Giustizia italiana, reati minorili e convenzione di New York

L’art. 27 della nostra Costituzione individua nella rieducazione del soggetto condannato, maggiorenne o minorenne che sia, l’unico obiettivo della sanzione. Ma il diritto penale minorile italiano contiene vari ed importanti istituti per una più completa attuazione delle norme internazionali in materia

Per fornire risposte adeguate e soprattutto flessibili ai reati commessi dai minori, si proclama da anni la necessità che le legislazioni penali dimostrino maggior interesse nel promuovere il reale recupero del reo minore nel perseguimento dell’interesse superiore del fanciullo che, non va dimenticato, è sempre l’obiettivo principale da tener presente ogni qual volta le istituzioni devono affrontare problematiche che coinvolgono minori, così come sancito dall’art. 3 della Dichiarazione dei Diritti del Fanciullo del 1989. Infatti, il trattamento a cui deve venire sottoposto un minore deve essere tale “..da favorire il suo senso della dignità e del valore personale e che rafforzi il suo rispetto per i diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e che tenga conto della sua età nonché della necessità di facilitare il reinserimento nella società e di fargli svolgere un ruolo costruttivo in seno a quest’ultima.” (art. 40 Dichiarazione). In quest’ottica, a titolo d’esempio, è da sottolineare come la Dichiarazione preveda, dove possibile, la possibilità di adottare provvedimenti senza far ricorso a procedure giudiziarie.

Il processo non deve essere finalizzato alla mera irrogazione di sanzioni penali ma al recupero dei minori devianti nell’ambito di percorsi formativi ed educativi adeguati alle loro esigenze. Sul punto si deve ricordare che l’art. 27 della nostra Costituzione individua nella rieducazione del soggetto condannato, maggiorenne o minorenne che sia, l’unico obiettivo della sanzione penale. Per tale motivo, tra i principi fondamentali del processo troviamo la residualità dell’intervento penale rispetto ad interventi di tipo risocializzante.

Per poter dare una precisa attuazione a questi importanti principi del sistema italiano di diritto penale minorile, troviamo anzitutto la specializzazione dell’organo giudiziario deputato alla sua applicazione. Tale organo è rappresentato dal Tribunale per i minorenni, che è un organo “ordinario” e non “speciale”, poiché inserito nell’ordinamento giudiziario, ma che è appunto “specializzato” perché è costituito da collegi a composizione mista di magistrati di carriera ed ordinari, questi ultimi scelti fra categorie di esperti di materie non giuridiche, e che ha ampie competenze in materia minorile, oltre a quelle penali, quelle civile, essenzialmente destinate alla protezione dell’infanzia.

Si tratta dunque di un sistema processuale “particolare” e differenziato da quello vigente per gli adulti, sia per l’organizzazione dell’ufficio del giudice, che per le norme di rito applicate, che per l’apparato sanzionatorio previsto. Tale sistema si è reso obbligatorio per poter dare un’attuazione adeguata alle nome pattizie del diritto internazionale che prescrivono, tra le altre cose, la creazione per i minori di contesti punitivi diversi da quelli che i singoli ordinamenti costruiscono per gli adulti.

Il diritto penale minorile italiano, inoltre, contiene altri importanti istituti per una più completa attuazione delle norme internazionali in materia e delle disposizioni della Convenzione di New York.

Possiamo partire dall’istituto dell’ imputabilità del minore, secondo il quale il minore di anni quattordici non è imputabile, qualunque sia il reato che abbia commesso, e che per il minore tra i quattordici ed i diciotto anni l’imputabilità vada accertata caso per caso, non esistendo alcuna presunzione né di raggiunta maturità né di immaturità. Queste norme attuano il testo della Convenzione che all’ art. 40, comma terzo lettera a, dispone che gli Stati parti “si sforzino…di stabilire un’età minima al di sotto della quale si presume che i fanciulli non abbiano la capacità di commettere reato.” Tale disposizione potrebbe apparire superflua ma è da tener presente che non tutti gli ordinamenti giuridici attuano questi principi e che troppo spesso si aprono dibattiti dove si discute se assoggettare a sanzione penale persone poco più che infanti, quasi che il problema del bambino che compie reati, anche violenti, sia risolvibile semplicemente segregandolo in carcere, senza indagare con la dovuta cura ed attenzione sulle cause cha hanno portato alla sua condotta deviante, cercando se possibile di rimuoverle o di modificarle.

