Dopo esserci occupati delle unioni civili è la volta delle convivenze, anch’esse oggetto di regolamentazione da parte della legge del 20 maggio 2016, n. 76, c.d. legge Cirinnà, ulteriore tassello di quel complesso mosaico rappresentato dalle relazioni familiari nell’attuale contesto sociale fatto sempre meno di famiglie nucleari tradizionali e sempre più di famiglie “ricomposte” o allargate in cui, a seguito della crisi della famiglia di origine per separazione o divorzio, si instaura una nuova unione affettiva cui partecipano figli nati dal precedente matrimonio e figli nati dalla nuova unione.
In questa realtà sociale dove le famiglie si scompongono e si ricompongono, sono sempre più gruppo e meno istituzione, risalutava ormai inadeguata una normativa orientata esclusivamente alla tutela dei membri della famiglia fondata sul matrimonio.
Pertanto, insieme al matrimonio tra persone di sesso diverso, alle unioni civili che riguardano le coppie del medesimo sesso, la terza formazione sociale legalmente riconosciuta nel nostro ordinamento giuridico è quella delle convivenze di fatto, che potranno riguardare sia coppie eterosessuali che omosessuali.
Diversamente dalla regolazione delle unioni civili, largamente ispirata a quella del matrimonio e quindi basata su precisi dritti e doveri all’interno della coppia, le norme sulla convivenza sono improntate ad una “disciplina leggera”, rispettose del principio che deve esistere uno spazio di libertà consapevole per gli individui che non vogliono essere etero diretti, ma vogliono vivere il loro rapporto al di fuori di schemi prefissati.
Libertà non significa però totale assenza di tutela o di effetti quando la convivenza di fatto sia stata duratura e stabile, e la scelta del legislatore, di fronte ad un fenomeno sempre più diffuso (secondo l’ISTAT le famiglie di fatto sono cresciute più del doppio dal 2008 al 2014 e di quasi dieci volte rispetto agli anni 1993/1994) si è orientata nell’individuare una serie di diritti specifici volti a tutelare soprattutto il partner debole all’interno della coppia di fatto.
Per essere “conviventi di fatto” occorre essere due persone maggiorenni ed avere un legame affettivo caratterizzato dalla reciproca assistenza morale e materiale, non è richiesta alcuna durata minima del rapporto.
La convivenza di fatto non non ha bisogno di forme solenni ma si deve solo chiedere che i dati di entrambi i conviventi siano inseriti nel medesimo Stato di Famiglia; ciascuno conserverà il suo cognome .
Chi sceglie di convivere è tenuto alla reciproca assistenza ed alla coabitazione. Nella convivenza non c’è un regime patrimoniale legale, ma i conviventi possono disciplinare le modalità della contribuzione e della partecipazione alle spese del loro menage attraverso un contratto di convivenza, che consente di regolare solo diritti di natura patrimoniale.
Se sono coinvolti beni immobili, l’atto deve essere redatto o autenticato da un notaio; negli altri casi, può essere autenticato da un notaio o da un avvocato.
In ogni caso la pianificazione dei rapporti patrimoniali può essere effettuata anche con altri tipi di atti come le donazioni, gli atti di destinazione, i trust, ecc.
Il contratto di convivenza può essere sciolto in qualsiasi momento consensualmente e ciascuno dei due conviventi può recedere anche senza il consenso dell’altro. La morte di uno dei conviventi o il fatto che uno dei due si sposi o costituisca una unione civile anche con una persona diversa dall’altro convivente, fa perdere automaticamente efficacia al contratto di convivenza .
Se una delle due persone necessita di cure e assistenza, perché ammalato è possibile designare il convivente come amministratore di sostegno; in questo caso al convivente possono essere affidate le decisioni sulla propria salute nel caso in cui non si sia più in grado di intendere e di volere, le scelte in materia di donazione di organi, di trattamento del proprio corpo e di celebrazioni funerarie, nel caso di decesso.
In caso di morte di una delle due persone il convivente superstite ha diritto di subentrare nel contratto di locazione della casa dove si è svolta la convivenza, ma non ha diritto di ricevere le indennità per cessazione del rapporto di lavoro.
Se casa in cui la convivenza si è svolta è di proprietà del compagno deceduto, il ocnvivente superstite avrà il diritto di abitarla per due anni o per il maggior tempo di durata della convivenza stessa, ma al massimo per cinque anni.
Non ha diritto a quote ereditarie né alle indennità che spettano per il caso di morte del lavoratore dipendente. Essendo vietati i patti successori, il contratto di convivenza non può disciplinare la futura eredità dei conviventi: il solo modo per farlo è il testamento.
In caso di cessazione della convivenza di fatto il giudice può stabilire che un convivente riceva dall’altro gli alimenti se versa in stato di bisogno e non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento. Questo diritto non è senza termine, ma è proporzionato alla durata della convivenza ed commisurato al bisogno di chi lo domanda e delle condizioni economiche di chi devo provvedervi, in ogni caso non può superare quanto sia necessario per la vita di chi ha diritto di ricevere questo mantenimento, avuto però riguardo alla sua posizione sociale.
Il riconoscimento di questa tutela patrimoniale per il convivente meno abbiente è il naturale corollario di quel dovere di solidarietà tra conviventi per tutta la durata del rapporto.
Gea Arcella