Storia di una ferita dell’anima

“Mio marito mi convinse che senza di lui non sarei diventata forte, ad alto livello. Lui solo era il più forte degli allenatori. Accettai, perciò, che mi allenasse per fare questa scalata nel mondo dello sport e nella mia vita. Ma per compensare le voragini affettive, ormai ero pienamente entrata nel vortice dell’anoressia e della bulimia”

Avevo poco più di dieci anni, era inverno, faceva freddo, ma il sole di quel giorno mi avrebbe segnato per sempre. Nella carne e nell’animo, come un marchio a fuoco: qualcuno aveva deciso, per un motivo folle o per nessun motivo, di farmi crescere subito. Un uomo infermale: Vieni. Ti riscaldo le mani, sei tutta fredda». Da quel momento la mia vita si fece pesante. Eppure mai mi venne in mente di liberarmi da quel peso. Avevo paura di passare per una bambina cattiva. Da allora ho attraversato tutti i miei anni sforzandomi di dare di me un’immagine perfetta e ricercando il modo per poter dimostrare quanto ero brava.
Avevo quarant’anni quando mi decisi a tirare fuori questa storia. Lo feci con una psicologa. Il black out è dovuto alla perversione di uno zio. Lo zio che rappresenta l’uomo nero con sfondo sessuale: imprevisto, incomprensibile, cattivo. Cresco, e di pari passo crescono le problematiche che derivano dalle oscenità subite.

Da adolescente sognavo di diventare molto brava. Nello sport. Sarei diventata un’atleta, ma di quelle vincenti. Lo giurai a me stessa. Lo giurai a mio padre. Tenni fede al giuramento. Avevo dentro una grande passione, l’atletica leggera e le Olimpiadi. Ma ero diventata piuttosto rotonda e con lo sport questo non va molto d’accordo. Mi venne una malattia piuttosto grave e stetti ferma per sei mesi: dimagrii, ben dieci chili. Così iniziai a somigliare ad un’atleta e trovai parecchi consensi intorno a me. Poi, la svolta, perché ebbi un incidente e un intervento. Per fare la riabilitazione mi misi a marciare. Mi innamorai in modo sensazionale di questa disciplina. Feci il record italiano sui tremila metri. Ebbi il mio primo articolo sul giornale e un po’ di considerazione. Un giorno vado a vedere una gara a Milano. Vince una svizzera e mi dico: «La batterò». A casa dichiarai che sarei passata alla marcia. Mio marito, mi disse con tono di chi non ammette repliche: «No, sei matta, non arriverai da nessuna parte!» Una mattina arrivò a casa accompagnato da un’altra. Se ne andarono e io corsi in bagno a vomitare la mia amarezza e non solo. Lo facevo da un po’, mi aiutava a star meglio.

Quando avevo problemi con mio marito bastava rimpinzarmi, poi svuotarmi e tutto assumeva più leggerezza. Nel giugno 1979 faccio la prima gara e frantumo il record italiano, ne segue subito un altro sui cinque chilometri. Partecipai alla Coppa del Mondo ed erano soltanto quattro mesi che mi cimentavo con la marcia: arrivai diciottesima. Mio marito mi convinse che senza di lui non sarei diventata forte, ad alto livello. Lui solo era il più forte degli allenatori. Accettai, perciò, che mi allenasse per fare questa scalata nel mondo dello sport e nella mia vita. Ma per compensare le voragini affettive, ormai ero pienamente entrata nel vortice dell’anoressia e della bulimia. Ai campionati italiani arrivo prima. Finalmente sono qualcosa, valgo. Segue un record del mondo battuto sui tre chilometri. Ci metto l’anima nel preparare i miei primi Campionati del Mondo e alla fine sono Campionessa del Mondo con il record italiano. Penso che neppure la vittoria possa regalarmi il calore di un uomo troppo vuoto, che pensa solo agli affari suoi, a maltrattarmi troppe volte, al punto di farmi stare talmente male da non avere più voglia di vivere una vita vera.

Mi piace la bici. Un inverno intero ho dedicato tutte le mie energie mentali e fisiche per prepararmi a vincere i mondiali del 2000. Siamo alla mattina della corsa. Faccio colazione in un albergo di lusso, pagato (almeno così credevo) dal mio presidente nonché consigliere federale che mi ha anche portato una fiala. Mi dice: «Ti farà andare forte». L’ha avuta da un allenatore, un ex atleta, uno forte insomma, che se ne intende. è la prima volta che prendo qualcosa di proibito. E il doping me lo passa proprio lui, il dirigente di una federazione che fa della lotta al doping un fiore all’occhiello. «Sentirai un po’ di bruciore. Ma poi passa, e allora vedrai…» A cosa penso mentre sento il bruciore salirmi alle tempie? Per un attimo mi viene paura. Paura che svanisce con il bruciore. L’iniezione, comunque, mi fa male. Anche se il dolore, forse, è solo nella mia mente. Non finisco la gara. Mi vengono dei crampi micidiali alle cosce, ogni volta che provo a rialzarmi sui pedali vado a planare sulla sella. Mi fermo. Prendo la mia bellissima bici, la butto nel canale che costeggia la strada. Si graffia un po’. Beata lei, che si è graffiata solo un po’. Io invece sento una grande ferita dentro. So che avrei potuto vincerlo, quel campionato. O anche perderlo, ma in ogni caso sarei arrivata al traguardo. E arrivare senza quella “zozza” puntura sarebbe stato comunque un successo. Scopro un mondo che mai avrei immaginato.