Il reato commesso da soggetto non imputabile per difetto assoluto d’età, ovvero poiché ritenuto in concreto incapace di intendere e di volere, non resta comunque senza conseguenze per il diritto penale; stabilito il principio della non irrogabilità della sanzione penale intesa in senso stretto, resta aperta la possibilità dell’applicazione di una misura di sicurezza (in particolare libertà vigilata, permanenza in casa, ricovero in comunità o riformatorio giudiziario) quando si tratti di gravi reati e vi sia constatata pericolosità sociale del prosciolto per difetto di imputabilità. Nel caso, invece, in cui il minore sia ritenuto capace di intendere e di volere e quindi possa rispondere penalmente del reato commesso, può beneficare di una particolare circostanza attenuante che consente ai giudici minorili di irrogare pene in genere contenute per fatti che, se commessi da un maggiorenne, porterebbero a condanne pesanti.

Altri importanti istituti volti ad evitare che il minore venga coinvolto in un lungo e complesso iter processuale (che potrebbe arrecargli più danni che benefici) sono rappresentati dall’irrilevanza del fatto, dalla sospensione del processo e dalla messa alla prova.

Nel primo caso, se il giudice accerta che il minore è imputabile, prima di passare al giudizio vero e proprio deve verificare che non vi siano le condizione per la pronuncia dell’irrilevanza del fatto al fine di una rapida ed “indolore” uscita del minore dal processo penale per la rapidità dei tempi della pronuncia. Questo istituto ben si lega a quanto previsto dalla Convenzione di New York (art. 40, terzo comma, lett.b) che auspica l’adozione di provvedimenti che consentano di trattare il minore senza il ricorso a procedure giudiziarie, ma sempre nel rispetto delle garanzie legali. Il diritto italiano è, infatti, attualmente inflazionato da troppe fattispecie di reato di scarsa o nulla rilevanza sociale. Così, laddove il Pubblico Ministero  lo ritenga, sulla base della tenuità del reato, dell’occasionalità della condotta del minore e del pregiudizio che allo stesso potrebbe derivare, può ricorrere a questo istituto in modo rapito.

Il giudice ricorre, invece, alla sospensione del processo  dopo aver stabilito che il minore giudicabile è imputabile e che il fatto per cui si procede non è irrilevante. A questo punto il giudice potrà verificare se sia possibile sospendere il processo per mettere il minore alla prova, sulla base di un programma redatto dal servizio sociale per minori. Questi ultimi svolgeranno un’attività di osservazione, trattamento e sostegno, per le quali è previsto (ove possibile) il coinvolgimento della famiglia e dell’ambiente di vita del minore visto che lo scopo di quest’istituto è la rieducazione del minore. L’attività richiesta può dunque rilevarsi estremamente complessa poiché necessita della collaborazione di diversi soggetti e della mobilitazione di varie risorse, anche economiche, che non sono immediatamente a disposizione del giudice ma richiedono un intervento di altre amministrazioni, della famiglia, del volontariato.

Anche la messa alla prova, perseguendo obiettivi di trattamento extra-carcerario del minore, risponde pienamente agli scopi indicati della Convenzione. Va detto però, che questa soluzione richiede una modifica legislativa che ne precisi l’ambito e le procedure di applicazione e soprattutto preveda la destinazione alla sua attuazione di maggiori risorse finanziarie che lo rendano utilizzabili per i minori più a rischio che troppo spesso vanno in carcere senza reali alternative, come avviene per gli stranieri irregolari, i nomadi, i minori appartenenti a famiglie coinvolte in attività criminose. Questi soggetti di fatto sono quasi sempre esclusi per la mancanza di risorse ambientali e familiari utilizzabili per i progetti a loro favore.

Qualora il giudice, esaurite tutte le possibilità precedentemente illustrate, ritenga di dover pronunciare una sentenza declaratoria di responsabilità penale del minore per il reato di cui è imputato, non significa che a tale pronuncia consegua automaticamente una condanna ad una pena da scontare in carcere esistendo altri istituti destinati ad evitare la detenzione pura e semplice.

In particolare il perdono giudiziale è forse il più noto tra gli strumenti indulgenziali a disposizione del giudice minorile. Presupposto per la concessione di questo beneficio è che il giudice ritenga che il minore si asterrà per il futuro dal commettere ulteriori reati. Tale istituto è molto utilizzato poichè risponde a logiche indulgenziali e non reca con sé quelle valenze e quegli effetti rieducativi e trattamentali che spesso possono apparire inutili o eccessivi rispetto alla gravità in concreto dei reati commessi; anche questo istituto, come quelli analizzati in precedenza, risponde alle disposizioni previste dell’art 40, terzo comma della Convenzione di New York che privilegiano, ove possibile, trattamenti non giudiziari e comunque improntati a mitezza, anche se la concessione della misura può talora  indurre il minore a ritenere che le sue azioni restino in ogni caso prive di sanzione, con il conseguente pericolo di recidiva cui magari consegue una condanna a pena detentiva da scontare.

