L’esempio di Mazara del Vallo

In questa cittadina si sperimenta da trent’anni un esempio di pacifica convivenza nel quale trovano posto i diritti di cittadinanza tanto della popolazione locale, mai giunta alla ribalta delle cronaca per episodi di insofferenza, quanto della piccola comunità immigrata.

La presenza di popolazioni, individui e famiglie, di fede musulmana non rappresenta una novità nella pur recente storia di immigrazione del nostro paese. Al contrario, è proprio una piccola comunità musulmana ad aver costituito uno dei primi nuclei di immigrati in Italia, quello dei pescatori tunisini insediatisi fin dai primi anni ’80 a Mazara del Vallo, sulla costa meridionale della Sicilia. In quella cittadina si sperimenta a tutt’oggi un esempio di coabitazione nel quale trovano posto i diritti di cittadinanza tanto della popolazione locale, mai giunta alla ribalta delle cronaca per episodi di insofferenza, quanto della piccola comunità immigrata, che dispone di una scuola in arabo per i bambini e di un piccolo centro culturale e religioso messi a disposizione dal governo tunisino. Ricordare l’esistenza di questa pacifica convivenza ormai trentennale è utile, in un contesto come quello attuale in cui gli echi della guerra al terrorismo e il sensazionalismo dei mass media sembrano puntare sempre più alla costruzione di un clima di diffidenza, timore o anche di aperta ostilità verso la componente musulmana dell’immigrazione.
A questo riguardo, le semplificazioni operate nel linguaggio e nelle definizioni sono sorprendenti, e mirano il più delle volte alla costruzione di un’immagine irreale dell’immigrato musulmano, che viene chiamato a rivestire il ruolo dell’”altro”, per opposizione a un “noi” rassicurante, di colui che canalizza le paure e le insicurezze di una società in rapida trasformazione. La prima delle semplificazioni risiede nella definizione stessa di una immigrazione musulmana come un insieme omogeneo. Dietro la recente stima di circa 919.000 immigrati di fede islamica dobbiamo considerare un mondo fatto di tante differenze. In primo luogo di nazionalità: le provenienze più consistenti sono quelle dal Marocco e dall’Albania, seguiti da Tunisia, Egitto e Algeria, poi da Senegal, Pakistan e Bangladesh, Nigeria e Turchia. Quindi continenti diversi, culture diverse, differenti tradizioni e abitudini, anche nel vivere e trasmettere l’appartenenza religiosa.
Altra differenziazione importante è quella demografica, che impone una distinzione tra chi è giunto con un proprio bagaglio culturale e religioso “importato” e chi è nato e cresce sviluppando la propria fede e la propria identità all’interno di un paese al tempo stesso laico e cattolico. Si stima che i giovani siano oggi circa 300.000, di cui la metà nati o secolarizzati in Italia. Tra i musulmani dobbiamo poi considerare una crescente presenza di cittadini italiani: per naturalizzazione, nel caso di chi era immigrato, o perché convertiti, ad attestare una caratterizzazione sempre più autoctona dell’islam che in questi anni si sta sviluppando nel paese. E inoltre altre differenze riguardano naturalmente il genere, le condizioni socioeconomiche, i contesti di origine, oltre che, fondamentale, il significato che ognuno attribuisce alla propria appartenenza religiosa. Tutte queste differenziazioni, ovvero l’insieme delle caratteristiche peculiari dell’individuo, vengono troppo spesso ignorate in favore di una definizione che rimanda al solo dato della fede di appartenenza. Questa diventa allora un’etichetta che precede, com’è caratteristica dei pre-giudizi, la costruzione di una relazione fatta di conoscenza, di interesse, di rispetto reciproco. Ovvero il tipo di relazione che è alla base della costruzione di quell’integrazione che viene così spesso evocata come responsabilità quasi unicamente a carico della componente immigrata. Nel dibattito sulle politiche di integrazione è invece ormai acquisita l’evidenza di come gran parte delle barriere di accesso degli immigrati ai diritti di cittadinanza sia causata da varie forme di discriminazione istituzionale.
Questo discorso naturalmente si amplifica in relazione a una popolazione definita principalmente per la propria appartenenza religiosa, con tutte le connotazioni negative che a questa vengono associate: dal fondamentalismo all’incompatibilità con i valori democratici, dall’idea dello scontro di civiltà a quella della sottomissione della donna. Il rischio è quello della profezia che si autorealizza ovvero, come è già accaduto in altri paesi europei, della chiusura sulle proprie identità dei soggetti che sono vittime di stigma sociale e quindi della crescente difficoltà nella costruzione di una comunicazione tra le diverse componenti della nostra società. Un contesto quale quello italiano, carente di modelli di integrazione preconfezionati e ricco al contrario di tante diverse declinazioni locali di convivenza multiculturale, ha la possibilità di evitare tali forme di chiusura. A condizione di far valere la reciprocità del rispetto delle regole del vivere insieme, che comprendono il riconoscimento, tra le altre cose, anche dell’espressione della libertà religiosa e dell’identità culturale.

Giuliana Candia
Ricercatrice Associazione Parsec ricerca e interventi sociali

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