La farmacomania sportiva

Il fondatore e direttore dell’Istituto di ricerca farmacologica “Mario Negri” di Milano riflette su cause e implicazioni del fenomeno

L’atleta moderno è sempre più ossessionato dal primato e dalla prestazione al di là dei limiti umani. Questo risulta particolarmente vero per l’atleta professionista, continuamente spinto a superarsi, incalzato com’è dalla pressione dei media e degli sponsor. Per rispondere a esigenze di questo tipo, la preparazione dello sportivo ha dovuto raggiungere un grado di professionalità e scientificità sconosciuto nel passato. E, in questo contesto, lo sport è arrivato a chiedere, sempre più di frequente, aiuto alla medicina, nel tentativo di superare barriere e infrangere record fino a ieri considerati insormontabili. Se a ciò si aggiunge che viviamo in una società “farmacocentrica”, tesa a trovare soluzioni nei farmaci anche per i problemi che nulla hanno a che fare con la medicina, apparirà chiaro che il fenomeno doping non sia altro che un particolare aspetto di questa “farmacomania”. Ma, in campo sportivo, la “farmacomania” acquista un significato particolare: appellandosi a essa, l’atleta infrange una legge fondamentale dello sport, la lealtà. Cercare, in una gara sportiva, di ottenere vantaggi con metodi non ammessi, significa falsare il risultato, anche quando il risultato sperato non è raggiunto. Si tratta, quindi, di stabilire fino a che punto l’intervento medico sia lecito e quando, invece, esso superi i limiti imposti dall’etica professionale e sportiva. La medicina, per sua stessa natura, dovrebbe limitarsi a svolgere un’azione nell’ambito della prevenzione e della cura delle malattie.

In campo sportivo, l’utilizzo di pratiche mediche dovrebbe essere limitato alla prevenzione degli infortuni e di eventuali stati patologici, conseguenza dell’attività agonistica, al controllo dietetico e nutrizionale, oltre che al controllo dello stato di salute psico-fisico dell’atleta. L’atleta è un individuo sano, anche se a rischio di sviluppo di patologia acuta o cronica, conseguente alla sua attività. In quest’ottica, ritengo che la medicina, intesa come pratica in grado di alterare le risposte fisiopatologiche dell’individuo, non si debba occupare di favorire la prestazione in altro modo che ottimizzando nutrizione e metodiche di allenamento. Ritengo, quindi, che il doping, in senso lato, comprenda qualsiasi manovra medica, attuata sull’atleta, che non rientri nei limiti sopra indicati. In questa accezione, il dopingacquista un significato più ampio di quello attribuitogli dal Comitato internazionale olimpico (Cio). Non si riduce alla “somministrazione o uso di qualsiasi sostanza fisiologica assunta in quantità anormale o introdotta nell’organismo per via anormale, con la sola intenzione di aumentare, in maniera artificiale o sleale, la prestazione durante la gara”(Drug and Ther. Bull., 1987).

Il medico sportivo che somministri farmaci e attui pratiche, semplicemente per accrescere le potenzialità dell’atleta, qualora non lo richieda una situazione patologica, compie un atto che non esito a definire non-deontologico. Infatti, qualsiasi scelta in medicina dev’essere valutata nei termini del rapporto tra beneficio apportato alla salute dell’individuo e rischio che comporta per lo stesso. Quand’anche il rischio implicato fosse noto – e spesso non lo è appieno – è chiaro che il beneficio delle manovre dopanti è nullo, per quanto riguarda la salute dell’atleta. Non solo. C’è un altro concetto che lo sportivo dovrebbe tenere ben presente e cioè che il vantaggio ricercato assumendo doping, in termini di prestazione, è spesso puramente ipotetico. Nella grande maggioranza dei casi non esistono studi seri e documentati, che attestino l’efficacia delle sostanze considerate doping nel migliorare il rendimento agonistico dell’atleta. Quindi, abbiamo un doping rischioso in termini di salute, indipendentemente dai normali effetti collaterali associati all’assunzione di una determinata sostanza, e dubbio quanto a beneficio in gara. Questo dovrebbe bastare a scoraggiare l’assunzione di sostanze dopanti. A determinarne il divieto d’assunzione. In effetti, il Comitato internazionale olimpico ha stilato una lista di sostanze e pratiche mediche proibite, d’abuso. A questo punto, però, vorrei rimarcare il fatto che il divieto di far uso di doping ha anche natura etica. L’atleta che lo viola compie un atto sleale, indipendentemente dal fatto che il giovamento in termini di prestazione sportiva sia effettivo, dubbio o, addirittura, inesistente.