Sulla medesima linea di una politica criminale improntata a mitezza si muove la sospensione condizionale della pena. Come per il perdono giudiziale, il giudice deve presumere che il condannato si asterrà dal commettere ulteriori reati , ma va detto che la misura viene concessa con una certa larghezza anche in assenza di precisi riscontri al riguardo, venendo in pratica ad assumere un carattere spiccatamente indulgenziale. A differenza del perdono, la sospensione della pena ha un effetto di stigmatizzazione ben maggiore, posto che viene iscritta sul certificato penale del condannato e non viene automaticamente cancellata al compimento del ventunesimo anno, e soprattutto che può essere revocata, con la conseguente automatica esecuzione della pena.

Infine, vi sono anche le sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi come: la semidetenzione, con obbligo di trascorrere in istituto dieci ore al giorno, la libertà controllata che implica una serie variabile di divieti ed obblighi per il condannato, e le sanzioni pecuniarie irrogate in luogo di quelle detentive. Le sanzioni sostitutive rispondono dunque a due dei requisiti indicati dalla Convenzione di New York, perché da una lato riducono per i minori l’area delle sanzioni detentive vere e proprie, dall’altro possono essere pronunciate in tempi relativamente brevi realizzando così l’esigenza del minor contatto possibile del minore con gli organi processuali penali.

In ultimissima analisi bisogna far riferimento ad un’ ipotesi molto particolare ma in Italia ancora tutta da sperimentare e non molto diffusa. Si tratta dell’ipotesi di “mediation” che permette al giudice minorile di impartire specifiche prescrizioni dirette “a riparare le conseguenze del reato ed a promuovere la conciliazione del minorenne con la persona offesa dal reato.”

Da questa rapida analisi, possiamo dunque concludere che il sistema penale e processuale minorile italiano è un sistema elastico e finalizzato nelle sue linee generali a dare risposte il più possibile extracarcerarie. Si osserva però che le carceri minorili sono piene di ragazzi in attesa di giudizio e di detenuti in esecuzione di pena definitiva. Si nota anche che il numero di minorenni denunciati sta progressivamente aumentando in modo preoccupante e che, in conseguenza di ciò, va crescendo l’allarme sociale per la c.d. delinquenza minorile, allarme che (spesso gonfiato ad arte da molti mass media) sollecita risposte sempre più severe da parte dello Stato.

Certamente vi sono varie sfide per il sistema penale minorile: quella più difficile è probabilmente rappresentata dalle fasce più marginali ed instabili della popolazione giovanile, in particolare dai ragazzi nomadi e dagli stranieri irregolari, che vivono spesso in gravi condizioni di deprivazione materiale e morale e con rischi continui di coinvolgimento in attività criminali, quali furti in abitazione per i nomadi e lo spaccio di stupefacenti per gli extra-comunitari. Le misure alternative alla detenzione, cautelare o definitiva, che sin qui abbiamo descritto, non sono in realtà applicabili a questi minori, così come per loro non è ipotizzabile alcun progetto di messa alla prova, né un coinvolgimento dell’ambiente in cui vivono, della famiglia che non esiste o che può essere la vera mandante dei reati che commettono, della scuola che non frequentano e del lavoro, inteso come occupazione stabile e regolare, che non hanno e che non avranno mai.

Se dovessimo fermarci a queste osservazioni, dovremmo concludere che quello descritto è un sistema previsto solo sulla carta ed inadeguato a dare una risposta efficace alla delinquenza minorile: ciò sarebbe riduttivo ed ingiusto.

Questi giovani stranieri apparentemente senza un nome e senza  una storia che passano nelle nostre aule di giustizia, questi “giovani delinquenti” che sembrano privi di alternative, impongono in realtà una risposta  che non sia solo formale ma che mobiliti risorse effettive e durature, risorse anche e soprattutto non giudiziarie, e ciò anche allo scopo di evitare l’illusione che il processo, come tale, sia la soluzione dei problemi di un giovane in difficoltà, potendo al massimo rappresentare un’ occasione per affrontarli.

Bisogna allora osservare che certamente questo sistema penale, fondato su un’ampia discrezionalità del giudice e sulla mobilitazione di risorse che spesso non ci sono, rischia di creare delle disparità di trattamento, a danno proprio dei soggetti più bisognosi di tutela e di aiuto e che, se ciò di per sé non rappresenta una violazione del principio di uguaglianza di fronte alla legge, certamente sollecita uno sforzo da parte di tutti i soggetti coinvolti per trovare soluzioni di progettualità praticabile, pena la creazione di un vero e proprio doppio binario nel trattamento penale del minore.

 

Matteo Corrado

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