Una risposta per tutti i reati. Ma non per tutti

La messa alla prova del minore in vista dell’estinzione del reato: qualche istruzione per l’uso di un istituto innovativo da assumere con cautela

Da sinistra : Dr. Massimiliano Fanni Canelles, Sen Giorgio Tonini, On Marcella Lucidi, Dott. Arrigo De Pauli

L’istituto della messa alla prova (artt. 28 del D.P.R. 22.9.1988, n. 448, codice di procedura penale minorile,  e 27 del D.l.vo 28.7.1989, n. 272, norme di attuazione e di coordinamento) costituisce senza dubbio la variante di maggior spessore che il rito speciale minorile – con l’indubbia articolazione delle risposte al fatto reato, che conoscono anche il perdono e la valutazione di irrilevanza del fatto – ci propone, in piena coerenza con la filosofia globale dei diversi settori d’intervento.

Esso appare infatti coerente ad una concezione che – nell’alternativa fra l’approccio oggettivo al fatto criminoso e quello soggettivo – privilegia senz’altro quest’ultimo, non considerando il reato nella sua algida tipicità, ma prestando attenzione alle (mutevoli) varianti bio-psichiche che il soggetto minorenne può presentare.

Lo spessore della misura è sottolineato da un dato fondamentale: la sospensione  del procedimento con messa alla prova può darsi per qualsiasi tipo di reato, anche per quelli che prevedono edittalmente reclusioni lunghissime; ciò a conferma di una valutazione che non riguarda tanto l’evento criminoso quanto la personalità del minore, sì che anche ad un omicidio può conseguire per questa via un esito estintivo (beninteso dopo congruo periodo e valutazione favorevole) .

Ciò ha destato talune perplessità: perché riservare un rimedio “pesante” ma al tempo stesso completamente liberatorio per reati particolarmente gravi ed allarmanti e, parallelamente, utilizzare misure maggiormente gravatorie (il perdono non ha immediata efficacia estintiva) per eventi di gravità a volte trascurabile?

Si è risposto che a situazioni diverse vanno riservate risposte differenti (sarebbe ingiusto il contrario, assicurando il medesimo trattamento a situazioni diseguali). Se un ragazzo perfettamente integrato ha sbagliato una volta in maniera del tutto episodica, lo si potrà perdonare, non chiedergli di cambiare; se un ragazzo deviante abbia gravemente sbagliato gli si chiederà invece di cambiare, e si provvederà a dargli sostegno a questo scopo, così consentendogli di poterlo fare. Se ci riesce alla fine di un percorso non breve né facile, va premiato.

Se al minore che ha fatto ingresso nel circuito penale deve essere assicurato un sostegno continuo, se l’attenzione costante va riservata alle offerte educative, se va pur sempre ricercato un faticoso equilibrio fra sanzione e recupero  – la messa alla prova costituisce senza dubbio lo strumento  maggiormente avanzato, inibendo il contatto stesso del minore con la realtà detentiva in vista di un definitivo azzeramento del reato e della conseguente sanzione.

E’ opinione diffusa che il processo minorile costituisca già di per sé – indipendentemente dal suo esito – una vicenda significativa nella vita del minorenne e della sua famiglia, come occasione di riflessione, di ripensamento, di ridefinizione di rapporti ed obiettivi della vita e – al tempo stesso – di individuazione di risorse educative.

La stessa struttura del processo è del tutto coerente al disegno globale: il procedimento deve assumere un taglio sartoriale, adeguato alla specifica personalità ed alle concrete esigenze educative del minorenne, che deve partecipare quanto più consapevolmente  possibile alla vicenda giudiziaria che lo coinvolge.

Ciò è assicurato, dall’immediato coinvolgimento dei familiari e dei servizi, dalla particolare assistenza, psicologica e tecnica che deve essergli prestata, dal suo diritto alla spiegazione del  contenuto e delle ragioni (anche etico- sociali: art. 1, comma c.p.p.m.) della decisione.

In questo contesto la messa alla prova, per i suoi caratteri di originalità ed innovatività,  assume una consistenza del tutto particolare, in una sorta di mélange di complessità, ambizione e raffinatezza finalizzato ad uno scopo al tempo stesso altamente pedagogico ed etico, nella misura in cui non si

limita al recupero consapevole del minorenne, ma coinvolge altri vissuti (la vittima del reato, i familiari) con un respiro che supera i confini della vicenda individuale per ricadere sul sociale.

Ma proprio queste caratteristiche ne fanno un congegno di estrema delicatezza, che l’esperienza insegna soggetto a numerose varianti locali e contingenziali; ne sono stati fatti usi diversi, a volte irrazionali, a volte forzati, a volte velleitari.