Ritengo che lo sport debba ancora sottostare ad alcuni principi generali, tanto in ambito dilettantistico, quanto in ambito professionistico. Fintanto che lo sport è sport e non spettacolo, la lealtà nella competizione rappresenta uno dei più importanti di tali principi. Quando il calcio, l’atletica, il ciclismo e altre discipline sportive, maggiori e minori, saranno equiparati a qualsiasi altra performance artistica, allora tutto sarà lecito, ferma restando la condizione di non ledere la salute del protagonista. Per tutte queste ragioni auspico che l’uso di qualsiasi sostanza farmacologicamente attiva e qualsiasi pratica medica, atta a migliorare la prestazione dell’atleta (eccezion fatta – lo sottolineo – per la possibilità d’intervento nell’ambito nutrizionale e delle metodiche di allenamento), venga bandito, indipendentemente dal fatto che esse si trovino o meno all’interno delle liste di proscrizione del Cio o di altre federazioni. Tali liste, infatti, sono costruite sulla base del fatto che tracce di sostanze doping possano essere individuate con appositi test. Non comprendono, pertanto, tutta una serie di sostanze, non perchè queste non possano causare problemi a livello di salute, ma piuttosto per l’assenza di una metodologia che sia in grado di determinarne la presenza. È, dunque, lecito giustificare l’atleta che utilizza sostanze farmacologicamente attive, unicamente perchè queste non sono presenti nelle liste dei composti proibiti? A mio parere, la risposta è no. Addirittura, senza voler estremizzare il problema, ci sarebbe da chiedersi anche se sia giusto che un atleta partecipi a una gara in condizioni fisiche menomate dopo assunzione di sostanze in grado di curare la sintomatologia e non proibite dalla legge.

Penso agli atleti colpiti da malanni muscolari, ossei o articolari, che partecipano a competizioni dopo la somministarzione di sostanze anestetiche, oppure agli atleti che entrano in gara in stato influenzale o febbrile. Anche in questi casi si sottopone il soggetto trattato a un rischio di malanni peggiori di quelli iniziali: unicamente per consentirgli di partecipare alla gara, si ignora la loro situazione fisica non ottimale. In situazioni come queste, il margine tra il lecito e il rischioso può essere molto tenue. È giunto il momento che il medico sportivo e l’atleta comincino a riflettere. Stroncare la piaga del doping è certamente una questione di controllo da parte delle autorità preposte ma è anche soprattutto una questione culturale e di divulgazione dell’informazione. Viviamo infatti in una società in cui – come ho accennato all’inizio – sin dalla più tenera età, si insegna all’individuo a credere che ogni problema possa essere risolto dall’utilizzo di farmaci. Così, nella vita di tutti i giorni, sviluppiamo lo stesso tipo di mentalità che, nello sportivo, sta alla base del ricorso alla sostanza dopante. La tentazione è quella di ricorrere al miracolo medico o farmacologico. Ed è compito delle varie componenti della società sportiva, non del solo medico sportivo, mettere l’atleta in guardia dai rischi associati a un tale atteggiamento. Questo richiede un livello di educazione e di professionalità sempre più alti.

Silvio Garattini
Fondatore e direttore dell’Istituto di ricerca farmacologica “Mario Negri” di Milano

Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

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