Anche il cattivo muore di fame

I Janjaweeed sono i predoni che uccidono la popolazione darfuriana, ma dietro ci sono da un lato spietati governanti che hanno sfruttato la mobilità e le doti guerriere di queste tribù nomadi alimentando l’odio razziale e dall’altro famiglie discriminate che muoiono di fame e di sete. Bambini che non possono essere curati perché troppo poveri e perché simbolo di una guerra civile che divide le coscienze

 Non è facile descrivere la situazione dei diritti umani in Darfur: in primo luogo perché è complicato identificare i soggetti che godono di tali diritti i soggetti che li violano. La distinzione è labile e non sempre è facile puntare il dito contro un gruppo, un etnia.

 E’ opportuno ricordare che il Darfur è figlio di un instabilità politica che dura da trent’anni e che ha visto contrapposti il Sud prevalentemente animista cristiano africano e il Nord arabo islamico, oltre alle questioni, tutt’ora irrisolte, che vedono il governo centrale di Khartoum confrontarsi con i focolai di ribellione che, dalle montagne Nuba sono approdati fino all’instabile confine con l’Eritrea e l’Etiopia.

Molto spesso pensando alla violazione dei diritti umani in Darfur, si pensa giustamente alla popolazione FUR, popolazione che subisce la violenza e le razzie dei Janjaweed, predoni di etnia araba finanziati da un Governo che mira ad una perpetua e continua destabilizzazione del Paese al fine di creare disordine in uno Stato ricco di risorse naturali. Predoni che scorrazzano nel deserto a dorso di cammelli, armati di fucili e machete: per conto del Governo di Kartoum assaltano i villaggi, ammazzano gli uomini e violentano le donne, rapiscono i bambini e poi, dopo aver saccheggiato tutto, incendiano le capanne, costringendo  gli abitanti dei villaggi a sfollare dalla propria casa e a cercare riparo in uno dei numerosi campi profughi presenti nel Grande Darfur.

Cosa dire di queste famiglie che hanno perso tutto? Casa, parenti, amici, e speranza di una vita migliore? Si può parlare di diritti umani “al plurale” per queste persone a cui non viene nemmeno riconosciuto il Diritto alla Vita? A cui non vengono riconosciuti i diritti fondamentali per la sopravvivenza?

Sarebbe facile dall’altro canto identificare i Janjaweed come il nemico, come coloro i quali violano sistematicamente i diritti umani. In parte ciò corrisponde al vero, ma dall’altra parte, quattordici mesi in Darfur, mi hanno fatto comprendere che le situazione che apparentemente appaiono ovvie e chiare nella loro definizione, non sempre lo sono nella loro attuazione. E’ vero, i Janjaweeed sono i predoni che uccidono la popolazione darfuriana, ma dietro a quegli uomini a cavallo ci sono da un lato spietati governanti che hanno sfruttato la mobilità e le doti guerriere di queste tribù nomadi alimentando l’odio razziale e dall’altro lato famiglie Janlul e Rezegat che, necessitando di acqua per sopravvivere, durante i loro spostamenti si vedono costrette a sfruttare le risorse idriche della popolazione residente darfuriana.

Per decenni, c’è stata armonia tra la popolazione stanziale e la popolazione nomade: armonia che si è vista spezzare con le azioni dei politicanti di Khartoum.

Anche tra i nomadi janjaweed ci sono quindi famiglie discriminate che muoiono di fame e di sete. Bambini che non possono essere curati perché troppo poveri e perché simbolo di una guerra civile che divide le coscienze e a volte le corsie degli ospedali, laddove questi esistono. Ciò non è una giustificazione per le azioni compiute dai Predoni, non è una scusa a cui si debba ricorrere. Ma per me, Inviato Speciale del Ministero degli Affari Esteri, ciò consiste in una richiesta di aiuto.

La Cooperazione Italiana si è impegnata a sviluppare progetti di prima emergenza nel Grande Darfur: Nyala, Garba Intifada, Kidingir, Bilel, Kass, Mellit.. nomi di villaggi toccati dal conflitto dove Cooperazione ha costruito scuole, cliniche, centri di recupero post-traumatici, ospedali, e dove ha distribuito viveri per garantire la sopravvivenza dei più poveri, dei soggetti a cui tutto è stato negato. Accanto a questo grande lavoro, abbiamo voluto aiutare anche le famiglie dei ribelli e degli attori coinvolti nel conflitto: aiuto umanitario significa aiutare tutti senza discriminazioni laddove ci sia un reale bisogno.

 

Barbara Contini
Inviato speciale Ministero Affari Esteri in Sudan

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