L’istituto si connota per i suoi caratteri di discrezionalità (lo decide il giudice – collegiale – dell’udienza preliminare o del dibattimento) allorché la capacità non siano in discussione, sulla base di un progetto educativo adeguato alla personalità ed alla capacità del soggetto, nonché dell’ambiente familiare di riferimento, in base alle risorse presenti sul territorio.

La legge in realtà tace in ordine alla colpevolezza del ragazzo; ritengo che – sia pure per implicito – la circostanza che sulla responsabilità non si abbiano dubbi vada intesa come presupposto indefettibile, a scanso di conseguenze grottesche (impostare un percorso recuperatorio nell’incertezza che vi sia qualcosa da recuperare ) e largamente ingiusto (porre in essere interventi invasivi nella sfera esistenziale di chi potrebbe essere assolto nel merito)  

Il minorenne è affidato ai servizi minorili ministeriali anche in collaborazione con quelli territoriali per attività di osservazione, trattamento e sostegno.

Il respiro etico è assicurato all’espressa previsione dell’ultima parte del secondo comma dell’art. 28 c.p.p.m.: il giudice potrà impartire prescrizioni dirette alla riparazione delle conseguenze del reato ed a promuovere la conciliazione con la persona offesa.

Il congegno va quindi manovrato con cautela e con estrema consapevolezza.

Non sottolinerei troppo la necessità (quale presupposto prioritario) di un resipiscenza del tutto sincera; spesso il pentimento è soltanto superficiale; a volte non può non esserlo; a volte può presumersi soltanto strumentale all’ottenimento di un beneficio; a volte è soltanto espresso ma non elaborato.

Sta alla sensibilità dei giudici saper cogliere, al di là dello schermo, l’atteggiamento psicologico  veritiero; sta ad una sensibilità ancor più spiccata pronosticare un’evoluzione che muova da un’adesione soltanto formale di partenza ad una forma partecipata e sincera da conseguire proprio nel corso del processo di recupero.

Per converso vanno evitati impostazioni buoniste, ottimismi privi di oggettività, intenzionalità fideistiche: la prognosi deve essere fondata su dati obiettivi, su valutazioni meditate, né il ricorso alla messa alla prova può costituire un’alternativa scontata ogni qual volta la gravità del fatto e delle  conseguenze sanzionatorie escludano ogni altra possibilità premiale o comunque favorevole al giovane reo.

Deve ancora rilevarsi che l’iniziativa di recupero non è priva di costi: implica la disponibilità di  risorse personali ed organizzative di supporto di cui non tutte le realtà nazionali possono disporre.

Questo spiega la variabilità del ricorso all’istituto: nel nostro Distretto, la cui competenza territoriale coincide con quella della Regione (ove si registrano attualmente circa 1350 procedimenti penali pendenti a carico di persone minorenni) risultano concluse 13 procedure nel 2004 e 7 nel 2005, mentre ne sono tuttora in corso 9.

La difficoltà maggiore sta comunque nella capacità del giudice di ipotizzare un esito favorevole con riguardo a soggetti in piena evoluzione del carattere ed in via di strutturazione della personalità.

I costi organizzativi ed emozionali dell’impegno non devono tuttavia costituire fattore di deterrenza : allorché il cammino si prospetti ragionevolmente percorribile, esso va senz’altro seguito.

Le prescrizioni – come si è accennato  – vanno calibrate su misura, tenendo conto della specificità del ragazzo: va ricercata la concretezza dell’impegno (se studia, continui a  studiare; se lavora, lo faccia ancora, se non ha occupazione, la  si trovi) con intervento sulla sua vita abituale, arricchita dai correttivi ritenuti utili, ferma la necessità che il ragazzo comprenda ed accetti ciò che si progetta per e su di lui.

Il progetto ( lo si afferma ormai tradizionalmente) dev’essere ragionevole, praticabile, comprensibile; le varianti possono essere numerosissime (se vi furono fatti di droga, locali ed ambienti a rischio non vanno frequentati; se il reato fu contro il patrimonio, parte degli eventuali proventi lavorativi saranno destinati ad una famiglia in difficoltà; se vi fu violenza la corretta rappresentazione della sopraffazione biologica potrà essere raggiunta grazie ad attività di assistenza a favore di soggetti portatori di handicap; se vi fu rissa furibonda, appare utile l’impiego con  ambulanze per interventi su traumatizzati e così via).

Vanno a questo punto svolte alcune considerazioni di carattere più strettamente giuridico.

