Il nocciolo del problema Semantica o paradosso?

La gente chiama abbandono il gesto di abbandonare; il diritto invece utilizza la stessa parola per indicare tanto la condizione del bambino quanto quello della persona che abbandona. Si generano così paradossi per cui, mentre di fronte al tribunale per i minorenni si protraggono procedimenti su famiglie multiproblematiche, ci troviamo a discutere se sia o meno abbandonodi minore lasciare che il proprio figlio percorra da solo il tragitto da casa a scuola o partecipi alla vita della associazione sportiva o parrocchiale

Tutti siamo colpiti come persone, indipendentemente dal ruolo sociale dalla professione o dall’ età, dalle notizie che ci narrano di situazioni terribili di abbandono in cui sono coinvolti dei bambini. Istintivamente il moto di rabbia che ne deriva ci porta a dire: perché non sono intervenuti prima i servizi? possibile che non si possa fare nulla? come mai non si può dare in adozione? e cose di questo tipo.  Sono legittime reazioni ma che non tengono conto di una serie di delicate condizioni e di normative precise che presiedono a questi aspetti della vita sociale e familiare. Aspetti che si manifestano con sentimenti opposti quando sentiamo una mamma o un padre in televisione narrare di come siano stati tolti loro i figli senza alcun valido apparente motivo.

Chi ha dei compiti istituzionali di protezione dei bambini o svolge ruoli socialmente rilevanti, chi ha compiti delicati nella informazione e formazione della pubblica opinione sa bene che questa è desiderosa di emozioni forti e dunque si indigna tanto per un bambino che vive nel degrado di una famiglia incapace quanto per la famiglia a cui siano stati tolti i figli senza mai preoccuparsi di entrare nel merito della valutazione attenta di ciò che sottende a questi opposti ed apparentemente paradossali esempi. Di fatto andando a leggere con attenzione la copiosa letteratura tecnica sia di campo sociale,psicologico,terapeutico,relazionale, sia di campo giuridico ci si rende conto che troppe volte ciò che oggi scandalizza degli interventi sulla famiglia è spesso ciò che non si è voluto cambiare con riferimento alle norme che tale intervento regolano. Intendiamoci sono state fatte molte modifiche delle normative in essere, ancor’oggi si propongono ulteriori interventi in materia di adozione, con l’intento però di semplificare le procedure, ma senza affrontare invece il nocciolo del problema che è la nozione stessa di abbandono di minore.

Essa si desume dal combinato disposto di alcune norme del codice penale e dalle norme relative alla adozione. Va infatti subito detto che per il minore di cui sia accertato lo stato di abbandono si apre la strada della adozione. La gente comunemente chiama abbandono il gesto di abbandonare, il diritto invece utilizza la stessa parola per indicare tanto la condizione del bambino, quanto quello della persona che abbandona. Si generano così dei paradossi per cui mentre di fronte al tribunale per i minorenni si protraggono dei procedimenti su famiglie multiproblematiche, passando da un provvedimento ad un altro in una estenuante catena di fallimenti, dall’altro ci troviamo a discutere se sia o meno abbandono di minore lasciare che il proprio figlio secondo le proprie capacità possa percorrere da solo il tragitto da casa a scuola o partecipare autonomamente alla vita della associazione sportiva o parrocchiale.

Purtroppo le nozioni che regolano tale materia sono ancora le stesse di quando il nostro Codice Penale fu approvato e cioè sono norme di oltre settanta anni fa e stavano forse bene per una società diversa dalla nostra, una società che considerava il maltrattamento in famiglia solo quando generava conseguenze fisiche, e quando non fosse la conseguenza di una  punizione o di una esigenza di correzione. Tutt’ora sopravvive nel nostro codice la norma sull’abuso dei metodi di correzione che prevede consistenti sconti di pena anche nel caso in cui il metodo usato arrivi a procurare in colui che si vuol correggere delle lesioni gravissime o la morte. Qualsiasi intervento sociale o giudiziario dunque oggi si trova a scontare un ingiustificato ritardo nell’adeguamento dell’apparato normativo che presiede agli interventi sulla famiglia quando questa sia disfunzionante.  La conoscenza scientifica in materia ci consentirebbe di riconoscere una vasta gamma di comportamenti che possiamo classificare come abusanti o gravemente abusati i doveri connessi alla responsabilità genitoriale, che non si riassumono nella nozione di abbandono, ma dei quali è estremamente complesso poter far uso nelle aule di tribunale.

