attività culturali per la frequenza di corsi di studio presso istituti e scuole secondarie nazionali statali o paritarie o presso istituzioni accademiche”.

Al di là del burocratese della sua scrittura, la norma indica che i ragazzi stranieri per entrare in Italia per motivi di studio devono avere almeno quattordici anni se partecipano a programmi di scambio o iniziative per la frequenza di scuole regolari, qualsiasi età se entrano a fare parte dei contingenti annuali degli ammessi a frequentare corsi di formazione professionale e tirocini formativi, quindici anni per gli altri casi non specificati fra i quali sembrano rientrare gli affidamenti ad una famiglia italiana per imparare la nostra lingua. Solo per i quindicenni si specifica che si deve essere “in presenza di adeguate forme di tutela” che invece, a maggior ragione, devono essere richieste per i quattordicenni e, comunque, per ogni soggetto minore di età; anche se il legislatore pare soprattutto preoccupato che ci siano “adeguate forme di tutela” per i giovani che non abbiano un programma di studio o di formazione definito e controllato, dato che il motivo di studio addotto genericamente potrebbe mascherare altre finalità inconfessabili.

La questione vera è però quali possono essere le “adeguate forme di tutela”,locuzione atecnica che sembra non riferirsi all’istituto della tutela dei minori ma più genericamente alla preventiva dimostrazione che, in Italia, il minore godrà di adeguata accoglienza. Dove e come vive – infatti -un minorenne straniero che viene in Italia senza i suoi genitori per studiare, chi lo rappresenta, chi ne ha cura, chi esercita le responsabilità paragenitoriali per lui? Si può ritenere allora che egli, lungo il tempo degli studi in cui rimane in Italia da solo (ritornando – come solitamente avviene -in famiglia nel suo Stato per le vacanze), deve trovare la “adeguata forma di tutela” nell’accoglienza in una comunità di tipo familiare (non essendoci più gli istituti per minori) o in una famiglia affidataria: i legali rappresentanti della comunità esercitano i poteri tutelari sul minore affidato ex art. 3, comma 1, legge n. 184/1983, gli affidatari hanno i poteri paragenitoriali indicati dall’art. 5, comma 1, legge n.184/1983. Il fatto che la nuova norma inserita nel T.U sull’immigrazione sia così evanescente su questi aspetti induce ancora di più ad augurarsi che presto l’affidamento familiare internazionale per motivi di studio trovi nel quadro dell’affidamento familiare internazionale una disciplina, che regoli le forme di rappresentanza e cura del minore ed eviti che, come talvolta avvenuto, ingressi per motivi di studio siano in realtà finalizzati allo sfruttamento della prostituzione o all’utilizzo del minore per lo svolgimento di attività criminose.

Una disciplina particolare va ripensata anche per i soggiorni solidaristici, nati per assicurare il diritto alla salute ai minori di alcuni Stati che avevano subito gravi calamità ambientali (Bielorussia e Ucraina) e che rappresentano per tali bambini in aggiunta una occasione di stimolo culturale e di apprendimento linguistico. Si tratta di affidamenti familiari atipici, sia per la durata (di norma brevissima), sia per la motivazione (che non è quasi mai la temporanea incapacità della famiglia di origine),sia per la necessità (si potrebbero, in alcuni casi, disporre a famiglie dello stesso Stato, che vivano in un’altra area non contaminata). Dopo un periodo ormai lungo di pratica – sui cui effetti manca ancora un monitoraggio un po’ampio.-questi soggiorni oggi vanno ripensati nelle loro finalità accertando se la motivazione di garantire ai bambini il diritto alla salute (risanamento e cura) non debba portare ad un loro allargamento ai bambini di altri Paesi che vivono calamità ambientali molto più gravi,ad esempio il Kosovo e l’Irak i cui territori sono gravemente contaminati dalla presenza di tonnellate di proiettili contenenti uranio impoverito (Depleted uranium,DU) usati dalle forze armate americane nel corso delle guerre, che causano ai bambini anomalie genetiche, leucemie, danni alle ossa e al sistema immunitario, e se non si debba rivolgere l’attenzione anche ai bambini dei Paesi più poveri del pianeta o che crescono in condizioni sociali o ambientali gravemente sfavorevoli o di denutrizione.

Pur con questi interrogativi, l’esperienza dei soggiorni solidaristici va riconosciuta come positiva espressione di una società solidale che offre a dei minori una esperienza di soggiorno di indubbio valore di crescita. A fronte di alcuni fatti gravi in cui alcune famiglie hanno pensato di potere trattenere il bambino accolto prendendolo in adozione, deve riconoscersi che la stragrande maggioranza delle famiglie svolge bene un compito di accoglienza estremamente importante. Occorre tuttavia ripensare, quanto all’età, con un monitoraggio attento dei casi, che per un certo aspetto i soggiorni sono dannosi per i bambini più piccoli,allontanati dalla famiglia per un periodo per loro lungo, mentre per i ragazzi più grandicelli prevale la considerazione dell’importanza di acquisizione di esperienze nuove: in linea di massima, dovrebbero perciò in futuro essere ammessi solo minori che abbiano compiuto almeno i dieci anni.

Ai fini di impedire ogni possibile abuso appare inoltre indispensabile: -attribuire nel corso dei soggiorni l’incarico del sostegno e della vigilanza ai servizi dell’ente locale, come per ogni affidamento familiare; -responsabilizzare gli Stati di origine sulla scelta dei bambini da inviare; -prevedere che le associazioni che organizzano e gestiscono i soggiorni non abbiano fini di lucro. Destano invece perplessità per i pesi che caricherebbero, venendo a burocratizzare un fenomeno molto spontaneo e, per questo, vivo, e per la palese inutilità -stante la durata breve e la natura particolare dei soggiorni solidaristici – alcune proposte che prevedono la creazione di un albo (l’ennesimo) delle associazioni autorizzate all’organizzazione e alla gestione, l’obbligo di comunicazioni di ogni arrivo di un minore alla giustizia minorile (che non può avere un compito di polizia e non è in condizione di gestire tali comunicazioni), una certificazione preventiva della idoneità delle famiglie accoglienti da parte della giustizia minorile mentre ciò è compito dei servizi, una definizione legislativa rigorosa dei requisiti delle famiglie che invece deve essere valutata in concreto dai servizi. È importante soprattutto spostare gli affidamenti solidali dalla attuale zona franca nell’area ordinaria di vigilanza e sostegno dei servizi del territorio. Se gli affidatari lo sanno e se i servizi assumono con effettività questo compito, gli inconvenienti e gli abusi che in alcuni casi si sono verificati potrebbero essere ridotti e, soprattutto, può migliorare la qualità dei soggiorni.

tratto da: http://www.arcaservigliano.it/

Piercarlo Pazé
Già Procuratore della Repubblica
presso il Tribunale per i Minorenni di Torino

Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

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