Quando le donne scelsero di essere nella storia

Nell’intimità dei collettivi incominciammo a chiederci chi fossimo, ora che il nostro mondo era cambiato. Incominciammo ad organizzarci e lottare contro tutto ciò che rappresentava la supremazia dell’uomo per non essere più il riflesso della visione che lui aveva di noi. Ed era fondamentale l’idea che la maternità non dovesse essere più né una fatalità, né un’imposizione

Molti anni fa a Roma, nel 1974, io come molte altre donne eravamo uscite in massa dalle organizzazioni politiche e dai gruppi extraparlamentari  per partecipare e sostenere il movimento femminista.

In questa migrazione, sotto lo sguardo stupito e accusatore dei compagni, ci tenevamo strette le une alle altre in gruppi di piccoli collettivi disseminati nella città. Quando ci incontravamo formavamo una folla, diversa da qualsiasi voce del mondo, come un sommovimento tellurico, che abbandonato il grigiore della militanza, si riappropriava, era questa la parola così faticosamente raggiunta attraverso migliaia di generazioni, dei nostri colori, delle nostre voci, del nostro corpo e del nostro essere nella storia. Mani sconosciute stringevano mani sconosciute, molti legami alcuni permanenti si crearono. I nostri amici, compagni che militavano, lungi dall’essere consapevoli parlavano nondimeno di brillanti iniziative, ma ci guardavano con un misto di invidia e di preoccupazione.

Nell’intimità dei collettivi incominciammo a chiederci chi fossimo, ora che il nostro mondo era cambiato. Che fare se non organizzarci e lottare contro tutto ciò che rappresentava la supremazia dell’uomo sulla donna, e non essere più il riflesso della visione che lui aveva di noi. Le radici della nostra individualità erano profonde e sconosciute perché non ci appartenevano, gli altri le avevano coltivate al nostro posto. ” Come parlare per uscire dai loro recinti, schemi, dalle loro distinzioni ed opposizioni” (L. Irigaray). Riprendere il nostro corpo del quale, così tante volte avevamo dovuto spogliarci, per essere compagne, figlie, madri.

Ci organizzammo, tra collettivi,  in un comitato femminista più ampio, allora chiamato CRAC  (comitato romano contraccezione aborto) con l’idea, per noi fondamentale, che la maternità non dovesse essere più né una fatalità, né una imposizione. Si crearono dei consultori, spazi liberi per stare e parlare fra di noi e occuparci a pieno diritto della nostra contraccezione e dell’aborto.

Centri di informazione e discussione, dove si rompeva il silenzio sugli aborti clandestini e le narrazioni, finalmente pubbliche, trovavano uno spazio oltre gli angusti recinti della dimensione privata e della solitudine colposa. Colpa, solitudine e aborto era l’indicibile finalmente detto, che diventava consapevolezza intima e politica, dichiarazione pubblica e programma politico. Atto di ribellione e di rottura che si trasformò, mentre si diffondeva a macchia d’olio il dibattito per la legge sulla maternità e aborto, in una rete organizzativa che permettesse alle donne, che continuavano ad abortire clandestinamente e in solitudine, un percorso più economico e solidale.

C’erano i viaggi a Londra, organizzati con partenze collettive per chi poteva assentarsi qualche giorno da casa. Erano donne di età e condizioni diverse, accompagnate alle visite e nel viaggio, supportate economicamente, sostenute collettivamente da altre donne.

C’erano alcune case ospitali, per chi non poteva lasciare la città, con ambienti confortevoli e letti puliti, dove si praticava l’aborto con la tecnica dell’aspirazione, meno dolorosa e traumatica, perché sapevamo che l’aborto non doveva essere una punizione. C’era, in quegli atti un’intimità di pacata resistenza contro il mondo, c’eravamo e ci comprendevamo in una sorta di segreto istinto, come se riscoprissimo una intesa stabilita e poi dimenticata da lungo tempo.  Intanto avveniva che in qualsiasi altro luogo le donne che abortivano subivano gli effetti devastanti dell’ostentazione e della ipocrisia della clandestinità che proiettava su di loro un’immagine di se stesse incomprensibile.

Renata Aliverti
Medico psicoterapeuta
IRCCS – Istituto per l’Infanzia Burlo Garofalo

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