Far risultare negativo l’antidoping quando fai uso di doping? Non c’è bisogno di una maestria particolare. Il Consigliere mi diceva che il GH non si sarebbe mai “visto” e tanto meno l’EPO. Io poi ero anemica, e il mio ematocrito poteva passare da 36 a 42-43. “Volavo” e risultavo pulita. Fino a quando non mi sono fatta l’antidoping da sola, con la mia coscienza. Mi sono punita e pulita da sola. Per dare un aiuto a me stessa, ma anche ai nostri figli, a tutti i giovani. Parole quali depressione, tumori, dipendenza, infarto possono diventare realtà per quanti si dopano. Inutile pensare «tanto a me non accade», più stupido ancora non pensare affatto. Tumore? Ma che dici? Mi disintossico, faccio le flebo, prendo vitamine, integratori. E poi, hai visto che fisico? Ho visto. Perciò, perché prendi l’EPO se non sei malato? L’EPO serve, certo. Ma solo a chi è gravemente malato. E ancora, perché prendi l’ormone della crescita? Sei un nano?

Sono alta un metro e sessantotto. Eppure ho preso il GH, l’ormone della crescita. Per poco tempo, d’accordo. Sufficiente, tuttavia, a farmi ammalare? Una domanda senza risposta. Come tante altre. Domande di atleti malati, o addirittura morti, senza che il loro dubbio fosse fugato. Destino? O doping? Impossibile sapere. Impossibile conoscere gli effetti provocati dall’abuso di farmaci (Dosi da cavallo!) da parte di persone sane: gli effetti di ogni medicinale vengono testati in base a dosaggi equilibrati e soprattutto terapeutici. Senza contare che il doping è un veleno subdolo: può ucciderti a distanza di anni. Il doping può provocare anche altri mali. Striscianti, subdoli, bastardi. Gravi. Non ti condannano a morte. Ti condannano a vivere: potresti svegliarti, una mattina, con un senso di angoscia che ti attanaglia lo stomaco; inizi a sentirti inutile, non sai più cosa vuoi. Eppure hai tutto, no? Una famiglia, la salute (a volte), i soldi (qualcuno)… Eppure non ti senti. Bene? Male? Non ti senti. E basta. E alla fine crolli. Sei depresso. Stai male. Ma gli altri non lo vedono: non sei malato. Sei solo scontento. Viziato? Ma che depressione e depressione! Sei un atleta, perbacco. Un vincente. I depressi sono dei deboli. Eppure il doping può lasciarti anche questo regalo, la depressione. Duro sconfiggerla, riconoscerla, ammettere di averla è già un successo. Io ci sono passata. L’ho capito solo dopo, quando la mia testa ha ripreso finalmente a ragionare. Ho preso ancora medicine. Questa volta, però, in dosi previste e prescritte. E soprattutto con uno scopo “normale”, per guarire da una malattia. Ora mi sembra di vivere, combattere, ammirare le cose semplici. Mi piace dire e capire la parola amore nel suo significato vero: amore per i miei cari, per me stessa, per un ideale in cui credo.

Esiste un glossario del doping: «Ho la marmellata al posto del sangue», «Va come una moto», «Lo stregone, cioè un medico che elargisce doping come l’acqua quando si muore di sete e usa gli atleti “come carta igienica negli hotel di lusso”», «Quello è carico e vedrai che quest’anno vince i mondiali». Ma come si arriva a convincersi che doparsi va bene? Come è possibile tendere una mano e stringerla intorno a una fiala per spedirne il liquido nel nostro corpo? Come non capire che quel liquido, una volta dentro al nostro organismo, prima o poi esploderà come una bomba a orologeria e farà danni irreparabili? Spesso non si crede che succederà “proprio a noi”. Altre volte si vince la paura perché il risultato, ad ogni costo, è più importante di una sconfitta. E comunque nessuno ti dice mai: «Guarda che se prendi questa roba puoi morire». Parlare di “cure” anziché di doping crea confusione. Anche se in realtà sai ciò che fai. Ma quelle cure ti seducono anche se sono una minaccia che ti annienta, paralizza, uccide. Lì per lì, però, la fatica svanisce nel nulla e credi di aver vinto. Ma è a quel punto che, proprio quando meno te lo aspetti, quando ormai credi di aver evitato tutti i divieti che la natura ti ordina, si chiude per sempre il passaggio a livello della sopportazione del tuo fisico: ti ammali.

A quel punto vorresti tornare indietro, vorresti non subire questa “punizione”, ma ormai è tardi, puoi solo sperare che ti vada bene. Puoi andare avanti il più in fretta possibile, senza mai voltarti perché potresti inciampare e potrebbe essere fatale. Un giorno, di ritorno da un allenamento, passo davanti a una chiesetta. La vedo, ma non la guardo. Non posso fare a meno, però, di sentire i rintocchi delle campane. Suonano a morto. Rintoccano e rimbombano, prima nella testa e poi giù, fino al cuore, quasi a carpirne il ritmo. Sono viva ma in realtà sono morta. Come donna. La Giuliana di una volta è morta. Cerco di cacciare dal mio cuore il suono delle campane. Questa è l’onnipotenza dell’atleta, ti senti forte, sempre e comunque. Ma sei vulnerabile, e in fondo lo sai. Non si può essere forti quando ci si abbassa a compromessi così meschini. Si è forti quando quelle fiale le butti nel secchio, quando accetti di perdere. «Voglio uscire allo scoperto. Denunciare me stessa. E denunciare il doping». Mio figlio ha quattordici anni. Ama il calcio e una madre che ha fatto tanti sbagli. Tutti errori che lui ha dovuto subire. Scusami Barnaba.

Giuliana Salce
Campionessa mondiale di marcia, record mondiale
di marcia sui 5 Km. Autrice del libro “Dalla vita in giù”
una battaglia contro il doping, una battaglia per la vita

Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

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