Se il diritto è “debole” le prime vittime sono la vita, i bambini e la famiglia

Solo il riferimento ai valori ultimi può essere la radice di una comunità che ricerca il bene comune e la giustizia per aprirsi al futuro

Come diceva Simone Weil «il radicamento è forse il bisogno più importante e più misconosciuto dell’anima umana. È tra i più difficili da definire. Mediante la sua partecipazione reale, attiva e naturale all’esistenza di una collettività che conservi vivi certi tesori del passato e certi presentimenti del futuro, l’essere umano ha una radice […] A ogni essere umano occorrono radici multiple. Ha bisogno di ricevere quasi tutta la sua vita morale, intellettuale, spirituale tramite gli ambienti cui appartiene naturalmente» (cfr. S. Weil, La prima radice. Preludio a una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano, Mondadori, 1996, Milano).

Se la radice, il legame, la partecipazione, il nutrimento sono le immagini efficaci con cui la filosofa francese descriveva i bisogni più importanti e vitali dell’essere umano, possiamo ben osservare che la nostra epoca non è stata in grado, né lo è tuttora, di garantire — soprattutto ai più indifesi, i bambini — la possibilità di nascere e crescere all’interno di un vero progetto d’amore, in cui la loro vita sia percepita e onorata come il vero e unico bene comune.

Uno dei più gravi attacchi realizzati contro i bambini è stato condotto proprio a partire dal mondo del diritto che ha cessato di essere depositario del sapere riguardante la giustizia (in cui cioè dal diritto derivavano la politica e le scelte concrete) e si è asservito alla volontà della politica stessa (quella meno attenta ai bisogni di cui parlava la Weil), diventandone cieco e sordo strumento. È così che nacquero le leggi contro la vita ed è così che vengono spesso oggi applicate le leggi riguardanti la famiglia, ad esempio quelle riguardanti l’affidamento dei figli: frammentando, separando l’essere umano indifeso dalle fonti originarie del suo nutrimento, rendendolo con ciò assolutamente privo di protezione.

Questa cosiddetta “cultura della separazione o scissione” si è espressa con un linguaggio diverso (ma stessi contenuti) nelle varie dimensioni della vita umana: come cultura della morte (per usare un termine usato da Giovanni Paolo II) nell’ambito delle leggi riguardanti la vita, come divorce culture (si veda l’omonimo saggio/scandalo della giornalista americana Barbara Dafoe Whitehead) per quanto riguarda la diffusione di massa della separazione e del divorzio a scapito di qualsiasi tentativo di mediazione tra marito e moglie, come cultura dell’altro come oggetto di consumo-usaegetta-rifiuto da scartare se non mi serve più (come hanno osservato i grandi sociologi, da Baudrillard a Bauman, che tengono al monitor da anni la nostra società e la trasposizione nelle relazioni tra esseri umani del modello antropologico proposto dalla società dei consumi).

Ma in questo scenario, che ha innumerevoli cause, quale è stato e qual è il ruolo complessivo del sistema giuridico che dovrebbe essere, per sua natura, a servizio dell’essere umano e della comunità? Come ha rilevato Giuseppe Dalla Torre, Rettore della Libera Università Maria SS. Assunta-Lumsa di Roma, dobbiamo registrare una tendenza molto marcata: quella del contrarsi della giuridicità, del ritrarsi dell’intervento serio e motivato da rigorose scelte di campo, anche morali e pedagogiche, del legislatore. Questa istanza, solitamente indicata con il termine “diritto debole”, consiste nello «intervento del legislatore avente un contenuto meramente regolamentare, che segni tempi, modi e procedure, senza avere la pretesa di toccare i principi e, quindi, di fare delle opzioni etiche» (cfr. il notevole studio di G. Dalla Torre, Le leggi contro la vita, in Pontificium Consilium Pro Familia-Pontificia Accademia Pro Vita, “Evangelium Vitae” e Diritto, Libreria Ed. Vaticana, Roma, 1997, pp. 99-119).

Evidentemente, in tempi di relativismo etico, il diritto debole, che si tiene ben lontano dal riconoscimento di principi irrinunciabili riguardanti la persona umana, sembra essere il modo migliore trovato dal legislatore per lasciare ad ogni individuo la libertà di fare e scegliere secondo il proprio credo personale e privato. In questo atteggiamento però sembra rivivere quell’antico gesto del lavarsene le mani che tanto successo ha avuto nella nostra cultura da duemila anni, e al lavarsene le mani si aggiungono il chiudere gli occhi: davanti al legislatore nessun peso ha l’ecatombe di bambini massacrati dai ferri o dai liquidi letali dell’aborto (oltre 4 milioni dal 1978); nessuna rilevanza hanno i bambini, principali vittime di situazioni familiari che potrebbero essere ricomposte attraverso un adeguato ausilio di mediazione familiare; per non parlare dei figli privati dei loro padri nei casi di separazione/affido, nonostante ormai da decenni autorevoli studiosi americani e italiani abbiano evidenziato i gravi effetti dovuti all’allontanamento dei figli dalla figura paterna.

Ogni giorno però, chi lavora nel sociale, nel volontariato, e ancor più nella scuola soffre in silenzio di fronte al dramma causato dalle conseguenze delle leggi contro la vita: vengano i Signori che combatterono per farle varare mezzo secolo fa, presentandole come conquiste sociali e progresso: vengano e vedano il disastro causato dalle leggi che in modo diseducativo insegnano che la vita umana nascente può essere calpestata, o dalle leggi che hanno fatto a pezzi la famiglia, insegnando che un marito o una moglie (un padre e una madre) possono essere mandati alla discarica e sostituiti come si fa con un’automobile… ma a dire la verità nessuno li ha mai visti questi Signori, tantomeno per parlare con un ragazzo che, interrogato sui motivi delle sue mille assenze, racconta di aver girato la provincia in cerca del padre che non vede da anni, o per incontrare la difficoltà di una madre, sola e umiliata, che è costretta, nonostante una grave malattia, a trovarsi un lavoro in più per acquistare i libri di scuola al figlio, al quale il comune locale ha negato qualsiasi aiuto, anche per quei pochi euro.

Il dolore di un numero crescente di bambini e di adolescenti, soli, privati di quelle radici e di quel nutrimento che garantiva lo sviluppo della loro vita morale, spirituale e intellettuale non è un enigma difficile da spiegare: loro hanno bisogno di pochissimo: un padre e una madre, con il loro amore e la loro capacità di difenderli dalle disattenzioni della nostra società, di tutelarli dal cinismo invadente di scelte giuridiche che se ne lavano le mani firmando il loro fiat a semplici applicazioni procedurali meccaniche e di prassi quotidiana.

Loro, i bambini, sacrificati per i valori penultimi, vengono al mondo, ogni volta, di nuovo e di nuovo, per ricordarci quali sono invece i valori ultimi, e in questo sta già tutto il motivo per cui noi (e il legislatore) dovremmo iniziare ad onorare la loro vita, e la loro famiglia.

Antonello Vanni

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