Le prescrizioni inserite nel progetto di messa alla prova si collocano nella categoria, ormai vasta, delle  conseguenze giuridiche del reato e, in particolare, delle misure alternative alla pena ; di quest’ultima non ne partecipano i caratteri ( in particolare, manca del tutto la tipicità pretesa per la sanzione criminale ), ma ne condividono il carattere lato sensu pretensivo : l’ordinamento chiede qualcosa a qualcuno, in relazione a trasgressioni accertate che comportano reazioni (ancorchè non automatiche né del tutto predeterminate).

In via del tutto generale, si osserva che le prescrizioni inserite nel programma della probation non possono ricondursi ad una situazione soggettiva passiva di obbligo : esse costituiscono piuttosto un onere, secondo il tradizionale concetto di prestazione comportamentale cui attenersi in vista del conseguimento di un certo risultato.  Diversamente da quanto avviene per le misure cautelari, la violazione comporta non già la soggezione a possibili inasprimenti ( come nell’ipotesi di cui all’art. 20, comma 3 del   del D.P.R. 22.9.1988, n.448), ma perdita della chance estintiva : il reato permarrà e ne seguirà l’ordinario percorso giudiziale ( il cui impatto risulterà aggravato dal fallimento del tentativo).

Si tratta quindi di una misura pretensiva, non  reintegratoria, nè riparatorio-risarcitoria, nè peraltro punitiva, in quanto non tende al ripristino dello status quo nè compensa sul piano patrimoniale gli effetti dell’illecito, nè ha funzioni meramente asseverative della dissuasione.

Appare quindi evidente come la duttilità e la flessibilità dei progetti d’intervento, sulla cui base si avvia e si svolge la messa alla prova, non ne consentono una riconduzione a modelli-standard : una tale plasticità permette inoltre di  scongiurare  strappi traumatici rispetto alle ordinarie abitudini di vita del minore.

Egli è tuttavia tenuto ad assoggettarsi ad una misura che si colloca pur sempre nell’ambito penale, ma  non subita passivamente bensì attivamente sperimentata, con comportamenti fattivi nell’osservanza di un impegno su cui il minore stesso ha consentito.

Si tratta, conclusivamente,  di un itinerario educativo, teso al recupero, alla responsabilizzazione, alla riabilitazione, alla socializzazione.

La rinuncia finale dello Stato alla pretesa punitiva è quindi intesa come pèndent al venir meno nel minorenne della disposizione al reato, attraverso un intervento ed un percorso ristrutturanti.

Nell’ambito del progetto vanno infatti distinte avanti tutto le modalità lato sensu ambientali, ad esso strettamente funzionali, in cui si colloca ad esempio l’inserimento comunitario ( previsto soprattutto per i soggetti privi di risorse familiari, così posti in grado di accedere alla fruizione della misura altrimenti loro inibita ).

Fra le modalità di condotta esterna, accanto alle prescrizioni comportamentali astensive, si posiziona l’attività socialmente utile ( tale anche da consentire contatti con ambienti espressivi di valori non consueti a quelli del minore) resa possibile da intese con risorse e servizi locali.

L’opzione ergoterapica si affianca quindi alle prescrizioni in positivo finalizzate all’acquisizione di gradi d’istruzione o all’apprendimento di un mestiere

Il coinvolgimento psicologico lievita in una terza categoria di modalità attuative del progetto, quelle dettate in specifica funzione riparatoria e conciliativa con le vittime del reato.

Quest’ultime non andranno tuttavia forzate: il permanere di un atteggiamento ostile e rancoroso della vittima fa regredire questa tranche del progetto ai confini con l’utopicità ed il velleitarismo: in tal caso sarà comunque utile avviare quanto meno un percorso alternativo di comprensione della sofferenza arrecata.

Infine si registrano gli interventi con finalità introiettiva, a coinvolgimento assai elevato (e ne offre esemplificazione l’ormai famosa misura biblioterapica escogitata dal Tribunale per i Minorenni dell’Aquila ( lettura di quattro libri, di cui due prescelti, con relativi riassunti ).

Lo snodo finale si connota per delicatezza ancora maggiore: il buon esito della prova va valutato con serenità ed attenzione dallo stesso collegio che ha disposto la sospensione del processo.
La decisione si baserà avanti tutto sulla verifica dell’osservanza (e del grado di osservanza) di quanto prescritto, ma più che enfatizzare i risultati, dovrà privilegiarsi la profusione delle energie e dell’impegno da parte del ragazzo in una visione complessiva dell’intero percorso, senza drammatizzare qualche difficoltà o caduta iniziale, talune inottemperanze dovendosi ritenere connaturali con il processo di crescita, in cui devono preventivarsi momenti di defaillance.

Per converso, anche in questa sede non ci si potrà affidare ad ingenuità valutative, ottimismi ad ogni costo, buonismi scriteriati.

Arrigo DE PAULI
Presidente Tribunale di Trieste

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