Il senso d’insicurezza

Valentina Alfarano

“In realtà, ci trattano come lavoratori usa e getta: ci assumono quando serve e ci lasciano senza alcuna risorsa quando non hanno più bisogno di noi, vorremmo riacquistare fiducia nelle istituzioni, nelle leggi, nella soddisfazione ottenuta dal lavoro compiuto”

«C’è un cambiamento in atto nell’economia di tutto il mondo: le grandi aziende produttrici non progettano più i loro piani di sviluppo come se appartenessero ad un singolo Stato, ma pensano al mondo intero come ad un unico grande mercato, all’interno del quale le loro merci ed i loro servizi possono muoversi liberamente e rapidamente». Così afferma Raoul Ortega, 31 anni, che da Siviglia si è trasferito a Reggio Calabria aderendo al progetto Leonardo. Raoul ha deciso di cambiare vita, trasferirsi per tentare la fortuna. Naturale ed unica reazione allo stato di insoddisfazione e di incertezza generato da questa nostra società dispensatrice di falsi bisogni ed “illusorie chimere”.
«Chi si impegna seriamente negli studi, chi, a costo di sacrifici, consegue un diploma o una laurea, ha diritto ad un adeguato inserimento nel mondo del lavoro. Ciò, invece, solitamente non avviene. Mai come oggi è stato tanto grave il problema della disoccupazione intellettuale» prosegue Sebas Garcia Valdes, 24 anni, di Murcia. Sono in tanti che la pensano come lui, ragazzi polacchi, portoghesi, spagnoli, accomunati da sogni e fantasie. Ragazzi stanchi di strutturare la propria esistenza nell’incertezza e con un profondo senso di insoddisfazione.
Basta anche solo sfiorare l’argomento per aprire un dibattito che mette a confronto ragazzi di culture diverse, provenienti da città differenti, ma che hanno qualcosa in comune: in questo mondo nel quale sembra non vi sia posto per qualcosa di solido e concreto, nel quale sembra che tutto “fluisca e scompaia”, c’è ancora chi non si lascia vincere dalle difficoltà e prosegue con forza nel proprio cammino.
Come Ines Agnieszka, 21 anni, di Lublin, studentessa di Giurisprudenza a Reggio Calabria grazie ad una borsa di studio Erasmus. Afferma: «In un’epoca fondata sull’uguaglianza, non solo giuridica, ma, per quanto possibile, anche di fatto e sociale, permane il tabù che vi siano professioni di élite e mestieri che degradano socialmente chi li compie, quasi che il lavoro non fosse sempre onorevole, a qualunque gradino effettuato. È paradossale predicare l’uguaglianza, la lotta al razzismo, la scuola obbligatoria, mentre abbiamo realizzato il tabù del lavoro del professionista, dell’operaio, del lavoratore della terra». «Quello che abbiamo notato vivendo da un anno in Italia – prosegue Iana Emilova, 22 anni, di Sofia – è che in Italia nessuno incita chi non possieda attitudine allo studio a scegliere, piuttosto che un corso di laurea, un diverso orientamento professionale, finalizzato ad un lavoro decoroso, che veramente nobiliti in ogni caso l’essere che lo effettua».
La maggior aspirazione nel campo del lavoro «un tempo era quella del “posto fisso”, un impiego stabile e duraturo. Oggi questa tipologia lavorativa è, a dir poco, un’utopia. Ci stiamo abituando, per forza di cose, a lavorare per periodi più o meno brevi, a cambiare lavoro e mansioni. E anche città. La realtà – prosegue, con amarezza, Ines de Lancastre, di Porto – è quella che è: le grandi aziende cercano con ogni mezzo di ridurre il personale; gli stessi enti pubblici assumono ormai con il contagocce. Il mercato del lavoro è dominato da una sola parola d’ordine: flessibilità. In realtà, ci trattano come lavoratori usa e getta: ci assumono quando serve e ci lasciano senza alcuna risorsa quando non hanno più bisogno di noi».
«Il fatto è che nasce nei singoli un senso di insicurezza» prosegue Jose Luis, 24 anni, di Murcia.
«Io, forse, sono un po’ più pessimista: sembrerà una frase forte, ma la realtà è che mi guardo intorno e non vedo altro che macerie. Sono deluso, smarrito, me ne sono scappato dalla vita sociale e civile del mio Paese, ma qua le cose non sembrano migliori: viviamo in un mondo che sa solo prendere, ma non ha nulla da offrire». Chi parla è Manuel Garcia, 28 anni, giunto in Italia con il progetto Leonardo, costretto a ritornare in Spagna dopo i tre mesi stabiliti perché qui, a Reggio Calabria, non trova lavoro.
Mi piace concludere con la riflessione di Manuel perché rispecchia il pensiero di tutti noi, giovani, disoccupati globali: «In fondo, non vorremmo altro che riacquistare fiducia nelle istituzioni, nelle leggi, negli ideali, nella soddisfazione proveniente dal lavoro compiuto. Pretendiamo una società in cui il diritto alla dignità del lavoro non si debba mercanteggiare con una spinta, una raccomandazione».

Valentina Alfarano
Scienze della Comunicazione Pubblica e Sociale – Università Alma Mater Studiorum di Bologna

Rispondi