Ad oggi infatti i giudici minorili si trovano a poter decidere di rescindere il legame familiare solo in presenza di una condizione di abbandono del figlio in quanto privo della assistenza  morale e materiale  da parte dei genitori o di chi vi sia tenuto (cfr L184/83 mod.L149/01). Un genitore può subire la decadenza della potestà genitoriale solo quando sia provato che il suo comportamento sia trascurante o abusante le prerogative genitoriali al punto da arrecare pregiudizio grave sul figlio (art.333 cc). Queste sono le categorie di interpretazione giuridica, e sono straordinariamente povere. La nozione di abbandono anche nel linguaggio comune indica l’assenza o la rottura di un legame ma, come la letteratura in materia ci insegna il genitore maltrattante ha un legame con il figlio molto forte, anzi così forte da annientare il figlio stesso. Per poter spezzare quel legame il giudice ha bisogno di svolgere con grande approfondita perizia le valutazioni sul caso, di considerare tutti gli elementi in gioco ben sapendo che dall’altra parte avrà a che fare con periti e legali di parte che cercheranno di dimostrare l’assenza del requisito di abbandono. La gamma di comportamenti disfunzionanti nella relazione genitori figli va dal maltrattamento fisico, il più facile da rilevare, al maltrattamento psicologico che è fortemente distruttivo, ma non altrettanto facilmente rilevabile, alla patologia delle cure ossia la trascuratezza e l’ipercura, fino al coinvolgimento sessuale. Per quanto siano studiati tali comportamenti sono sempre difficilmente rilevati e segnalati anche perché gli operatori temono molto le contrazioni giudiziarie e mediatiche da parte delle famiglie.

Per interrompere la catena di violenza che inevitabilmente si instaura nelle famiglie maltrattanti mediante il meccanismo di identificazione della vittima con il suo aggressore, dobbiamo imparare ad interpretare quei messaggi di disagio che sempre ci invia il bambino vittima di abuso, messaggi che vuole siano utilizzati. La domanda che dobbiamo porci sempre è: questo segno è afferibile ad un maltrattamento o no? Ritardi ed arresti di crescita, ritardo psicomotorio, disturbi del sonno, enuresi notturna, encopresi, disturbi selettivi dell’alimentazione, difficoltà relazionali, iperattività, momenti di assenza, irruzione di angoscia, la scomparsa delle abitudini ludiche, la tristezza e il pianto apparentemente privi di motivazione, il calo improvviso del rendimento scolastico, gli atteggiamenti sessualizzati (interessi e conoscenze sessuali non adeguate per l’ età), il rifiuto a lavarsi o i lavaggi ossessivi… anche questi sono segnali che dobbiamo imparare a leggere, ma anche a capire nel portato distruttivo della vita quotidiana di questi bambini.

In buona sostanza questo quadro clinico descritto per le vittime del maltrattamento e dell’abuso deve far pensare a questi bambini e ragazzi come soggetti “ difficili” che faticano ad inserirsi nel gruppo amicale perché sono troppo violenti, o eccessivamente solitari, perché spenti e incapaci di giocare; si tratta di bambini che si vergogneranno di se stessi e dei propri genitori,ma non sapranno dirlo, che difficilmente potranno come tutti i bambini fare una festa di compleanno a casa propria invitando e godendo della presenza dei compagni di classe; si tratta di bambini che ogni giorno arrivando a scuola sporchi o vestiti male dovranno subire l’umiliazione del dileggio dei compagni. È chiaro infatti che episodi di incontinenza, ad esempio, possono avere un impatto assai grave nelle relazioni sociali di un bambino a scuola o nel gruppo amicale, così come l’ incapacità di giocare o l’aggressività. La tristezza e la depressione del bambino non sono solo stati d’animo difficili, ma comportano un faticosissimo carico di terapia, colloqui, farmaci, tale da indurre il bambino a sentirsi malato e non già vittima del fatto che per troppo tempo egli sia stato indirettamente costretto a vivere in un nucleo maltrattante a causa di una errata valutazione sulle possibilità di recupero del nucleo o di un giudizio protratto per troppo tempo .

Fatto salvo che la scuola, il sistema dei servizi o  qualsiasi operatore, abbia obblighi indifferibili di segnalazione all’autorità giudiziaria, ciò che rileva dall’esperienza è la difficoltà a realizzare una vera e corretta analisi delle situazioni di disagio in cui vivono i minori a causa dell’esercizio abusante o trascurante delle potestà genitoriali ossia di una carenza diagnostica. La valutazione sulle capacità genitoriali è inficiata da un eccesso di narrazione, mentre l’esigenza diagnostica è limitata da un apparato giuridico contraddittorio al punto da divenire esso stesso un fattore paradossale e confusivo. Come già detto né la nozione di abbandono è chiara, né quelle successivamente adottate di inidoneità temporanea o parziale, né tantomeno quella vetusta del comportamento pregiudizievole. Mentre le scienze sociali ci consentono di costruire ipotesi attendibili sul rischio cui sono esposti i minori in certi ambienti o in certi sistemi relazionali, il nostro diritto pare voler intervenire solo quando i comportamenti sono in atto e i danni dono realizzati abdicando alla funzione più nobile del diritto stesso che è quella di dare forza a chi non ne ha. Nel caso delle relazioni genitoriali è ovvio che sia il bambino a non avere forza o potere e che dunque il diritto dovrebbe prioritariamente guardare a lui, pur senza con ciò consentire un arbitraria ingerenza del potere pubblico sulla vita familiare.

Un utile punto di partenza a mio avviso sarebbe quello di rideclinare i poteri e gli interventi della autorità pubblica sulla famiglia secondo il dettato costituzionale che a suo tempo introduceva il concetto di capacità/incapacità, assai più evoluto di quello di pregiudizio e meno ambiguo di quello successivamente introdotto di in/idoneità: nei casi di incapacità la legge provvede a che siano adempiuti i loro compiti (art. 30 cost) . A differenza di quello di idoneità, il concetto di capacità è legato ad un fare ad un saper fare, ovvero ad un non fare e non saper fare, che consente di frazionare il giudizio sui genitori valutando in modo il più possibile obiettivo le singole abilità educative, materiali, affettive, la cui presenza o carenza, la cui recuperabilità o irrecuperabilità possono essere molto ben individuate ma anche compensate e riacquisite grazie ad un progetto di recupero. Proprio per la peculiare concretezza del concetto di capacità, esso sostiene meglio sia il genitore che vede invasa la sfera privata del suo rapporto con i figli offrendogli un giudizio non assoluto e radicale, sia l’operatore nella valutazione, sempre drammatica, se per quel minore sia meglio restare inserito in quel nucleo o venirne sradicato, se per quel minore sia meglio un affidamento o una adozione. Frazionando il percorso di recupero delle capacità educative del nucleo, dunque, si può consentire al giudice l’assunzione di provvedimenti prescrittivi che, in caso di carenza d’esecuzione, consentirebbero una più facile ed oggettivabile modulazione o limitazione del rapporto genitoriale fino ad arrivare alla sua rescissione. Ai sensi della Convenzione internazionale di New York tale provvedimento radicale può essere giustificato solo quando un minore “non può essere lasciato in tale ambiente (familiare) nel suo proprio interesse”. Questo concetto consentirebbe di introdurre, nella valutazione che il giudice deve fare rispetto alla condizione di vita del minore, quel concetto che oggi è molto usato dalle scienze sociali, ma non ancora da quelle giuridiche e che passa sotto la nozione di rischio.

La nozione di rischio non è una versione moderna della definizione di pregiudizio, in quanto, a differenza di quella di pregiudizio, è più orientata alla individuazione prospettica del complesso delle condizioni che a quel minore devono essere garantite per poter avere uno sviluppo armonico, piuttosto che ai singoli comportamenti che debbono essere vietati o limitati.

Combinando i concetti di capacità, rischio ed interesse del minore, si potrebbero definire le diverse gradualità di interventi assistenziali e protettivi. Esistono, infatti, diverse condizioni di incapacità della famiglia che potrebbero mettere a rischio lo sviluppo del minore, ma che non sono tali da determinare provvedimenti definitivi di allontanamento del minore, e che dunque possono essere rimosse attraverso precisi interventi del servizio e prescrizioni del giudice che in modo inequivoco descrivono ciò che una famiglia deve fare, le carenze da colmare, i supporti di cui necessita e i tempi entro cui può prevedibilmente recuperare tali capacità compromesse. Nel contempo esistono forme così gravi di incapacità ove soprattutto non vi è coscienza del danno che si arreca al minore, ove è opportuno nell’interesse del minore disporre un allontanamento del minore stesso, dando luogo alla definitiva rescissione del vincolo familiare. Come si è potuto intendere in tal modo vengono individuati diversi gradi di intervento sulle potestà genitoriali i quali originano da una diversa organizzazione degli elementi di giudizio desunti dai concetti di capacità, rischio ed interesse del minore.

 

Francesco Milanese
Tutore pubblico dei minori
del Friuli Venezia Giulia

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